Corso di Laurea in

Studio e Gestione dei Beni Culturali

Dispensa per il Corso di

Chimica Analitica per i Beni Culturali

 

Docente:   Dott. Maurizio Aceto

                Università del Piemonte Orientale - Facoltà di Scienze M.F.N. - Sede di Alessandria

                Tel. 0131 287408

                Fax 0131 287416

                Email maurizio.aceto@unipmn.it

 

Indice

1 - La Chimica Analitica applicata allo studio delle discipline umanistiche

1.1 - L'Archeometria

1.2 - I contributi della Chimica

1.2.1 - Datazione di un reperto

1.2.2 - Autenticazione di un reperto

1.2.3 - Informazioni tecnologiche

1.2.4 - Informazioni aggiuntive

1.2.5 - Conservazione e restauro

1.2.6 - Studi di provenienza

2 - Nozioni di Chimica

2.1 - Introduzione

2.2 - Struttura dell'atomo

2.2.1 - Due numeri magici

2.2.2 - La Tavola periodica di Mendeleev

2.3 - Struttura della materia

2.3.1 - Il legame chimico

2.3.2 - Le reazioni di ossidoriduzione

2.3.3 - Stati della materia

2.3.4 - Struttura della materia solida

2.3.5 - Minerali e rocce

3 - Tecniche analitiche

3.1 - Le tecniche spettroscopiche

3.1.1 - Spettroscopia atomica

3.1.1.1 - La spettroscopia di assorbimento atomico

3.1.1.2 - La spettroscopia di emissione atomica

3.1.1.3 - La spettrometria di massa con plasma induttivamente accoppiato (ICP-MS)

3.1.1.4 - La tecnica laser ablation

3.1.1.5 - Tecniche di analisi isotopica

3.1.2 - Spettroscopia molecolare

3.1.2.1 - Spettroscopia UV-visibile di assorbimento

3.1.2.2 - Spettroscopia infrarossa di assorbimento

3.1.2.3 - Spettroscopia Raman

3.1.3 - Spettroscopia XRF

3.1.4 - Spettroscopia XRD

3.1.5 - Analisi per attivazione neutronica

3.1.6 - Tecniche di analisi superficiale

3.1.6.1 - Microscopia elettronica e SEM

3.1.6.2 - Spettroscopia PIXE

3.2 - Le tecniche cromatografiche

3.2.1 - Cromatografia liquida

3.2.2 - Gascromatografia

4 - Trattamento dei dati

4.1 - Introduzione

4.2 - Tecniche di classificazione

4.2.1 - Tecniche unsupervised

4.2.1.1 - Analisi delle componenti principali

4.2.1.2 - Analisi a cluster

4.2.2 - Tecniche supervised

5 - I materiali di interesse artistico e archeologico

5.1 - I materiali lapidei

5.1.1 - Definizione

5.1.2 - Il marmo

5.1.3 - La quarzite

5.1.4 - La selce

5.1.5 - Basalto, arenaria e granito

5.1.6 - La steatite

5.1.7 - Le pietre calcaree

5.1.8 - Il turchese

5.1.9 - La giada

5.1.10 - L'alabastro

5.1.11 - Le gemme

5.1.12 - Pigmenti inorganici

5.1.13 - L'ossidiana

5.1.14 - Interesse allo studio dei materiali lapidei

5.1.15 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali lapidei

5.2 - I materiali vetrosi

5.2.1 - Introduzione

5.2.2 - Formazione di materia vetrosa naturale

5.2.3 - Perchè si forma il vetro?

5.2.4 - La chimica del vetro

5.2.5 - Il colore del vetro

5.2.6 - Chi forma il vetro

5.2.7 - Interesse allo studio del vetro

5.2.8 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali vetrosi

5.2.9 - I precursori del vetro

5.2.10 - Il vetro egiziano

5.2.11 - Il vetro romano

5.2.11.1 - Il vaso Portland

5.2.11.2 - La Coppa di Licurgo

5.2.12 - Il vetro asiatico

5.2.13 - Il vetro post-romano in Europa

5.2.14 - I mosaici

5.2.15 - Vetrate colorate

5.2.16 - Rinascimento

5.2.17 - Art Nouveau

5.3 - I materiali ceramici

5.3.1 - Definizione di ceramica

5.3.2 - Le materie prime

5.3.3 - Le proprietà dell'argilla

5.3.4 - Il processo di cottura

5.3.5 - Classificazione della ceramica

5.3.6 - Classificazione tecnologica

5.3.7 - Come si prepara un prodotto ceramico

5.3.8 - La cottura

5.3.9 - Il colore della ceramica

5.3.10 - La superficie delle ceramiche

5.3.11 - I rivestimenti vetrosi

5.3.12 - Interesse allo studio della ceramica

5.3.13 - Tecniche analitiche per lo studio della ceramica

5.3.14 - La ceramica nella storia dell'uomo

5.3.15 - Vasi attici

5.3.16 - Ceramica romana

5.3.17 - Ceramica orientale

5.3.18 - L'introduzione del rivestimento vetroso

5.3.19 - La porcellana

5.4 - I materiali metallici

5.4.1 - Introduzione

5.4.2 - Interesse allo studio dei metalli

5.4.3 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali metallici

5.4.4 - Rame

5.4.5 - Bronzo

5.4.6 - Stagno

5.4.7 - Piombo

5.4.8 - Zinco

5.4.9 - Ferro

5.4.10 - Oro

5.4.11 - Argento

5.4.12 - Altri metalli

5.4.13 - Altri elementi

5.4.14 - Le monete

5.5 - I materiali coloranti

5.5.1 - La luce

5.5.2 - Lo spettro elettromagnetico

5.5.3 - Luce bianca e colorata

5.5.4 - L'origine del colore

5.5.5 - Definizione di colore

5.5.6 - Produzione di colore

5.5.7 - Percezione del colore

5.5.8 - Il colore nella storia dell'uomo

5.5.9 - Tipi di materiali coloranti

5.5.10 - Tecniche pittoriche

5.5.11 - Lista dei materiali coloranti noti

5.5.12 - Interesse allo studio dei materiali coloranti

5.5.13 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali coloranti

5.5.14 - I colori della preistoria

5.5.14.1 - Lascaux

5.5.14.2 - Altamira

5.5.15 - Le civiltà del Mediterraneo

5.5.15.1 - Il cinabro

5.5.15.2 - Lapislazzuli e Blu oltremare

5.5.16 - I colori degli egizi

5.5.16.1 - Gli usi del colore presso degli egizi

5.5.16.2 - Blu egiziano

5.5.17 - I colori del mondo greco-romano

5.5.17.1 - Porpora di Tiro

5.5.18 - I colori dell'Oriente

5.5.19 - I colori delle civiltà precolombiane

5.5.20 - I colori nel Medioevo

5.5.21 - Manoscritti illuminati

5.5.21.1 - Gli inchiostri

5.5.21.2 - Analisi chimica dei manoscritti illuminati

5.5.21.3 - A Bible laid open

5.5.21.4 - Altri manoscritti

5.5.22 - La pittura ad olio e il Rinascimento

5.5.23 - I pigmenti sintetici

5.5.24 - Il XX secolo

5.5.25 - I colori nell'industria tessile

5.5.26 - Leganti e vernici

5.5.26.1 - Composti a base di proteine

5.5.26.2 - Composti a base di polisaccaridi

5.5.26.3 - Composti a base di acidi grassi

5.5.26.4 - Resine

5.5.26.5 - Caratterizzazione di leganti e vernici

5.6 - I materiali organici

5.6.1 - Introduzione

5.6.2 - Interesse allo studio dei materiali organici

5.6.3 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali organici

5.6.4 - Residui di alimenti

5.6.5 - Residui di origine animale

5.6.6 - Residui di origine umana

5.6.7 - Fibre e tessuti

5.6.8 - Legno e residui vegetali

5.6.9 - Prodotti naturali

6 - Applicazioni della Chimica Analitica allo studio delle discipline umanistiche

6.1 - Autenticazione

6.1.1 - Introduzione

6.1.2 - Tecniche analitiche impiegabili negli studi di autenticazione

6.1.3 - Composizione del materiale diversa da quella dichiarata

6.1.4 - Composizione non compatibile con l'epoca dell'oggetto

6.1.4.1 - Autenticazione di papiri egiziani

6.1.4.2 - Vinland Map

6.1.4.3 - La Placca di Sir Francis Drake

6.1.4.4 - Busti in bronzo di Papa Paolo III Farnese

6.1.4.5 - Metalli preziosi e loro impurezze

6.1.5 - Datazione non compatibile con l'età dell'oggetto

6.1.5.1 - Uomo di Piltdown

6.1.5.2 - Autenticazione di reperti ceramici

6.1.5.3 - La Sacra Sindone

6.1.6 - Altri falsi

6.2 - Studi di provenienza

6.2.1 - Introduzione

6.2.2 - Tecniche analitiche impiegabili negli studi di provenienza

6.2.3 - Procedura analitica

6.2.3.1 - Selezione dei campioni

6.2.3.2 - Campionamento del reperto

6.2.3.3 - Preparazione del campione per l'analisi

6.2.3.4 - Esecuzione dell'analisi

6.2.3.5 - Interpretazione dei risultati

6.2.4 - I materiali

6.2.4.1 - Materiali lapidei

6.2.4.2 - Pietre preziose

6.2.4.3 - Materiali coloranti

6.2.4.4 - Materiali vetrosi

6.2.4.5 - Materiali ceramici

6.2.4.6 - Materiali metallici

6.2.4.7 - Materiali organici

6.3 - Conservazione e restauro

6.3.1 - Introduzione

6.3.2 - Le cause principali di degrado

6.3.3 - Tecniche analitiche impiegabili negli studi di conservazione e restauro

6.3.4 - Degrado dei materiali lapidei

6.3.5 - Degrado dei materiali coloranti

6.3.5.1 - Degrado dei pigmenti

6.3.5.2 - Degrado dei coloranti

6.3.5.3. - Degrado dei leganti

6.3.5.4 - Degrado dei supporti

6.3.6 - Degrado dei materiali vetrosi e ceramici

6.3.7 - Degrado dei materiali metallici

6.3.8 - Degrado dei materiali organici

6.3.9 - Alcuni casi famosi di restauro

6.3.9.1 - Il Vasa

6.3.9.2 - L'esercito di terracotta di Xian

6.4 - Informazioni tecnologiche

6.4.1 - Introduzione

6.4.2 - Tecniche analitiche impiegabili negli studi di indagine tecnologica

6.4.3 - Alcuni esempi di studi tecnologici

6.4.3.1 - Tecniche di saldatura nella lavorazione dei metalli

6.4.3.2 - Tecniche di manifattura di artefatti ceramici e vetrosi

6.4.3.3 - Tecniche di illuminazione dei manoscritti

6.4.3.4 - Tecnica pittorica di un artista

6.4.3.5 - Tecniche di produzione di materiali coloranti

6.5 - Informazioni aggiuntive

6.5.1 - Introduzione

6.5.2 - Tecniche analitiche impiegabili in questo campo

6.5.2.1 - Analisi degli inchiostri negli scritti di Galileo

6.5.2.2 - Analisi dell'Evangelario Eusebiano

7 - Bibliografia consigliata

7.1 - Libri

7.1. 1 - Materiali lapidei

7.1.2 - Materiali coloranti

7.1.3 - Materiali vetrosi

7.1.4 - Materiali ceramici

7.1.5 - Materiali metallici

7.1.6 - Materiali organici

7.1.7 - Applicazioni

7.2 - Siti web

7.2.1 - Materiali lapidei

7.2.2 - Materiali coloranti

7.2.3 - Materiali vetrosi

7.2.4 - Materiali ceramici

7.2.5 - Materiali metallici

7.2.6 - Materiali organici

7.2.7 - Applicazioni

7.3 - Periodici

7.3.1 - Materiali lapidei

7.3.2 - Materiali coloranti

7.3.3 - Materiali vetrosi

7.3.4 - Materiali ceramici

7.3.5 - Materiali metallici

7.3.6 - Materiali organici

7.3.7 - Applicazioni

 

 

1 - La Chimica Analitica applicata allo studio delle discipline umanistiche

1.1 - L'Archeometria

L'archeometria costituisce il collegamento tra le discipline umanistiche (arte, archeologia) e quelle scientifiche (biologia, chimica, fisica, geologia). Essa si adopera nel porre i potenti mezzi della ricerca scientifica al servizio degli studiosi umanistici, per facilitare la risoluzione di problemi vari con metodi più affidabili di quelli empirici. Ogni oggetto che possa essere considerato opera di interesse archeologico o artistico contiene in sè informazioni nascoste sulla sua genesi e sulla sua storia che non possono essere apprese solo tramite i nostri sensi. Il compito dell'archeometria è far emergere queste informazioni e renderle disponibili per gli studi successivi. Il massimo contributo a questa disciplina è fornito dalla fisica e dalla chimica, essenzialmente tramite l'analisi dei materiali e le tecniche di datazione. Si possono così apprendere, su un determinato oggetto, tutte le notizie riguardanti la sua età, la sua struttura chimica, le mutazioni di quest'ultima nel corso della sua storia archeologica, la presenza o assenza di sostanze particolari caratteristiche del tempo o del luogo di ritrovamento. Questo cumulo di informazioni permette all'archeologo e all'esperto d'arte di collocare il reperto in una dimensione conoscitiva molto più ricca.

 

1.2 - I contributi della Chimica

La Chimica, in questo campo, può fornire diversi tipi di contributi. In particolare, il settore della Chimica Analitica è in grado di operare sui seguenti aspetti:

 

1.2.1 - Datazione di un reperto

Esistono numerose tecniche per la datazione di un reperto archeologico, che differiscono per il range temporale, per il tipo di materiali idonei all'analisi e per le applicazioni possibili. In linea di massima si può dire che tutti i materiali di interesse artistico-archeologico possono essere datati. Le tecniche più utilizzate sono le seguenti:

 

1.2.2 - Autenticazione di un reperto

Le contraffazioni di opere d'arte sono, come è noto, molto comuni. Le tecniche della chimica analitica possono essere utilizzate per verificare l'autenticità di un reperto o di un oggetto prezioso. Alcuni esempi di applicazioni possono essere i seguenti:

Quest'ultimo caso è il più interessante. Siccome è noto il periodo di impiego dei vari pigmenti usati nel corso della storia dell'arte, risulta evidente che non è possibile ritrovare un pigmento creato in epoca moderna in un quadro attribuibile a epoche meno recenti. Ad esempio, il pigmento denominato Bianco Piombo è stato utilizzato come bianco fin da prima del 1300; il pigmento Bianco Titanio, invece, è entrato in uso dal XIX secolo e quindi, a differenza del precedente, non può essere presente in opere pittoriche antecedenti a questa epoca. Alcuni pigmenti (Azzurrite, Indaco, Malachite) sono stati utilizzati in un intervallo di tempo ben definito e sono quindi dei veri e propri marcatori temporali. Esistono tecniche analitiche che sono in grado di individuare con accuratezza le sostanze chimiche che formano i pigmenti, permettendone quindi la rivelazione.

 

1.2.3 - Informazioni tecnologiche

Attraverso l'analisi chimica dei manufatti è possibile avere informazioni sulla tecnologia con cui sono stati creati nell'antichità. Ciò è di interesse soprattutto per quanto riguarda gli oggetti in metallo, per i quali è interessante conoscere le tecniche metallurgiche che stanno alla base della loro manifattura, e per gli oggetti in ceramica, per i quali è utile avere informazioni sulla temperatura e sull'ambiente di cottura dei materiali di partenza.

Mediante l'uso di tecniche analitiche di superficie che permettono la rivelazione di fasi cristalline particolari e conoscendo la stabilità delle diverse fasi alle varie temperature, è possibile formulare ipotesi sulla temperatura e sull'atmosfera (ossidante o riducente) del forno di cottura usate dai ceramisti, oppure sugli additivi impiegati nei processi di lavorazione. Nei manufatti in ceramica, la colorazione della superficie è legata alla presenza di ossidi di ferro nell'impasto. In presenza della forma ossidata (Fe2O3) si ha il colore rosso, in presenza della forma ridotta (FeO) si ha il colore nero. Il colore finale del manufatto si può ottenere con ambienti di cottura opportuni, utilizzando un'atmosfera ossidante (cioè con aria) se si vuole il rosso, riducente (es. con legna bagnata) se si vuole il nero.

Un caso particolarmente interessante, in cui è stato determinante il contributo dell'analisi chimica, è quello dei vasi attici a figura nera e corpo rosso e a figura rossa e corpo nero. Due esempi di questi vasi sono riportati nelle figure 1 e 2. La tecnologia alla base di queste produzioni è stata chiarita solo nell'ultimo secolo grazie all'applicazione di tecniche analitiche che consentono di riconoscere le forme ossidate e ridotte del ferro. Da questi studi è stato possibile capire che il risultato finale veniva ottenuto selezionando materie prime con caratteristiche differenti e alternando cotture in ambienti ossidanti e riducenti.

 

1.2.4 - Informazioni aggiuntive

L'analisi chimica dei reperti rinvenuti in uno scavo archeologico può fornire molte informazioni sugli usi e costumi dei popoli che hanno abitato le zone dello scavo. La presenza di materiali preziosi nei reperti (metalli nobili, essenze pregiate, ecc.) può essere indicativa della condizione sociale o di particolare agiatezza. In particolare, la presenza di leghe e metalli preziosi, nonché le variazioni delle loro quantità relative, possono essere indicative di mutamenti nell'economia, e quindi nella politica, delle zone di provenienza dei reperti. Ad esempio, è possibile seguire il declino dell'impero romano mediante lo studio dell'andamento decrescente del rapporto argento/rame nelle monete emesse dalle zecche imperiali, un fenomeno noto come debasement. Come si nota dalla figura 3, col passare dei secoli le monete contenevano una quantità sempre minore di metallo nobile (argento, in questo caso) a vantaggio di un metallo di valore inferiore (rame). Queste informazioni sono ottenibili con la semplice determinazione di argento e rame nelle monete.

 

1.2.5 - Conservazione e restauro

L'analisi chimica può fornire informazioni utili sullo stato di degrado di un reperto, rendendo così possibili interventi mirati di restauro. Si tratta di determinare la composizione chimica di depositi salini, incrostazioni, efflorescenze, alterazioni di pigmenti e leganti, in definitiva modificazioni dannose delle superfici, per scoprire la natura chimica del decadimento e, ove possibile, suggerire i rimedi proponendo i mezzi più opportuni per rimuovere le impurità. Alcuni esempi di processi di decadimento molto studiati sono:

Nel settore dello studio delle superfici pittoriche, molto importante è la determinazione dei composti chimici che formano un pigmento in quanto, alla luce di un intervento restaurativo, è opportuno sapere quali composti usare per operare in maniera più indolore e più conforme alle caratteristiche dell'opera in esame.

Un altro settore della chimica che fornisce un grosso contributo alla conservazione dei beni culturali è quello che si occupa dello sviluppo di sostanze protettive, che sono generalmente polimeri da applicare sulla superficie dei materiali di interesse artistico in modo da renderla chimicamente inerte e inattaccabile da parte di aggressivi chimici presenti nell'atmosfera.

 

1.2.6 - Studi di provenienza

L'attribuzione di un reperto ad una provenienza geografica è un campo molto importante in archeologia. La chimica analitica risulta particolarmente utile nel fornire informazioni sulla provenienza dei reperti, in quanto la composizione chimica di un prodotto finito è legata alla composizione dei materiali di partenza; è quindi possibile discriminare oggetti prodotti in regioni geografiche diverse sulla base di parametri chimici o mineralogici quali composizione elementare, presenza di fasi cristalline particolari, ecc.. I processi di manifattura possono introdurre modifiche anche pesanti alla composizione originaria, rendendo arduo individuare la connessione tra materie prime e prodotto finito; tuttavia, anche in questo caso la composizione dei reperti può essere caratteristica della produzione di un particolare sito. Si possono distinguere due casi:

  1. i reperti sono stati prodotti con materiali che hanno subito modifiche minime o nulle nel corso della lavorazione: in questo caso è generalmente possibile risalire alle sorgenti di materie prime e quindi stabilire una provenienza geografica assoluta;

  2. i reperti sono stati prodotti con modifiche sostanziali delle materie prime: in questo caso è difficile se non impossibile risalire alle sorgenti di materie prime; si può tuttavia far riferimento a campioni di provenienza certa, attribuendo una provenienza relativa.

Gli studi di provenienza normalmente prevedono una classificazione preliminare dei reperti in gruppi aventi composizione chimica simile, per i quali è possibile presumere un comune sito di produzione; quest'ultimo può essere suggerito dal confronto con reperti di provenienza certa. La classificazione è effettuata in modo ottimale se si determina un numero elevato di parametri chimici in un numero statisticamente sufficiente di campioni; quindi nell'analisi dei reperti è preferibile utilizzare tecniche multicomponenti, capaci cioè di determinare molti parametri in tempi brevi, in modo da rendere disponibile una gran quantità di informazioni.

La possibilità di effettuare con successo uno studio di provenienza è legata ai seguenti fattori:

Se queste condizioni sono soddisfatte, è possibile arrivare a determinare una provenienza geografica assoluta per i reperti esaminati. Tutto ciò comporta comunque un lavoro di analisi piuttosto lungo e difficile; inoltre le possibilità di arrivare ad un'attribuzione univoca variano da materiale a materiale. In particolare:

 

 

2 - Nozioni di Chimica

2.1 - Introduzione

Per comprendere le informazioni che si nascondono nella materia oggetto, a livello macroscopico, di studi artistici e archeologici, è necessario investigare in scala microscopica come la materia è strutturata, partendo dall'atomo e dagli elementi.

 

2.2 - Struttura dell'atomo

La materia a livello microscopico è composta da atomi, i quali sono a loro volte composti dalle cosidette particelle subatomiche:

La struttura dell'atomo è evidenziata nella figura 4. Il nucleo risulta carico positivamente ed è controbilanciato da un numero di elettroni pari al numero di protoni presenti nel nucleo; in questo modo è garantita la neutralità dell'atomo.

Se il numero di protoni è maggiore perchè l'atomo ha perso uno o più elettroni, si forma uno ione carico positivamente; se invece il numero di elettroni è maggiore, si forma uno ione carico negativamente.

 

2.2.1 - Due numeri magici

Gli atomi sono caratterizzati da due numeri magici:

  1. il numero atomico, dato dalla somma dei protoni nel nucleo; esso differenzia i vari elementi esistenti in natura e ha influenza, quindi, sulle loro proprietà chimiche. Si indica con un pedice prima del simbolo dell'elemento, es. 1H, 6C, 8O

  2. il numero di massa, dato dalla somma di protoni e neutroni nel nucleo; esso differenzia gli isotopi, cioè atomi dello stesso elemento aventi lo stesso numero atomico ma differente numero di massa, che hanno quindi uguali proprietà chimiche ma differenti proprietà fisiche. Si indica con un apice prima del simbolo dell'elemento, es. 1H, 12C, 16O; per estensione, il termine isotopo indica anche un elemento in riferimento al suo numero di massa

Molti elementi esistono sotto forma di più isotopi; un esempio è l'idrogeno che ha sempre un solo protone nel nucleo e quindi un elettrone attorno al nucleo, ma può avere zero neutroni (1H o pròzio, 99.983% di abbondanza), un neutrone (2H o deuterio, 0.017%) o due neutroni (3H o trìzio, radioattivo); un altro esempio importante in campo archeologico è il carbonio che esiste come 12C (98.89%) se ha 6 neutroni, 13C (1.11%) se ha sette neutroni e 14C (radioattivo) se ha 8 neutroni; tutti e tre gli isotopi hanno 6 protoni nel nucleo.

La trasformazione di un elemento in un altro o di isotopo in un altro implica la variazione del numero delle particelle subatomicheo nel nucleo: ciò si ottiene mediante reazioni nucleari (per questo, l'antico sogno degli alchimisti di mutare il Piombo in Oro era impossibile). La variazione del numero di elettroni è invece più semplice, e.d è ciò che succede sempre quando due atomi interagiscono.

 

2.2.2 - La Tavola periodica di Mendeleev

Nella tavola di Mendeleev (figura 5), Tavola della Legge di ogni chimico, sono riportate le caratteristiche di tutti gli elementi, naturali o artificiali, che sono stati sinora scoperti. Essa è organizzata in maniera periodica, in modo tale che elementi aventi proprietà simili si trovano nella stessa colonna o nella stessa riga.

 

2.3 - Struttura della materia

Su scala microscopica, gli elementi esistono sotto forma di atomi e molecole; queste ultime sono formate dall'unione di più atomi dello stesso elemento (es.idrogeno, H2 e ossigeno, O2) o di elementi diversi: in questo caso si parla di composti.

Su scala macroscopica, si parla di elemento per definire una sostanza composta da atomi uguali, di composto per definire una sostanza composta da atomi diversi, cioè di elementi diversi.

All'interno delle molecole è utile definire il concetto di gruppi funzionali, parti di molecole riconoscibili anche in molecole diverse che impartiscono alla struttura generale proprietà caratteristiche. Nella figura 6 è mostrata la struttura del'alcol metilico e dell'alcol etilico: entrambi i composti sono caratterizzati dalla presenza del gruppo funzionale -OH che fa sì che essi siano definiti alcoli.

 

2.3.1 - Il legame chimico

La base della struttura della materia è il legame chimico. Un legame tra due atomi si forma mediante una coppia di elettroni che possono provenire da entrambi gli atomi oppure da uno solo dei due. Esistono alcuni tipi di legame, che si differenziano a seconda della tendenza degli elementi coinvolti ad attirare gli elettroni in gioco. Per chiarire le idee è necessario definire il concetto di elettronegatività, ovvero la tendenza di un elemento ad attrarre elettroni. Ogni elemento, interagendo con gli altri elementi, tende a perdere o acquistare elettroni a seconda di questa proprietà. Nella scala di elettronegatività, definibile numericamente, i metalli hanno in generale bassi valori, mentre i semimetalli e soprattutto i non metalli hanno valori elevati. Ad esempio sodio, calcio, ferro, zinco e idrogeno sono elementi a bassa elettronegatività, mentre fluoro, cloro, bromo, ossigeno e azoto sono elementi che hanno elevata elettronegatività.

In base all’elettronegatività degli elementi coinvolti, il legame tra due atomi può essere:

H• + H• ® H–H (H2)

H• + Br• ® H–:Br

Na ® Na+ + e-

Cl + e- ® Cl-

Na+ + Cl- ® Na-Cl

In questo caso si parla di ione positivo o catione per l’atomo che perde elettroni, di ione negativo o anione per l’atomo che li acquista. Il numero di elettroni persi o acquistati definisce la carica dello ione, es. Na+ è un catione a carica singola o monovalente, Fe2+ è un catione a doppia carica o bivalente, Cl- è un anione monovalente. Va notato che la maggior parte degli elementi tende a formare due o più ioni aventi carica diversa, es.

Fe ® Fe2+ + 2e-

Fe ® Fe3+ + 3e-

Fanno eccezione gli elementi alcalini (Na, K) e alcalino-terrosi (Ca, Mg) che tendono a perdere rispettivamente uno e due elettroni, formando sempre e solo cationi monovalenti e bivalenti.

In base al tipo di legame e alle caratteristiche degli elementi esistono diverse classi di sostanze:

 

2.3.2 - Le reazioni di ossidoriduzione

Le sostanze reagiscono tra di loro per formare nuove sostanze. Tra i vari tipi di reazioni, sono di particolare importanza le reazioni di ossidoriduzione: quando due elementi o due ioni interagiscono, è possibile che ci sia un passaggio di elettroni dalla specie meno elettronegativa a quella più elettronegativa. La reazione che avviene si chiama ossidoriduzione, es.

A2+ + B2+ ® A3+ + B+

 La reazione si può immaginare come somma di due semireazioni

A2+ ® A3+ + e-        reazione di ossidazione

B2+ + e- ® B+        reazione di riduzione

Si chiama specie ossidata quella che perde elettroni (A nell’esempio), ridotta quella che li acquista (B nell’esempio). Dal punto di vista opposto, la specie ossidata agisce come riducente, la specie ridotta agisce come ossidante.

Le reazioni di ossidoriduzione possono avvenire anche tra atomi o molecole neutri, ad esempio in sostanze che formino legami covalenti

C + O2 ® CO2

In questo esempio il carbonio e l’ossigeno condividono i loro elettroni, ma le coppie di elettroni che formano i legami sono più attratte dall’ossigeno, a causa della differenza di elettronegatività. Anche in questo caso si possono immaginare le semireazioni

C ® C(IV) + 4e-         reazione di ossidazione

O2 + 4e- ® 2O(II)       reazione di riduzione

In questo caso non si parla di cariche degli ioni (che non si formano!) bensì di una quantità nota come numero di ossidazione, un numero convenzionale che si attribuisce ad ogni elemento in una reazione, per capire chi cede elettroni e chi li acquista, o meglio chi li attrae maggiormente. Questo numero è negativo per elementi che tendono ad attrarre gli elettroni, positivo per quelli che tendono a cederli; si indica sopra l’elemento, es.

oppure tra parentesi in numeri romani ma senza segno, es. C(IV) e O(II). Negli ioni, il numero di ossidazione coincide con la carica, es. Fe3+ coincide con Fe(III).

2.3.3 - Stati della materia

La materia esiste a livello macroscopico in tre stati principali:

  1. Solido, caratteristico delle sostanze aventi volume proprio, alta densità e struttura ben definita

  2. Liquido, caratteristico delle sostanze che assumono il volume del contenitore, aventi densità media e struttura disordinata

  3. Gassoso, caratteristico delle sostanze che assumono il volume totale del contenitore, aventi densità bassa e nel quale le interazioni tra molecole sono minime

Esiste poi una particolare stato di stato solido, definito amorfo, caratteristico delle sostanze che, pur avendo volume proprio, presentano una struttura molecolare caotica: questo stato è proprio del vetro.

 

2.3.4 - Struttura della materia solida

Per quanto riguarda i solidi, ci sono due tipi principali di strutture: quella cristallina e quella amorfa. Nella struttura cristallina (figura 7) le molecole sono disposte secondo una rete tridimensionale ben definita e continua, chiamata reticolo cristallino, nella quale è possibile identificare un'unità base chiamata cella elementare la cui struttura si ripete all'infinito lungo i tre assi. Nella struttura amorfa o vetrosa (figura 8), invece, le molecole sono disposte in modo disordinato e non è possibile individuare una cella elementare.

Nella figura 9 è illustrato un esempio di cella elementare, quella del composto ionico NaCl, un esempio di sale (non si equivochi sul fatto che questo composto costituisce il comune sale da cucina). Le sfere blu rappresentano gli ioni Na+, mentre le sfere verdi rappresentano gli ioni Cl-. Il numero di cariche positive controbilancia esattamente quello delle cariche negative, in modo da mantenere la neutralità della struttura.

Questo composto presenta una struttura tipica del sistema noto come cubico: la forma della cella elementare identifica infatti il tipo di struttura cristallina della sostanza. Sostanze aventi composizione simile possono essere macroscopicamente differenti se cristallizzano secondo sistemi differenti, come si può notare dalle figure seguenti.

In esse sono mostrati l'aragonite (figura 10) e la calcite (figura 11) che, pur essendo entrambi definiti dalla formula CaCO3, cristallizzano secondo il sistema rispettivamente rombico e romboedrico: ciò causa la formazione di minerali macroscopicamente differenti.

 

2.3.5 - Minerali e rocce

Si definisce minerale una sostanza inorganica avente struttura cristallina e composizione specifica, riconducibile ad una formula precisa, mentre si definisce roccia un materiale composito avente struttura cristallina, in sostanza un aggregato di minerali. Un esempio di minerale è il quarzo (figura 12), composto da SiO2, a cui è affine la roccia quarzite (figura 13), composta prevalentemente ma non esclusivamente da quarzo. Un altro esempio di roccia è il granito, composta per lo più dai minerali quarzo, mica e ortoclasio.

Mentre i minerali sono definiti in base alla formula chimica e possono essere classificati in famiglie aventi proprietà chimiche comuni, le rocce sono definibili a seconda della loro genesi in tre classi:

In natura esistono materiali aventi formula chimica simile ma struttura e forma molto diversa. Un esempio di polimorfismo è dato da materiali costituiti da carbonato di calcio (CaCO3); questa formula è valida per tutti I materiali riportati nella figura 14: in senso orario la calcite, le perle, la roccia marmo e il guscio d'uovo.

 

 

3 - Tecniche analitiche

Prima di descrivere le tecniche maggiormente utilizzate in campo archeometrico, è necessario definire alcuni concetti di chimica analitica per avere una migliore comprensione delle potenzialità di queste tecniche. Dal punto di vista analitico una tecnica è caratterizzata dai seguenti parametri:

A questi parametri squisitamente analitici possiamo aggiungere i seguenti, utili per valutare l’applicabilità delle tecniche ai problemi archeometrici:

Una delle caratteristiche auspicabili delle tecniche analitiche che vengono utilizzate per l'analisi di materiali di interesse artistico-archeologico è la non distruttività. Dal punto di vista del chimico analitico, sono denominate non distruttive tutte le tecniche che preservano l'integrità del campione sottoposto all'analisi. In questa accezione non vengono considerate le fasi precedenti l'analisi strumentale: ne consegue che sono considerate non distruttive sia quelle tecniche che possono essere utilizzate direttamente sul reperto, sia quelle tecniche che prevedono per l'analisi il prelievo di una porzione dell'oggetto, a patto che questa porzione non subisca modificazioni nel corso dell'analisi stessa (non distruttività analitica). Dal punto di vista dell'archeologo, dello studioso di arte, del conservatore e del restauratore, non distruttiva è una tecnica che semplicemente non richiede il prelievo di campione.

Per rimuovere questa ambiguità, vengono talvolta indicate come paradistruttive quelle tecniche che, pur non essendo distruttive della porzione analizzata, prevedono il prelievo dall'oggetto. Vi sono poi alcune tecniche che sono distruttive da un punto di vista analitico, ma che prevedono l'utilizzo di una quantità minima di campione, tanto che i segni lasciati dall'analisi sono spesso invisibili ad occhio nudo; per evidenziare questa caratteristica, tali tecniche vengono denominate microdistruttive.

Per quanto riguarda l'analisi di oggetti di interesse storico, artistico o archeologico la non distruttività della tecnica deve essere intesa in senso lato come la possibilità di preservare completamente l'integrità dell'oggetto. Questa caratteristica, tuttavia, spesso non permette di soddisfare le esigenze di precisione, accuratezza e sensibilità necessarie per l'analisi, oppure è ottenibile solo attraverso l'utilizzo di strumentazioni difficilmente accessibili. Inoltre le strumentazioni cosidette portatili hanno quasi sempre caratteristiche tecniche inferiori rispetto a quelle da laboratorio. Ne consegue che l'esecuzione delle indagini è subordinata alla possibilità di trovare un compromesso tra l'esigenza di preservare completamente il reperto archeologico e l'esigenza dell'analista di porsi nelle condizioni di eseguire correttamente l'analisi. Talvolta tale compromesso si realizza procedendo al campionamento di un minuscolo frammento dal reperto archeologico, prelevato in modo da non danneggiarne la valenza estetica; altre volte risulta possibile portare l'oggetto in laboratorio e, senza effettuare alcun prelievo, eseguire l'analisi sull'oggetto in condizioni molto più vantaggiose rispetto a quelle che si avrebbero portando lo strumento di analisi fuori dal laboratorio.

Riassumendo, quindi, possono presentarsi le seguenti situazioni:

 

3.1 - Le tecniche spettroscopiche

La maggior parte delle tecniche analitiche utilizzate in archeometria rientra nel gruppo di quelle definite spettroscopiche, basate cioè sull'interazione tra la materia e le radiazioni elettromagnetiche. L'intensità e il tipo di questa interazione possono essere sfruttati a scopo qualitativo per identificare elementi o composti chimici e a scopo quantitativo per determinarne la concentrazione nei dei campioni analizzati.

La radiazione elettromagnetica, ovvero la luce, ha una doppia natura:

La luce visibile non è che un ristretto intervallo della radiazione elettromagnetica: è infatti la parte alla quale è sensibile l'occhio umano; tuttavia, la luce ha un range che si estende dai raggi gamma (aventi l inferiore a 0.1 Å ed energia elevatissima) alle radiofrequenze (aventi l nell'intervallo 100-103 cm) passando per i raggi X (l = 10-9-10-6 cm), l'ultravioletto (l = 10-6-10-4 cm), il visibile (l = 400-800 nm), l'infrarosso (l = 10-4-10-1 cm) e le microonde (l = 10-1-101 cm). L'insieme delle radiazioni luminose si definisce spettro elettromagnetico (figura 16); questo è anche il termine che si usa per definire un intervallo di l sfruttato analiticamente.

Le tecniche spettroscopiche si differenziano in base all'energia della radiazione luminosa utilizzata e in base al meccanismo che si sfrutta analiticamente. Irraggiando la materia con la radiazione luminosa si creano effetti diversi a seconda dell'energia utilizzata: si va da reazioni che interessano il nucleo (raggi gamma, raggi X) a reazioni che interessano gli elettroni esterni (UV, visibile) fino a effetti che interessano la vibrazione delle molecole (infrarosso, microonde, onde radio).

A seconda del range spettrale impiegato si hanno quindi le seguenti tecniche:

A seconda del meccanismo sfruttato si ha invece la seguente suddivisione:

Dalla combinazione di queste due classificazioni si hanno numerose tecniche delle quali, nel seguito, verranno descritte quelle più utilizzate nell'analisi di campioni di interesse artistico-archeologico. In base al tipo di materiale da analizzare, le tecniche più idonee sono le seguenti:

 

3.1.1 - Spettroscopia atomica

Le tecniche di spettroscopia atomica prevedono l'atomizzazione del campione, cioè la trasformazione della materia solida o liquida in vapore atomico; ciò è necessario perchè avvengano i fenomeni che sono alla base di queste tecniche. L'atomizzazione avviene somministrando energia sotto forma di calore, a temperature comprese tra 1500 e 8000°C: si tratta quindi, evidentemente, di tecniche distruttive, nelle quali il campione viene completamente consumato. Il vapore atomico subisce un interazione con la luce oppure con un campo magnetico; l’entità di questa interazione fornisce la risposta analitica, qualitativa e quantitativa. A seconda del meccanismo coinvolto si ha la spettroscopia di assorbimento atomico (AAS), di emissione atomica (AES) e di fluorescenza atomica (AFS) se il vapore atomico interagisce con la luce nel range spettrale UV-visibile (200-800 nm), oppure la spettrometria di massa (MS) se il vapore interagisce con un campo elettromagnetico. L'informazione che si ha dall'analisi con queste tecniche è di tipo elementare, si determinano cioè la presenza e la quantità di elementi; i risultati sono espressi generalmente in concentrazione, cioè in parti di elemento per unità di peso o di volume del campione (es. mg/Kg per i solidi, mg/l per i liquidi). Con queste tecniche è possibile analizzare qualsiasi campione liquido o solido; nel caso di campioni solidi è necessario uno stadio preliminare di dissoluzione in un opportuno solvente, oppure utilizzare metodi di analisi superficiale. Trattandosi di tecniche molto sensibili, la quantità di campione richiesta può essere di poche decine di mg. Le applicazioni principali sono nella caratterizzazione elementare di ceramiche, vetri, metalli e materiali lapidei.
Alcune tecniche di spettroscopia atomica sono descritte nel seguito.

3.1.1.1 - La spettroscopia di assorbimento atomico

In questa tecnica (figura 17) gli atomi di un determinato elemento sono in grado di assorbire selettivamente una radiazione monocromatica emessa da una sorgente (lampada a catodo cavo) costituita dallo stesso elemento: questo fenomeno si chiama assorbimento di risonanza. L'abbassamento dell'intensità del segnale luminoso, causato dall'assorbimento da parte degli atomi, è correlabile alla concentrazione dell'elemento nel campione. Si ha così un'informazione quantitativa sull'elemento in questione. La tecnica è monoelementare. Se l'atomizzazione del campione avviene mediante una fiamma la tecnica si chiama FAAS (Flame Atomic Absorption Spectrometry), se avviene mediante una corrente elettrica si chiama ETAAS (Electrothermal Atomic Absorption Spectrometry).

3.1.1.2 - La spettroscopia di emissione atomica

In questa tecnica (figura 18) gli atomi degli elementi presenti nel campione sono in grado di emettere radiazioni luminose se portati ad una temperatura sufficientemente alta, ovvero se vengono eccitati passando ad uno stato energetico superiore dal quale decadono emettendo luce. L'intensità dei segnali luminosi emessi è correlabile alla concentrazione degli elementi nel campione. Anche in questo caso si ha un'informazione quantitativa sugli elementi in questione. La tecnica è multielementare. Se l'atomizzazione del campione avviene mediante una fiamma la tecnica si chiama FAES (Flame Atomic Emission Spectrometry), se avviene mediante un plasma si chiama ICP-AES (Inductively Coupled Plasma - Atomic Emission Spectrometry).

3.1.1.3 - La spettrometria di massa con plasma induttivamente accoppiato (ICP-MS)

In questa tecnica (figura 19) gli atomi degli elementi presenti nel campione vengono trasformati in ioni mediante una sorgente a plasma a temperatura elevatissima (5000-8000°C). Gli ioni sono fatti passare attraverso uno spettrometro di massa costituito da un campo magnetico, separati in base al loro rapporto massa/carica e portati al rivelatore. L'intensità del segnale elettrico causato dall'impatto degli ioni sul rivelatore è correlabile alla concentrazione degli elementi nel campione. Anche in questo caso si ha un'informazione quantitativa sugli elementi in questione. La tecnica è multielementare. Siccome l'atomizzazione mediante il plasma è accoppiata ad uno spettrometro di massa, la tecnica è chiamata ICP-MS (Inductively Coupled Plasma - Mass Spectrometry).

3.1.1.4 - La tecnica laser ablation

L’analisi dei campioni solidi con la spettroscopia atomica è possibile applicando la tecnica laser ablation, nella quale un raggio laser è impiegato per vaporizzare un punto della superficie del campione (figura 20). Non si tratta di una tecnica analitica a sé stante, quindi, ma di un accessorio per rendere possibile l’analisi di campioni solidi senza doverli portare in soluzione. Risulta di particolare interesse in campo archeometrico in quanto permette l'analisi senza prelievo di campione. Utilizzando impulsi LASER ad elevata potenza focalizzati su un solido è possibile vaporizzare ed atomizzare parte del solido stesso. L'operazione provoca la formazione di un cratere di alcune decine di micron di diametro e di una piuma di materiale vaporizzato allo stato atomico, che può essere convogliato in una strumentazione in grado di quantificare gli elementi presenti. Questa tecnica, denominata laser ablation o laser atomization, costituisce di fatto una sofisticata tecnica di campionamento, che può essere impiegata in accoppiamento con uno spettrometro atomico (figura 21) in alternativa alla dissoluzione del campione. Infatti, gli atomi che si generano per effetto delle pulsazioni laser possono venire convogliati nell'interno di uno spettrometro, dove vengono eccitati e/o ionizzati e possono venire determinati per via ottica (LA/ICP-AES) o con spettrometria di massa (LA/ICP-MS). La possibilità di ottenere una piuma di atomi direttamente sul campione solido è senza dubbio una prospettiva attraente per l'analisi di campioni di interesse archeologico, in quanto in questo modo le tecniche ICP vengono trasformate da distruttive a microdistruttive. L'usura del campione analizzato è limitata alla formazione del cratere, quasi invisibile ad occhio nudo (figura 22). Tuttavia, varie difficoltà nell'eseguire determinazioni precise ed accurate e, soprattutto, gli elevati costi della strumentazione hanno fortemente limitato la diffusione di questo sistema di campionamento. Di fatto, non è possibile l'analisi in situ in quanto non esiste uno strumento portatile a cui si possa accoppiare la laser ablation. L'analisi è quindi non distruttiva solo per campioni che possono essere portati in laboratorio.

3.1.1.5 - Tecniche di analisi isotopica

L'analisi isotopica consiste nella determinazione della distribuzione degli isotopi di un elemento in un campione. In natura ogni elemento ha una distribuzione isotopica fissa (es. il carbonio esiste sotto forma di 12C per il 98.89% e di 13C per l'1.11%, oltre che di 14C  che è radiogenico) ma per motivi geochimici sono spesso possibili piccole deviazioni dai valori tabulati. La determinazione di queste deviazioni è molto importante soprattutto nell'applicazione agli studi di provenienza, in quanto, essendo la deviazione una caratteristica che permane invariata, può permettere di risalire alla sorgente delle materie prime di un manufatto. Per la determinazione della distribuzione isotopica si utilizza la tecnica di spettrometria di massa (MS) accoppiata ad una sorgente di energia che provochi la formazione anche parziale di ioni a partire dal campione. La tecnica ICP-MS precedentemente descritta ha questa potenzialità ma richiede uno spettrometro di massa ad alta risoluzione, in quanto le deviazioni dalla normalità sono quantità estremamente piccole da misurare. La tecnica maggiormente utilizzata è la spettrometria di massa con ionizzazione termica (TIMS o Thermal Ionization Mass Spectrometry) nella quale ioni monoelementari vengono generati evaporando il campione su una superficie riscaldata; attraverso un sistema altamente sofisticato gli ioni sono separati e misurati singolarmente per determinare la distribuzione isotopica degli elementi di interesse. La tecnica è ovviamente distruttiva e richiede un complesso pretrattamento del campione; la quantità di campione richiesto varia d a 1 mg a 1 g a seconda della concentrazione dell'elemento di interesse nel campione. Normalmente le quantità che si utilizzano sono i rapporti isotopici, cioè il quoziente tra due isotopi dello stesso elemento. I rapporti isotopici di maggior interesse sono i seguenti:

Riassumendo, le tecniche di spettroscopia atomica hanno le seguenti caratteristiche:

Tabella 1 - Caratteristiche delle tecniche di spettroscopia atomica
Tecnica distruttiva Sì (trattamento termico a 1500-8000°C)
Informazione fornita Si determinano elementi o isotopi
Tipo di campioni analizzabili Liquidi, solidi se portati in soluzione o con laser ablation
Possibilità di analisi in situ No
Possibilità di analisi senza prelievo di campione Sì, nel caso della laser ablation
Risoluzione spaziale Buona solo nel caso della laser ablation
Porzione del campione analizzato Totale, puntuale con laser ablation
Espressione dei risultati Concentrazione o rapporti isotopici
Sensibilità Ottima-eccellente
Materiali analizzabili Tutti quelli a base inorganica, alcuni organici
Costo Medio-alto

 

3.1.2 - Spettroscopia molecolare

Nella spettroscopia molecolare si utilizzano radiazioni aventi lunghezza d'onda nell'ultravioletto, nel visibile e nell'infrarosso. Non è necessaria l'atomizzazione del campione; si tratta quindi generalmente di tecniche non distruttive. L'informazione che si ottiene è di tipo strutturale in quanto rivela le molecole presenti nel campione o, più correttamente, i gruppi funzionali presenti, ovvero parti di molecole che danno segnali simili anche se presenti all'interno di molecole globalmente diverse (es. il gruppo ossidrile nelle molecole di etanolo e metanolo, figura 23). Infatti, le molecole che compongono il campione assorbono l'energia irradiata se essa è in quantità sufficiente per eccitare gli elettroni o per far vibrare i loro gruppi funzionali. A differenza della spettroscopia atomica, in quella molecolare si lavora rilevando in risposta uno spettro, cioè il segnale su tutto l'intervallo utilizzato, sia esso in assorbimento, in emissione o in fluorescenza. Le principali tecniche sono le seguenti.

3.1.2.1 - Spettroscopia UV-visibile di assorbimento

Si tratta di una tecnica molto comune che si basa sull'assorbimento, da parte del campione, di radiazioni nel campo dell'ultravioletto e del visibile, assorbimento dovuto alla presenza nel campione di gruppi funzionali aventi caratteristiche particolari e facilmente riconoscibili in base allo spettro. La tecnica non ha molte applicazioni in archeometria, ma, a causa dell'estrema semplicità di utilizzo, può essere utile come tecnica di analisi preliminare, in particolare nella caratterizzazione di campioni colorati. Uno spettrofotometro UV-Visibile è sempre presente in qualunque laboratorio chimico (figura 24): l'informazione che si ottiene dall'analisi di campioni in soluzione è relativa alla presenza di determinati gruppi funzionali, pur trattandosi di segnali non molto specifici (esempio di spettro UV-Visibile in figura 25).

3.1.2.2 - Spettroscopia infrarossa di assorbimento

Anch'essa molto utilizzata e di principi analoghi alla precedente, dalla quale si differenza per l'intervallo spettrale utilizzato, l'infrarosso appunto, la cui energia è sufficiente per far vibrare in maniera specifica (figura 26) i gruppi funzionali delle molecole presenti nel campione che possono essere così rivelati. Lo spettro di assorbimento infrarosso permette quindi di determinare, attraverso i gruppi funzionali, la struttura di alcune molecole contenute nel campione, costituendone un'impronta digitale (figura 27). Anche la spettroscopia IR è una tecnica molto comune nei laboratori chimici, per via del semplice utilizzo e del basso costo (esempio di spettrofotometro IR in figura 28). La tecnica è molto usata soprattutto nel campo dell'analisi dei pigmenti (figura 29) e del materiale di natura organica (residui di alimenti, tessuti, ecc.). Dal punto di vista del consumo di campione, la tecnica può essere applicata in situ oppure direttamente su campioni; in alternativa, è necessario prelevare una piccola aliquota di campione da inglobare in una pastiglia di bromuro di potassio (KBr).

Nella figura 30 sono riportati due esempi di spettri di assorbimento infrarosso di lacche: il primo è quello della lacca di cocciniglia o Rosso carminio, una lacca ottenuta a partire dai corpi essiccati della femmina di un insetto (Coccus cacti) che vive su varie specie di cactus nel Messico e nell'America centromeridionale; il suo principio colorante è l'acido carminico. Il secondo è lo spettro di assorbimento infrarosso della lacca di robbia, una lacca rosso violetto ottenuta da piante erbacee delle Rubiaceae dalle cui radici si estrae il principio colorante (chimicamente noto come alizarina); particolarmente apprezzata quella ottenuta dalla specie Rubia tinctoria. L'analisi dei due spettri rivela che essi, per quanto simili nell'aspetto, sono in realtà differenti per quanto riguarda i massimi di assorbimento, che permettono di riconoscere la struttura chimica che ha provocato l'assorbimento. Lo spettroscopista IR è in grado di interpretare il significato di ogni singola banda di assorbimento, mentre un utente anche non esperto sarà in grado di riconoscere il composto per confronto dello spettro incognito con gli spettri di una banca dati.

3.1.2.3 - Spettroscopia Raman

Questa tecnica, complementare alla tecnica IR, è basata sull'effetto Raman: un campione, irraggiato con luce monocromatica, cioè a l singola, riemette luce a l maggiore (energia inferiore) in quanto parte dell'energia viene assorbita per far vibrare i gruppi funzionali delle molecole presenti nel campione che in questo modo possono essere rivelati in maniera analoga alla spettroscopia IR. A differenza dell'infrarosso, tuttavia, non si misura la luce assorbita ma quella che viene restituita o diffusa dai gruppi funzionali dopo l'assorbimento. La risposta è visibile sotto forma di spettro. Si tratta di una tecnica attualmente molto utilizzata nel campo dei beni culturali, grazie al fatto di essere completamente non distruttiva e di permettere l'esecuzione di misure in situ, cioè direttamente sul campione senza necessità di asportarne una parte per effettuare la misura in laboratorio.

La strumentazione necessaria per effettuare una misura Raman è costituita (figura 31) da una sorgente laser a l fissa, da un microscopio per focalizzare il raggio laser sul campione e da un sistema di rivelazione della radiazione Raman emessa dal campione. Dopo l'irraggiamento con il laser, si registra l'energia luminosa riemessa dal campione sotto forma di spettro, che consente di vedere quali sostanze sono presenti in base ai segnali rilevati. Anche in questa tecnica lo spettroscopista esperto sa interpretare lo spettro in termini di gruppi funzionali, mentre l'utente può riconoscere la sostanza che ha fornito lo spettro in base al confronto con una banca dati.

Nei sistemi portatili, con i quali è possibile fare analisi in situ (figura 32), la radiazione laser e la radiazione Raman vengono trasportate mediante un cavo a fibra ottica e una sonda puntata sul campione: ciò permette di avvicinarsi a distanze minime (frazioni di mm) alle superfici che si vuole analizzare.

L'applicazione principale della spettroscopia Raman in campo archeometrico è, attualmente, nel settore del riconoscimento di pigmenti sui manufatti pittorici, in particolare sugli affreschi (figura 33), e dell'autenticazione di materiali preziosi (figura 34). Per quanto riguarda l'analisi degli affreschi, la caratterizzazione dei pigmenti è molto importante per collocare storicamente il manufatto e per decidere il miglior intervento restaurativo (figura 35): se non è possibile effettuare un prelievo di campione, l'uso di uno spettrometro Raman portatile costituisce il modo più sicuro per identificare i pigmenti (figura 36).

Per valutare le potenzialità della spettroscopia Raman nell'analisi dei pigmenti, è sufficiente osservare quanto gli spettri Raman di quattro pigmenti rossi (figura 37) siano differenti tra di loro, consentendo di differenziare pigmenti che macroscopicamente appaiono simili o identici.

Un'applicazione interessante del Raman è quella dell'analisi dei manoscritti: è possibile effettuare la misura direttamente sull'oggetto, rivelando gli inchiostri e i leganti utilizzati. La misura è fatta mediante una sonda che porta la radiazione laser sul campione e raccoglie il segnale Raman emesso dal materiale analizzato (figura 38) oppure ponendo il manoscritto nel portacampione di uno strumento da banco (figura 39), se la geometria lo permette. In entrambi i casi il campione non subisce danni.

Va ricordato che dal punto di vista tecnico l'analisi effettuata con il Raman è di tipo superficiale: le informazioni provengono da uno strato spesso alcuni µm posto sulla superficie; inoltre, mediante l'uso del microscopio, l'area interessata è dell'ordine di poche unità o centinaia di µm2 a seconda del laser e dell'obiettivo utilizzati (figura 40). Risulta quindi molto importante sapere esattamente dove si sta effettuando la misura per evitare errori macroscopici; per questo motivo gli strumenti Raman sono dotati di una telecamera coassiale con il laser, che permette di visualizzare l'area su cui si sta puntando il laser.

Altre applicazioni della spettroscopia Raman sono nella caratterizzazione di composti organici ed inorganici in materiali di origine animale e vegetale, oppure in prodotti di degradazione.

Riassumendo, le tecniche di spettroscopia molecolare hanno le seguenti caratteristiche:

Tabella 2 - Caratteristiche delle tecniche di spettroscopia molecolare
Tecnica distruttiva No (tranne pastiglia KBr)
Informazione fornita Si determinano molecole
Tipo di campioni analizzabili Liquidi (UV-Vis, IR, Raman) e solidi (IR, Raman)
Possibilità di analisi in situ
Possibilità di analisi senza prelievo di campione
Risoluzione spaziale Buona-ottima
Porzione del campione analizzato Superficie (Raman, IR) o totale (IR, UV)
Espressione dei risultati l di assorbimento o di diffusione Raman
Sensibilità Discreta
Materiali analizzabili Tutti quelli a base organica, alcuni inorganici
Costo Medio

 

3.1.3 - Spettroscopia XRF

Nella spettroscopia XRF, il campione è colpito con un fascio di raggi X dalla sorgente. Gli elementi presenti localmente vengono eccitati, cioè passano ad uno stato energetico superiore, dal quale decadono istantaneamente emettendo radiazioni X monocromatiche specifiche per ogni elemento. Siccome per vari motivi l'energia delle radiazioni emesse è minore di quella incidente, si parla di fluorescenza X o XRF (X-Ray fluorescence). L'energia delle radiazioni emesse permette di riconoscere qualitativamente gli elementi presenti nel campione nel punto irraggiato, mentre l'intensità delle radiazioni è correlabile alla concentrazione degli elementi. La zona irraggiata può essere di 3-100 mm2 o minore nel caso di strumenti dotati di microscopio. Lo schema di uno strumento XRF è riportato nella figura 41; un esempio di analisi XRF è riportato nella figura 42. Una limitazione di questa tecnica è che essa, per motivi strumentali, non è in grado di determinare elementi a basso peso atomico, in particolare dal magnesio all'idrogeno.

I campioni analizzabili con la tecnica XRF sono molto vari: dal codice miniato (figura 43) all'affresco (figura 44), per i quali è particolarmente idonea la strumentazione portatile, nel qual caso l'analisi è effettivamente non distruttiva; inoltre, tutti i materiali a base inorganica (ceramica, vetro, metalli e materiali lapidei). Nonostante l'XRF dia un'informazione elementare, essa può essere utilizzata anche per l'identificazione dei pigmenti sulla base del riconoscimento di uno o più elementi chiave, es. il cinabro (solfuro di mercurio, HgS) può essere identificato dalla presenza di mercurio (figura 45).

L'analisi effettuata con una strumentazione da banco può essere distruttiva in quanto il campione va prelevato e ridotto in polvere. In alcune configurazioni da banco che permettono l'alloggiamento completo completo del campione, invece, l'analisi è nuovamente non distruttiva.

Con lo sviluppo della tecnologia, diventano disponibili strumenti portatili di dimensioni veramente ridotte. Lo strumento della figura 46 è addirittura palmare, mentre quello della figura 47 ha dimensioni 252x160x53 mm. Il costo di questi strumenti è relativamente basso in rapporto alle prestazioni e soprattutto ai vantaggi che possono fornire, essendo totalmente non distruttivi e progettati per l'analisi in situ su qualsiasi tipo di reperto o oggetto d'arte.

Riassumendo, la tecnica di fluorescenza X ha le seguenti caratteristiche:

Tabella 3 - Caratteristiche della tecnica di spettroscopia XRF
Tecnica distruttiva Sì,  tranne con strumenti portatili
Informazione fornita Si determinano elementi
Tipo di campioni analizzabili Liquidi e solidi
Possibilità di analisi in situ
Possibilità di analisi senza prelievo di campione
Risoluzione spaziale Buona
Porzione del campione analizzato Totale o superficie
Espressione dei risultati Concentrazione
Sensibilità Buona
Materiali analizzabili Tutti quelli a base inorganica, alcuni organici
Costo Medio

 

3.1.4 - Spettroscopia XRD

La spettroscopia di Diffrazione a Raggi X (X-Ray Diffraction) è una tecnica molto potente che consente di identificare i composti cristallini presenti in un campione. Inoltre, essa permette di determinare la struttura molecolare di composti incogniti: basti pensare che con la XRD, Watson e Crick scoprirono la struttura del DNA. La tecnica è basata sul fenomeno ottico della diffrazione: un fascio di raggi X, inviato sul campione, viene deviato o, appunto, diffratto, secondo un angolo che dipende dalla struttura cristallina del composto o dei composti presenti nel campione (figura 48). Ogni composto dà origine a uno o più segnali secondo un pattern che è caratteristico per ogni sostanza cristallina e ne permette l’identificazione per confronto con spettri di sostanze note. Come si nota dalla figura 49, gli spettri XRD di calcite e aragonite, due forme cristalline del carbonato di calcio, sono notevolmente diversi pur essendo i due composti identifici per formula. Le sostanze amorfe sottoposte ad analisi XRD non generano alcun segnale.

La tecnica XRD, per quanto non distruttiva in senso analitico, richiede quasi sempre il prelievo di una piccola quantità di campione che va ridotta in polvere. In alcuni strumenti è possibile porre il campione, se di piccole dimensioni, direttamente nell’alloggiamento per l’analisi senza effettuare prelievi. Un esempio di spettrometro XRD è riportato nella figura 50. Esistono, ma non sono ancora del tutto perfezionati, strumenti XRD portatili (figura 51).

In campo archeometrico, la tecnica XRD trova applicazione soprattutto nella caratterizzazione dei pigmenti: famoso è lo studio che ha permesso di identificare la struttura del pigmento Blu Maya.

Riassumendo, la tecnica XRD ha le seguenti caratteristiche:

Tabella 4 - Caratteristiche della tecnica di spettroscopia XRD
Tecnica distruttiva Sì, tranne per campioni piccoli
Informazione fornita Si determinano composti cristallini
Tipo di campioni analizzabili Liquidi e solidi
Possibilità di analisi in situ Sì (rara)
Possibilità di analisi senza prelievo di campione
Risoluzione spaziale Buona
Porzione del campione analizzato Analisi totale del campione
Espressione dei risultati Angoli di diffrazione
Sensibilità Discreta
Materiali analizzabili Tutti quelli a base cristallina
Costo Elevato

 

3.1.5 - Analisi per attivazione neutronica

La tecnica dell'attivazione neutronica (INAA, Instrumental Neutron Activation Analysis) è molto utilizzata in archeometria per la capacità di determinare un numero molto elevato di elementi. In questa tecnica il campione viene irradiato con neutroni lenti prodotti da un reattore nucleare. Il bombardamento determina la formazione, a partire dai nuclei stabili degli elementi presenti, di isotopi instabili che decadono emettendo particelle b; il decadimento porta alla formazione di un nuclide figlio che si trova in una stato energetico eccitato; il successivo rilassamento allo stato fondamentale avviene con emissione di radiazioni g aventi lunghezza d'onda caratteristica da elemento ad elemento (figura 52). L'energia della radiazione permette quindi di riconoscere gli elementi presenti (informazione qualitativa) mentre l'intensità della radiazione è legata alla quantità dell'elemento che decade, la quale, a sua volta, è in relazione con la concentrazione dell'elemento genitore presente prima dell'irradiazione.

Per eseguire analisi con attivazione neutronica è necessario disporre di un reattore nucleare e della strumentazione per rilevare le radiazioni g che vengono emesse, oltre a possedere una approfondita conoscenza delle complesse trasformazioni nucleari che avvengono nel campione quando viene bombardato con neutroni. Per questi motivi sono pochissimi i laboratori in cui la strumentazione è disponibile (es. figura 53, reattore dell'Università di Pavia) e sono ugualmente pochi i laboratori di indagine archeologica o archeometrica che possono permettersi gli elevatissimi costi di esecuzione dell'analisi da parte dei centri specializzati. Nondimeno, è stata per molto tempo l'unica a soddisfare le esigenze analitiche degli studi di provenienza, in quanto permette la determinazione simultanea di più di venti elementi, tra i quali sono compresi quelli che, per motivi geologici, rivestono notevole importanza ai fini dell'indagine.

Potenzialmente, la tecnica potrebbe essere utilizzata per l'analisi di oggetti senza preventivo campionamento. Sono sufficienti appena 20 mg di campione per eseguire l'analisi, a patto che il reperto sia di materiale sufficientemente omogeneo da consentire un prelievo rappresentativo con quantità così ridotte. Un esempio di spettro INAA di un campione di ceramica è riportato nella figura 54.

Riassumendo, la tecnica di analisi per attivazione neutronica ha le seguenti caratteristiche:

Tabella 5 - Caratteristiche della tecnica di spettroscopia INAA
Tecnica distruttiva No
Informazione fornita Si determinano elementi
Tipo di campioni analizzabili Liquidi e solidi
Possibilità di analisi in situ No
Possibilità di analisi senza prelievo di campione
Risoluzione spaziale Nulla
Porzione del campione analizzato Analisi totale campione
Espressione dei risultati Concentrazione
Sensibilità Eccellente
Materiali analizzabili Tutti quelli a base inorganica, alcuni organici
Costo Molto elevato

 

3.1.6 - Tecniche di analisi superficiale

Si tratta di tecniche utilizzate per analizzare la superficie del campione, del quale viene quindi investigato uno strato estremamente sottile. La profondità di campionamento varia da tecnica a tecnica: si va da uno spessore di pochi µm a pochi mm. Anche le succitate tecniche di spettroscopia atomica con laser-ablation, di spettroscopia Raman e di spettroscopia XRF nella versione portatile sono da considerare tecniche superficiali.

 

3.1.6.1 - Microscopia elettronica e SEM

La microscopia elettronica a scansione (Scanning Electron Microscopy - SEM) è una tecnica largamente utilizzata in archeometria. La strumentazione consente di eseguire analisi strutturali e di determinare la composizione elementare della zona irraggiata. Un generatore di elettroni produce particelle cariche negativamente che bombardano il campione, inducendo l'emissione di elettroni e di raggi X secondari che dipendono dagli elementi presenti nell'area irraggiata (figura 55). Queste radiazioni forniscono l'immagine che si può visualizzare attraverso un monitor. Inoltre, impiegando una microsonda (nella versione SEM-EDX) l'analisi può essere sia qualititativa che quantitativa, permettendo di analizzare punti con un diametro compreso fra 0.1 fino a 0.002 mm.

La tecnica SEM è quindi particolarmente idonea per lo studio dei rivestimenti ceramici, ma è impiegata anche per la caratterizzazione di moltissimi altri tipi di reperti. Si può studiare, ad esempio, la composizione chimica di un ingobbio o di un rivestimento vetroso (figura 56); l’immagine al microscopio può differenziare un reperto ceramico modellato al tornio da uno modellato a mano: nel primo caso le particelle appaiono allineate, nel secondo caso sono disposte più casualmente.

Con la tecnica SEM, campioni di piccole dimensioni possono essere analizzati senza prelievo, mentre nella maggior parte dei casi è necessario avere una piccola quantità di campione. La preparazione del campione richiede la sua metallizzazione in quanto esso deve essere reso conduttivo, oppure deve prevedere l’esecuzione di una sezione lucida. L’analisi richiede in media alcune ore per campione. La tecnica SEM fa quindi parte del gruppo delle tecniche non distruttive e paradistruttive. Il costo della strumentazione (figura 57) è generalmente molto elevato, per quanto si tratti di strumenti molto diffusi.

Riassumendo, la tecnica SEM-EDX ha le seguenti caratteristiche:

Tabella 6 - Caratteristiche delle tecniche di microscopia SEM
Tecnica distruttiva No
Informazione fornita Si determinano elementi
Tipo di campioni analizzabili Liquidi e solidi
Possibilità di analisi in situ No
Possibilità di analisi senza prelievo di campione
Risoluzione spaziale Eccellente
Porzione del campione analizzato Analisi superficiale
Espressione dei risultati Concentrazione
Sensibilità Discreta
Materiali analizzabili Tutti
Costo Molto elevato

 

3.1.6.2 - Spettroscopia PIXE

La PIXE (Proton Induced X-ray Emission) è una tecnica veloce, non distruttiva e multielementare basata sulla spettroscopia X. In questa tecnica, il campione è bombardato con un fascio di protoni, cioè di particelle cariche positivamente, aventi energia pari a qualche MeV. I protoni, impattando sugli atomi del campione, provocano l'emissione indiretta di raggi X la cui lunghezza d'onda è caratteristica degli elementi costituenti la zona bombardata e la cui intensità è proporzionale alla concentrazione degli elementi (figura 58). Lo spot colpito dal fascio protonico ha un'area variabile tra 4 mm2 e pochi µm, mentre lo strato interessato in profondità è di circa 100 µm.

L'informazione che si ottiene dalla tecnica PIXE è relativa agli elementi presenti sulla superficie del campione. Le applicazioni principali sono quindi nella caratterizzazione di oggetti metallici, in vetro o in ceramica (figura 59). Tuttavia, analogamente alla tecnica XRF, la PIXE può essere impiegata nella caratterizzazione di pigmenti o coloranti, per la cui identificazione può essere sufficiente la determinazione dei principali elementi presenti nel composto. Nella figura 60 è riportato lo spettro PIXE di un campione di lapislazzuli, pigmento blu la cui composizione è Na8-10Al6Si6O24S2-4; l'identificazione avviene attraverso il riconoscimento qualitativo degli elementi Na, Al, Si e S.

L'altissima capacità di risoluzione della tecnica PIXE la rende particolarmente adatta all'analisi di pigmenti e inchiostri su manoscritti (figura 61), nella quale è necessario riuscire a discriminare tratti o zone pigmentate molto ravvicinati.

Un'ulteriore caratteristica della PIXE è che il fascio protonico può essere scansito sul campione in due dimensioni, in modo da fornire le distribuzioni spaziali degli elementi presenti per poter studiare come le loro concentrazioni variano sulla superficie.

Dal punto di vista tecnologico, gli strumenti PIXE utilizzati in campo archeometrico sono spesso assemblati in casa e hanno quindi una diffusione commerciale limitata. Gli strumenti da laboratorio (es. figura 62) possono richiedere dispositivi ingombranti e poco comuni come un acceleratore di Van de Graaff (figura 63); gli strumenti portatili sono assai poco diffusi (es. figura 64, PIXE portatile del laboratorio LNS) per le difficoltà tecniche connesse con la loro realizzazione, per quanto rappresentino una soluzione analitica con potenzialità ineguagliabili per quanto riguarda l’analisi elementare.

Riassumendo, la tecnica PIXE ha le seguenti caratteristiche:

Tabella 7 - Caratteristiche della tecnica di spettroscopia PIXE
Tecnica distruttiva No
Informazione fornita Si determinano elementi
Tipo di campioni analizzabili Liquidi e solidi
Possibilità di analisi in situ
Possibilità di analisi senza prelievo di campione
Risoluzione spaziale Ottima
Porzione del campione analizzato Analisi superficiale del campione
Espressione dei risultati Concentrazione
Sensibilità Ottima
Materiali analizzabili Tutti quelli a base inorganica, alcuni organici
Costo Molto elevato

 

3.2 - Le tecniche cromatografiche

Tra le tecniche più idonee all'analisi di reperti organici vi sono le cosidette tecniche cromatografiche, utilizzate per separare e identificare singolarmente i componenti di una miscela. Il termine deriva dal greco ed è legato al suo inventore, un botanico russo di nome Tzwett, che all'inizio del XX secolo intendeva separare le sostanze coloranti della clorofilla.

Queste tecniche sono molto varie, ma si basano tutte su un principio comune: esse sfruttano la differenza di interazione dei componenti di una miscela nei confronti di un supporto statico, la fase fissa o stazionaria, e di un supporto dinamico, la fase mobile o eluente, che fluisce attraverso la fase fissa trascinando le sostanze componenti la miscela (figura 65). Durante l'attraversamento, detto processo di eluizione, i componenti subiscono un rallentamento più o meno marcato a seconda della loro affinità per la fase fissa ed escono da essa a tempi diversi, in modo da poter essere identificati uno per uno. Le sostanze che compongono la miscela vengono identificate mediante un rivelatore posto all'uscita dalla fase fissa che registra le modifiche di alcune proprietà chimico-fisiche. Il responso che si ottiene si chiama un cromatogramma. I due gruppi principali di tecniche cromatografiche sono:

  • la cromatografia liquida, nella quale la fase mobile è liquida e la fase fissa è solida o liquida

  • la gascromatografia, nella quale la fase mobile è gassosa e la fase fissa è solida o liquida

 

3.2.1 - Cromatografia liquida

Nella cromatografia liquida (LC) la fase fissa è una colonna o un supporto planare contenente il materiale attivo, la fase mobile è un liquido (schema in figura 66); essa è utilizzata per la separazione di sostanze poco volatili come idrocarburi ad alto peso molecolare, molecole biologiche (proteine, grassi), sostanze ioniche o ionizzabili (anioni, amine, zuccheri). Particolarmente utilizzate sono la cromatografia ad alta pressione o HPLC (un esempio di strumento è mostrato nella figura 67) per la separazione di sostanze neutre e la cromatografia ionica (IC) per la separazione di sostanze ioniche. Un esempio di analisi HPLC si ha nella figura 68, nella quale è mostrata la separazione e identificazione di composti usati per la tintura di un manufatto di seta rossa Copto (VII-IX secolo d.C.).

 

3.2.2 - Gascromatografia

Nella gascromatografia (GC) la fase fissa è una colonna contenente il materiale attivo e la fase mobile è un gas; essa è utilizzata per la separazione di sostanze volatili o volatilizzabili come idrocarburi a basso peso molecolare, aromi, acidi organici. Tra le varie versioni, particolarmente utilizzata in campo archeometrico è la gascromatografia accoppiata alla spettrometria di massa (GC-MS). Lo schema della tecnica è mostrato in figura 69; sono disponibili in commercio sia strumenti da banco (figura 70) sia strumenti portatili (figura 71), meno diffusi. Questa tecnica consente di avere informazioni strutturali sulle sostanze presenti in una miscela in quanto per ogni sostanza separata viene effettuato uno spettro di massa (figura 72) il quale, tramite il confronto con un database di spettri di sostanze note, consente l’identificazione della sostanza. Attualmente i database disponibili contengono spettri di almeno 200.000 sostanze diverse e ciò rende la tecnica GC-MS estremamente potente e versatile.

Riassumendo, le tecniche cromatografiche hanno le seguenti caratteristiche:

Tabella 8 - Caratteristiche delle tecniche cromatografiche
Tecnica distruttiva
Informazione fornita Si determinano composti o elementi
Tipo di campioni analizzabili Gas, liquidi e solidi (se portati in soluzione)
Possibilità di analisi in situ No
Possibilità di analisi senza prelievo di campione No
Risoluzione spaziale Nulla
Porzione del campione analizzato Analisi totale del campione
Espressione dei risultati Concentrazione
Sensibilità Buona-ottima
Materiali analizzabili Tutti quelli a base organica, alcuni inorganici
Costo Basso

 

 

4 - Trattamento dei dati

4.1 - Introduzione

Le analisi che si effettuano sui campioni devono essere valutate dal punto di vista statistico prima di poter trarre da esse conclusioni. Bisogna quindi considerare parametri quali:

  • precisione, cioè la ripetibilità delle misure

  • accuratezza, cioè la distanza tra valore misurato e valore vero

Per valutare l'affidabilità dei dati, essi devono avere precisione e accuratezza adeguate. La precisione è misurata effettuando più misure (normalmente non meno di tre), mentre l'accuratezza si stima analizzando i cosidetti campioni certificati, cioè campioni le cui concentrazioni siano note a priori.

L'analisi statistica è particolarmente importante quando essa riguarda un gruppo di campioni all'interno dei quali sia interessante individuare relazioni o raggruppamenti. I risultati delle analisi sono normalmente raccolti in tabelle, nelle quali ad ogni campione è associato il set di valori assunti dai vari parametri determinati (concentrazione degli elementi o delle molecole, rapporti isotopici, ecc.) che nel gergo statistico sono denominati variabili.

L'elaborazione statistica dei dati può avere più finalità:

  • suddividere l'insieme dei campioni analizzati in gruppi formati sulla base delle similitudini nella composizione

  • evidenziare sequenze temporali significative

Osservando i risultati in forma tabulare, è piuttosto difficile mettere in evidenza eventuali similitudini o sequenze di composizione tra i reperti. Per questo è opportuno ricorrere a semplici elaborazioni grafiche che possono mostrare in modo immediato come i campioni si dispongano in uno spazio delimitato da due o tre variabili. Il metodo grafico più semplice consiste nel rappresentare i dati con diagrammi o plot bivariati: si tratta di grafici cartesiani bidimensionali, nei quali gli assi sono costituiti da coppie di variabili e ciascun campione è rappresentato da un punto le cui coordinate sono i valori assunti dalle due variabili. Ad esempio, nel plot bivariato della figura 73 sono diagrammati la percentuale di FeO contro il rapporto Al2O3/SiO2 misurati in campioni di ceramica: è facile evidenziare i gruppi di campioni con caratteristiche simili. Risultati più sofisticati si hanno con plot trivariati, nei quali sono diagrammate tre variabili.

Nei casi più semplici, trovando la combinazione giusta di variabili il raggruppamento dei campioni è già evidente in due o tre dimensioni. In questo caso, se n è il numero di variabili misurate, il numero di plot bivariati disponibili è pari a Sn(n-1).

Viceversa, se non è possibile individuare raggruppamenti in maniera semplice, è necessario ricorrere all'analisi multivariata, cioè prendendo contemporaneamente in considerazione un numero elevato di variabili, situazione che si ha, ad esempio, nel caso di un'analisi ICP-MS dove gli elementi determinabili sono molti. Naturalmente la rappresentazione grafica, immediata per due variabili e più complessa ma ancora possibile per tre variabili, diventa del tutto impossibile per un numero di variabili più elevato. In questi casi si ricorre a tecniche di display che permettono di ridurre la dimensionalità dello spazio delle variabili senza perdere significativamente informazioni sui dati, cioè mantenendo il più possibile la struttura dei dati nello spazio definito da tutte le variabili.

Mentre l'analisi bivariata può essere effettuata con un qualunque software in grado di diagrammare due o tre variabili, per l'analisi multivariata in genere si utilizzano specifici software di calcolo. L'elaborazione dei dati mediante analisi multivariata viene effettuata con le tecniche della chemometria, una disciplina matematica molto utilizzata nel campo della chimica analitica. Tra queste, le più utili sono le tecniche di classificazione o pattern recognition (riconoscimento di gruppi).

 

4.2 - Tecniche di classificazione

Le tecniche di classificazione sono utilizzate per capire come i campioni analizzati si raggruppano in strutture omogenee. Si dividono in due tipologie:

  • le tecniche unsupervised o non supervisionate

  • le tecniche supervised o supervisionate

 

4.2.1 - Tecniche unsupervised

Nelle tecniche unsupervised si ha come risultato la visualizzazione dei dati in maniera compatta e facilmente leggibile, in modo da poter riconoscere i gruppi omogenei all'interno del set di campioni. Si chiamano unsupervised perchè non viene formulata alcuna ipotesi a priori sul modo in cui i campioni si raggrupperanno. Le due tecniche più impiegate sono l'analisi delle componenti principali e l'analisi a cluster.

4.2.1.1 - Analisi delle componenti principali

L'analisi delle componenti principali (PCA) è un metodo molto noto in chimica, ma è largamente impiegato anche in altre discipline scientifiche e non. Consideriamo un set di dati composto da n variabili che descrivono m oggetti, con m ed n molto elevati. L'informazione contenuta in questo set è difficilmente visualizzabile in plot bi- o trivariati: ogni plot conterrebbe soltanto una minima frazione dell'informazione totale, pari rispettivamente a 2/n e a 3/n. Mediante la PCA è possibile creare un nuovo set di n variabili che siano combinazioni lineari delle variabili originarie. Queste variabili o componenti principali vengono generate sequenzialmente e hanno due caratteristiche principali:

  1. sono totalmente non correlate tra di loro, a differenza delle variabili originarie

  2. l'insieme delle componenti principali contiene la stessa quantità di informazione delle variabili originarie, ma le prime due o tre mantengono una percentuale elevata dell'informazione totale contenuta nel set di dati

Per questi motivi, utilizzando le prime due o tre componenti principali calcolate è possibile visualizzare in due o tre dimensioni una frazione molto più alta dell'informazione totale, facilitando il pattern recognition; questo è possibile in quanto nella creazione delle componenti principali viene eliminata l'informazione ridondante, dovuta alla correlazione tra le variabili. Quindi, mentre un plot bivariato con due variabili originarie mostra una percentuale dell'informazione totale pari a (2/n)·100%, un plot bivariato con due componenti principali può mostrare una percentuale molto più elevata, pari anche all'80-90%. In definitiva, nonostante la tecnica PCA metta in evidenza solo una frazione dell'informazione iniziale, essa permette in moltissimi casi di riconoscere il modo in cui i campioni si raggruppano. In genere è sufficiente un numero limitato (fino a tre) di questi nuove variabili per rappresentare in modo quasi completo la struttura dei dati originari.

Il grafico delle componenti principali in cui sono rappresentati i campioni nello spazio definito dalle nuove variabili è chiamato grafico degli scores. Il contributo delle variabili originarie alla composizione delle componenti principali è individuato dal grafico dei loadings: esso permette di capire quali sono le variabili che differenziano maggiormente i gruppi individuati nel grafico degli scores.

4.2.1.2 - Analisi a cluster

Si tratta di un insieme di metodi ampiamente utilizzati nel campo degli studi di provenienza. Nell'analisi a cluster (CA) i campioni sono considerati come oggetti posti in un iperspazio a n dimensioni, con n uguale al numero di variabili misurate. I campioni sono raggruppati in base alle similitudini rilevate nei valori delle variabili determinate. Il criterio per misurare la similarità tra gli oggetti può essere vario; generalmente è utilizzata la distanza euclidea. Gli oggetti più simili sono quelli aventi distanza euclidea minore; mediante l'applicazione di un algoritmo si esegue il raggruppamento dei dati fino ad avere una rappresentazione grafica dei risultati. I vari metodi CA si differenziano tra loro in base ai diversi criteri utilizzati per calcolare la similarità tra gli oggetti ed in base all'algoritmo utilizzato per eseguire il raggruppamento.

In campo archeometrico, il metodo di clustering più utilizzato è quello chiamato gerarchico agglomerativo. Con questo metodo, ciascun oggetto è considerato inizialmente come costituente un singolo gruppo. Schematicamente, l'intero processo è suddiviso in quattro passaggi:

  1. si calcolano le distanze tra tutti gli oggetti, a due a due

  2. si individua la coppia degli oggetti con distanza minore; questi vengono uniti per formare un unico gruppo o cluster costituente una nuova, singola entità con coordinate intermedie tra quelle dei due oggetti uniti

  3. il calcolo delle distanze è ripetuto tenendo conto del nuovo cluster

  4. la procedura è iterata fino a quando tutti gli oggetti vengono inclusi in un unico cluster

I risultati sono riportati in forma di grafico che, per la forma ramificata, è chiamato dendrogramma (figura 74). Il dendrogramma permette di identificare i gruppi esistenti tra i campioni, costituiti da oggetti dalle caratteristiche simili. A differenza della tecnica PCA, nella CA si visualizza tutta l'informazione contenuta nel set di dati dei campioni, benchè la sostituzione dei singoli oggetti con nuovi cluster (punto 2) introduca una certa distorsione nel sistema visualizzato.

 

4.2.2 - Tecniche supervised

Questo tipo di elaborazione, a differenza dei metodi unsupervised, si basa sull'assunzione che sia già nota e definita l'esistenza di gruppi o classi. Questa condizione può derivare dal fatto che le analisi sono state eseguite su reperti di provenienza nota, oppure che i dati sono relativi a gruppi precedentemente definiti tramite la PCA o la CA. Si ha quindi un'assegnazione a priori dei campioni in gruppi. L'elaborazione consente di identificare le variabili che differenziano maggiormente i gruppi predefiniti.

Tra i metodi supervised uno dei più utilizzati in archeometria è l'analisi discriminante (DA). Essa si utilizza quando sia necessario verificare che nuovi campioni possano essere assegnati a gruppi genitore precedentemente definiti, ad esempio se si desidera chiarire la provenienza di campioni incerti sulla base della loro similitudine composizionale con gruppi formati da campioni di provenienza nota. L'analisi discriminante si fonda sulla ripartizione dello spazio delle variabili in zone assegnate ai singoli gruppi, attraverso una specifica regola di discriminazione che genera delle funzioni chiamate, appunto, discriminanti; queste definiscono un nuovo spazio in cui i dati sono riportati in forma di grafico cartesiano. I campioni incogniti possono essere assegnati ai vari gruppi in base a come si dispongono in questo spazio.

 

 

5 - I materiali di interesse artistico e archeologico

5.1 - I materiali lapidei

5.1.1 - Definizione

Per definire i materiali lapidei, si potrebbe pensare a materiali di nobiltà inferiore rispetto ai materiali classici dell'antichità: ceramica, vetro e metalli. Questa definizione è però non corretta in quanto anche pietre ornamentali come la giada o il turchese e materiali esteticamente rilevanti come il marmo sono considerati lapidei. La definizione corretta è quella di materiali di origine inorganica composti da minerali e rocce, che vengono prelevati e trasformati solo meccanicamente (figura 75), a differenza dei materiali trasformati chimicamente (figura 76) come, appunto, ceramica, vetro e metalli in lega.

I materiali lapidei sono utilizzati per scopi diversi: ad uso edile (marmo, arenaria), ad uso ornamentale (turchese, giada) o per preparare utensili (selce, ossidiana). L'interesse per il loro studio in campo archeometrico è legato essenzialmente alla possibilità di risalire alla provenienza geografica dei manufatti, stante il collegamento immediato tra i manufatti stessi e le materie prime, per il fatto che non vi sono generalmente trasformazioni chimiche. Gli studi di provenienza sono quindi agevolati, a differenza di quanto succede per i materiali trasformati chimicamente come ceramica, vetro e leghe, per i quali il manufatto è difficilmente correlabile alla materia prima.

I principali materiali lapidei utilizzati dall'uomo nel corso della storia sono i seguenti:

L'ossidiana non è strutturalmente un vetro materiale lapideo essendo un vetro di origine vulcanica, tuttavia dal punto di vista tecnologico ha le stesse caratteristiche degli altri materiali elencati.

 

5.1.2 - Il marmo

Il marmo è senz'altro il materiale lapideo più famoso, ineguagliabile dal punto di vista estetico e storico: basti pensare all'Acropoli di Atene o al tempio Taj Mahal ad Agra, in India.

Esso è una roccia metamorfica composta da carbonato di calcio (calcite, fino al 99%) e carbonato di magnesio (dolomite), originata da calcare. L'aspetto è candido, con vari tipi di grana; le venature indicano le impurità della composizione mentre il colore è determinato dalla presenza dei minerali accessori. Si tratta di un materiale molto duro ma poco resistente agli agenti atmosferici, in particolare al fenomeno delle piogge acide. In antichità il marmo era un materiale molto pregiato ed oggetto di intensi scambi commerciali; l'utilizzo era per lo più per la statuaria, le iscrizioni, i templi, gli archi di trionfo e le costruzioni private.

Esistevano cave disperse per tutta l'area mediterranea (figura 77), in particolare sulla penisola greca (Hymettos, Pentelikon) e le isole egee (Naxos, Paros nelle Cicladi), in Asia Minore (Proconnesos, Dokimeion, Usak), Italia (Carrara), Africa settentrionale (Tunisia) e Pirenei. I marmi di maggior pregio sono considerati essere quelli delle cave greche e di Carrara; i marmi apuani, bianchissimi e senza venature, sono puri, cioè composti quasi interamente da calcite.

Il marmo si presta molto bene agli studi di provenienza in quanto materiale lapideo ed è probabilmente il più studiato in questo genere di ricerche archeometriche. In particolare è molto utilizzata la tecnica della determinazione dei rapporti isotopici (i rapporti tra le quantità di due isotopi dello stesso elemento o di elementi diversi, es. 13C/12C, 18O/16O) in quanto questi parametri hanno valori simili all'interno di una cava ma differiscono da cava a cava e soprattutto da zona a zona; le più importanti cave dell'antichità, per esempio, sono ben differenziabili. I valori dei rapporti isotopici delle principali sorgenti di marmo utilizzate nell'antichità sono noti e tabulati (figura 78), è possibile in molti casi risalire in questo modo alla provenienza di campioni incogniti confrontandone i valori nei plot bivariati illustrati.

 

5.1.3 - La quarzite

Si tratta di una roccia composta principalmente da quarzo (SiO2) e derivante per metamorfismo dall'arenaria. Di aspetto biancastro e per lo più opaca (a differenza del quarzo), essa è molto dura e molto resistente agli agenti atmosferici, e per questo usata come materiale per costruzioni o monumenti.

Un esempio noto di monumento in quarzite è costituito dai Colossi di Memnone (figura 79), due statue megalitiche fatte costruire durante la XVIII Dinastia dal faraone Amenhotep III nei pressi di Luxor (figura 80), sulla riva sinistra del Nilo. I due famosi colossi sono le statue che fiancheggiavano l'ingresso del tempio funerario del faraone, oggi quasi completamente scomparso. Rappresentano entrambi il re seduto, con ai lati, di proporzioni ben più piccole, due donne: la madre Mutemuia e la "grande sposa" Teie. I due colossi hanno resistito all'usura del tempo e dell'uomo per secoli, grazie alle caratteristiche di durevolezza della quarzite. Attualmente uno dei due è però in condizioni menomate.

Memnone è un personaggio omerico; figlio di Titone ed Aurora, re etiope, accorse in aiuto di Troia e morì sotto le sue mura per mano di Achille, divenendo immortale per intercessione della madre presso Zeus. Una delle due statue fu rovinata dal terremoto del 27 a.C.; per un gioco di dilatazioni causate dai primi raggi del sole, tale statua da allora, all'alba, emetteva da una frattura un dolce suono: nell'immaginazione dei visitatori di età classica Memnone, raffigurato nella statua spezzata dal terremoto, salutava la madre Aurora con quel suono "come di corde di cetra che si spezzassero". La cosa è stata spiegata con la presenza, nella quarzite, di cristalli che si assestavano in modi differenti in seguito alla differenza di temperatura tra la notte ed il giorno. Un restauro mal fatto sotto Settimio Severo pose fine allo strano fenomeno.

I Colossi sono due blocchi di quarzite alti 20 metri e dal peso di 700 tonnellate ognuno. Un problema archeologico piuttosto importante è capire la provenienza del materiale. Ricerche sono state fatte negli anni '70 da ricercatori canadesi i quali, confrontando il contenuto di metalli in tracce nei Colossi e in campioni di quarzite provenienti dalle cave più sfruttate in epoca egiziana, poterono affermare che la quarzite proveniva dalle cave di Gebel el Ahmar, 600 Km a nord controcorrente. Si tratta quindi di un'opera titanica, considerando l'unica possibilita di trasporto via fiume ma in direzione opposta alla corrente. Le parti restaurate in epoca romana sono invece provenienti da cave più vicine e poste più a sud di Luxor, quindi a favore di corrente.

 

5.1.4 - La selce

La selce è una roccia quarzifera nera-marrone (figura 81) associata a formazioni calcaree, composta prevalentemente da quarzo ma anche da fasi amorfe come l'opale e da microfossili. La sua origine è dovuta probabilmente alla sostituzione di minerali carbonatici con minerali silicei, più stabili. Gli oggetti in selce sono caratterizzati dalla tipica frattura concoide.

La selce è considerata il materiale più utilizzato nella manifattura di utensili durante l'età della Pietra o il Paleolitico; con essa si forgiavano oggetti di vario impiego, dalle stoviglie agli oggetti da offesa quali punte di lancia (figura 82). Ci sono numerosi studi archeometrici su questo materiale in quanto, essendo poche le sorgenti di selce ma elevato il suo uso in età archeologica, lo studio della sua composizione può dare informazioni sulle rotte commerciali nella preistoria.

 

5.1.5 - Basalto, arenaria e granito

Tra i materiali lapidei, basalto, arenaria e granito sono considerati l'estremo opposto rispetto al marmo o ad altri materiali utilizzati a scopo decorativo. Si tratta, infatti, di materiali impiegati in grandi unità strutturali a scopo unicamente edilizio, ad esempio nei circoli di pietre di numerosi siti archeologici nell'Europa Occidentale (Callanish, Stonehenge, Carnac), per le Piramidi d'Egitto oppure per edifici civili in età più recente.

Questi materiali sono rocce silicee, cioè costituite prevalentemente da biossido di silicio. Il basalto è una roccia ignea effusiva di origine vulcanica, composta per lo più da silicati, di aspetto grigio-nero, estremamente dura e resistente. L'arenaria è una roccia sedimentaria (es. Ayers Rock, figura 83) formata da sabbia quarzifera, che può diventare per metamorfismo quarzite; essa è relativamente tenera e porosa. Il granito, infine, è una roccia ignea a grana grossa, piuttosto eterogenea e composta dai minerali quarzo, mica  e ortoclasio, molto dura e resistente. 

Il più famoso tra i manufatti di questo tipo è senza dubbio il circolo di pietre di Stonehenge (figura 84), nella Salisbury Plain (Inghilterra sud-occidentale). Esso è costituito in realtà da diversi circoli concentrici, nei quali alcuni blocchi sono composti da rocce basaltiche, altri da arenaria e altri ancora da altre rocce ignee. Un altro manufatto in basalto molto importante è la Stele di Rosetta (figura 85).

 

5.1.6 - La steatite

Steatite o Pietra saponaria: si tratta di una roccia metamorfica costituita prevalentemente da talco (Mg3(Si4O10)(OH)2). Solitamente si presenta bianca, verde o grigia (figura 86) e saponosa al tatto, tanto che in inglese si chiama appunto soapstone. Data la sua composizione, è molto tenera e facile da lavorare (scala di Mohs: 1). Nel Nord America le tribù indiane usavano la steatite per confezionare i calumet della pace.

La steatite era molto utilizzata dagli Egizi per la manifattura di perle, vasi e altri piccoli oggetti come gli scarabei (figura 87). Pare inoltre che avesse effetti benefici sullla salute.

 

5.1.7 - Le pietre calcaree

Il calcare e le pietre calcaree sono tra le più comuni rocce presenti sulla terra (figura 88), al pari delle rocce silicee. Esse sono rocce sedimentarie costituite prevalentemente da carbonato di calcio, formatesi per l'accumulo di materiale inorganico ma anche biologico (gusci di conchiglie, diatomee). Il calcare si presenta come un materiale molto duro ma, per la sua natura chimica, attaccabile dagli agenti atmosferici; in particolare subisce l'azione delle sostanze acide.

Si tratta di materiali molto utilizzati già in antichità per la costruzione di edifici ma anche per oggetti ornamentali (figura 89). Nell'antica Grecia il calcare ha preceduto il marmo nella scultura. Nel medioevo fu usato estesamente nella costruzione degli edifici religiosi, in particolare per le cattedrali (Notre Dame a Parigi, cattedrale di Siviglia).

 

5.1.8 - Il turchese

Tra i materiali lapidei utilizzati a scopo ornamentale vi è il turchese. Chimicamente esso è un minerale a base di fosfato avente formula CuAI6·[(OH)2[PO4]4·4H2O, dal colore inconfondibile, dovuto alla presenza di rame, e dalla consistenza dura.

Veniva utilizzato nell'antichità per produrre gioielli (figura 90) come perle, anelli e pendant, oppure tessere di mosaico con cui comporre maschere o altri manufatti. Quasi tutta l'antica gioielleria egizia comprende delle splendide turchesi.

In particolare era molto utilizzato sul continente americano, dove era fatto oggetto di intensi scambi commerciali; le miniere si trovavano soprattutto nel sud-ovest degli attuali USA, ma l'area di maggior produzione di manufatti era il Centroamerica. All'arrivo di Hernan Cortes in Messico nel 1519, egli fu accolto dagli indigeni con una maschera costituita da un mosaico in turchese, per celebrare la sua divinità.

 

5.1.9 - La giada

Si tratta di una pietra ornamentale di colore verde e buona compattezza, utilizzata per la manifattura di oggetti d'arte quali statuette (figura 91) e perle.

Esistono due qualità di Giada, chimicamente costituite da due minerali diversi: la giadeite (solfato di sodio e alluminio) e la nefrite (silicato di calcio, magnesio e ferro). Entrambi i tipi sono caratterizzati da un elevato grado di durezza, sebbene la giadeite sia più dura della nefrite. Risulta particolarmente difficile distinguere i due tipi di Giada; tuttavia va precisato che con il termine Giada si intende comunemente la giadeite.

Pochi materiali possiedono la ricchezza di leggenda e tradizione magica della giada. Essa era molto utilizzata soprattutto in Oriente ed è considerata avere, al pari di altre pietre ornamentali, capacità taumaturgiche.

 

5.1.10 - L'alabastro

L'alabastro è una roccia sedimentaria derivante dal gesso (solfato di calcio biidrato, CaSO4·2H2O), la cui colorazione varia a seconda della presenza di alcuni tipi di minerali contenuti nella roccia. Si tratta di un materiale molto duro, molto pregiato e utilizzato perciò per lo più a scopo ornamentale.

L'alabastro più famoso è quello gessoso di Volterra che viene estratto in diverse colorazioni, dal bruno al marrone scuro, dal nero al grigio, al giallo. Nella figura 92 è riportata una statuetta acefala, in finissimo alabastro, raffigurante la dea Iside. Essa proviene dalla villa romana di S. Vincenzino a Cecina (Livorno). Esiste una varietà, detta calcareo od orientale (figura 93), che si differenzia chimicamente parlando per essere costituito da carbonato di calcio poliforme e che si presenta sotto forma di calcite e talvolta di aragonite.

Nell'antichità fu usato largamente nella produzione di vasi, urne, statue e come materiale pregiato da rivestimento.

 

5.1.11 - Le gemme

Al pari delle pietre ornamentali o pietre dure descritte in precedenza (giada, turchese, ecc.), possono essere considerate materiali lapidei anche le gemme. Esse sono infatti dei minerali (vedi paragrafo 2.3.5), aventi struttura cristallina e composizione specifica. La definizione di gemme è legata in particolare alla bellezza, alla durevolezza e alla rarità di questi materiali. Le gemme di maggior valore o pietre preziose sono essenzialmente quattro: il diamante (figura 94), il rubino (figura 95), lo zaffiro (figura 96) e lo smeraldo (figura 97). Di valore inferiore sono le pietre semipreziose, tra le quali il topazio (figura 98), l'acquamarina (figura 99) e l'opale (figura 100). Le caratteristiche di queste gemme sono descritte nella tabella 9.

Tabella 9 - Lista delle più importanti pietre preziose
Nome Colore Minerale
Diamante incolore Carbonio nativo
Rubino rosso Corindone (a-Al2O3) con impurezze di Cr2O3
Zaffiro azzurro, rosso, giallo, violetto Corindone (a-Al2O3) con impurezze di Fe2O3 e TiO2
Smeraldo verde Berillo (Al2[Be3Si6O18]) con impurezze di Cr2O3 e V2O5
Acquamarina azzurro chiaro Berillo (Al2[Be3Si6O18])
Topazio giallo, blu, rosa Al2(OH, F)2SiO4
Opale vario Silice (SiO2) amorfa

Dati l'enorme valore delle gemme, sono stati recentemente sviluppati alcuni metodi analitici per verificarne la provenienza. Essi si basano sul contenuto delle impurezze metalliche o sui rapporti isotopici.

 

5.1.12 - Pigmenti inorganici

Anche i pigmenti inorganici, per quanto possa sembrare strano, sono da considerare materiali lapidei. Essi sono infatti ottenuti prevalentemente da rocce o minerali puri che vengono frantumati e utilizzati poi, chimicamente inalterati, nelle varie tecniche pittoriche. Alcuni esempi sono il lapislazzuli o lazurite, la malachite, il cinabro.

Viceversa, i pigmenti organici, le lacche, i coloranti, gli inchiostri e i pigmenti vetrosi non sono ovviamente materiali lapidei.

 

5.1.13 - L'ossidiana

L'ossidiana, dal punto di vista strutturale non si può considerare un materiale lapideo bensì vetroso: si tratta infatti di un vetro di origine vulcanica, composto quindi in prevalenza da SiO2 amorfa (attenzione: non da quarzo). Anche esso, come la selce, presenta frattura concoide (figura 101). Tuttavia, le sue caratteristiche dal punto di vista tecnologico la fanno rientrare in questa categoria.

L'ossidiana fu molto utilizzata nel periodo Neolitico come materiale per la manifattura di utensili da taglio (come il kriss riportato in figura 102) e, in seguito, per oggetti ornamentali quali vasi e statue: la statua di Zeus a Olimpia, scolpita da Fidia, fu da lui decorata con ossidiana; nelle culture precolombiane veniva usata per statue, maschere, specchi e coltelli. Si tratta quindi di un materiale diffuso in tutto il mondo e certamente trasportato su rotte commerciali di ampia portata. Per di più, è stabile alle alterazioni chimiche (tranne la superficie che tende ad idratarsi). Quindi, analizzando la distribuzione elementare di campioni incogniti, è possibile risalire con buona probabilità alla sorgente da cui i campioni sono stati prelevati.

Dal punto di vista archeometrico, l'ossidiana è un materiale quasi ideale per gli studi di provenienza in quanto prodotto solo dall'azione dei vulcani; le sorgenti sono limitate e omogenee al loro interno, per cui la distribuzione degli elementi può essere estremamente caratteristica da sorgente a sorgente.

 

5.1.14 - Interesse allo studio dei materiali lapidei

I materiali lapidei sono molto studiati in archeometria nell'ambito degli studi di provenienza, per i quali sono particolarmente idonei essendo gli artefatti chimicamente simili alle materie prime; inoltre sono materiali di amplissima diffusione e utilizzo e si rinvengono in qualunque scavo archeologico. Per questi motivi, gli studi archeometrici sui materiali lapidei forniscono molte informazioni sulle rotte commerciali dell'antichità e quindi sui rapporti tra le civiltà. Per la loro natura di materiali trasformati fisicamente e non chimicamente, i lapidei non risultano di interesse, invece, per quanto riguarda gli studi tecnologici.

L'interesse allo studio dei materiali lapidei è legato ai seguenti motivi:

  • Caratterizzazione elementare

    • per effettuare studi di provenienza e avere informazioni sulle rotte commerciali

  • Conservazione e restauro

    • studio degli effetti degli agenti atmosferici sulla superficie (piogge acide, interazione col terreno)

    • ripristino di aree danneggiate

 

5.1.15 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali lapidei

I materiali lapidei, tranne l'ossidiana, sono composti prevalentemente da minerali o miscele di minerali. Per la loro caratterizzazione sono quindi utilizzabili le tecniche di spettroscopia molecolare (Raman e Infrarossa) e la spettroscopia XRD. Queste tecniche possono inoltre dare informazioni utili nella caratterizzazione di prodotti di degradazione superficiali. Per quanto riguarda gli studi di provenienza, le tecniche più idonee sono quelle volte alla determinazione degli elementi, sia a livello di componenti maggiori e minori sia a livello di tracce e ultratracce; le tecniche principali sono quelle di spettroscopia atomica, spettroscopia XRF e spettroscopia INAA. Altrettanto importanti sono le tecniche di analisi isotopica, particolarmente efficaci negli studi di provenienza del marmo.

 

5.2 - I materiali vetrosi

5.2.1 - Introduzione

Il vetro è probabilmente il primo materiale artificiale inventato e utilizzato dall'uomo. La sua origine va cercata nell'area mesopotamica attorno al III millennio a.C., ed è probabilmente legata alla produzione di ceramica.

Nel corso della storia il vetro è stato utilizzato inizialmente per creare oggetti di valore e opere d'arte, poi, con l'introduzione della tecnica del soffiaggio, sviluppata verosimilmente in Mesopotamia, fu avviata una produzione di massa. Nel Medioevo esso era considerato un materiale magico perchè lasciava passare la luce ma non l'aria, l'utilizzo nelle cattedrali gotiche avvicinava a Dio.

Le sue caratteristiche sono uniche: trasparente o opaco, incolore o colorato in tutte le tinte possibili, solubile in acqua ma anche resistentissimo a quasi tutti gli acidi, conduttore elettrico o isolante, flessibile o estremamente rigido, può essere tagliato, lavorato, trasformato nelle forme più delicate ma anche in pezzi enormi, in lastre, in fibre, in polvere. Non esiste niente di simile in natura. La sua versatilità è dovuta al fatto che esistono moltissimi tipi di vetro aventi, a seconda della composizione, proprietà diversissime. Può sembrare strano, ma questi due gruppi di caramelle, uno mangiabile e uno no (figura 161), hanno una comunanza insospettabile: la struttura molecolare. Si tratta in entrambi i casi di una struttura vetrosa.

Richiamando le nozioni di struttura della materia già descritte nel paragrafo 2.3.3, definiamo struttura cristallina quella di particelle disposte in una rete tridimensionale ben definita e continua chiamata reticolo cristallino, mentre struttura amorfa o vetrosa è quella di particelle disposte in modo disordinato secondo uno schema in cui non è possibile individuare una cella elementare. Va notato che tecnicamente amorfo e vetroso non sono perfettamente equivalenti. Per definire allora che cosa sia il vetro facciamo alcune considerazioni. A livello macroscopico esso è indubbiamente un solido; a livello microscopico, invece, la sua struttura è più simile a quella di un liquido: qualcuno dice che le vetrate antiche sono più spesse nella parte inferiore, come se il vetro, nel tempo, fluisse verso il basso. Per questo, il vetro è spesso definito come un liquido avente viscosità infinita, oppure un liquido che ha perso la capacità di fluire. D'altra parte, se sottoposto a sforzo esso reagisce con deformazioni elastiche, come un vero solido. Dei solidi possiede anche la durezza. Si tratta, più correttamente, di un solido amorfo, cioè di un materiale topologicamente disordinato che non possiede la periodicità tipica dei cristalli. La struttura del vetro è talmente particolare che viene definita, appunto, struttura vetrosa. Alcuni la definiscono random network o reticolo casuale.

 

5.2.2 - Formazione di materia vetrosa naturale

All'interno dei vulcani la temperatura è sufficientemente alta da fondere le rocce presenti, composte prevalentemente da minerali a base di silicati (SinOm), quindi da strutture cristalline. Si forma così un flusso di silice fusa, contenente molti altri elementi come Ca, Fe, K, Na, Mg, Ti. All'interno della massa fusa, la struttura è quella di un liquido, cioè non più cristallina bensì priva di organizzazione. La massa fusa può raggiungere la superficie terrestre e qui solidificare a causa dell'abbassamento di temperatura. Il raffreddamento è repentino e questo fa sì che gli atomi e le molecole non facciano in tempo ad organizzarsi per arrangiarsi in una struttura cristallina, come dovrebbero avere se fossero all'interno di un solido. L'arrangiamento disordinato della massa liquida è invece congelato in un materiale rigido: un materiale vetroso. L'azione dei vulcani porta alla formazione di un materiale vetroso naturale, l'ossidiana, avente composizione analoga a quella dei vetri sintetici.

L'uomo ha imparato che alcune sostanze, in particolare quelle a base di silice (SiO2) hanno la proprietà di trasformarsi in vetri e ha sfruttato questa proprietà per formare un materiale sintetico che ha proprietà uniche dal punto di vista tecnologico e artistico. Per fare ciò era necessario capire come raggiungere le temperature necessarie per la fusione delle materie prime.

 

5.2.3 - Perchè si forma il vetro?

Secondo la leggenda tramandata da Plinio il Vecchio, circa duemila anni prima di Cristo mercanti Fenici alla deriva sulla foce di un fiume dell'Asia Minore accesero un fuoco con alghe e piante, usando come supporto per la loro pentola alcuni blocchi di Natron (carbonato di sodio decaidrato, noto anche come soda) facenti parte del loro carico. La soda e la sabbia silicea, venendo a contatto, fusero insieme e formarono così dei granuli di materiale duro, lucido e quasi trasparente. Avevano casualmente creato il primo vetro artificiale della storia.

La leggenda è ovviamente inaffidabile perchè il calore di un fuoco ottenuto in quel modo non può essere sufficiente a causare la fusione delle sostanze che danno origine ad un vetro; tuttavia rispecchia alcune verità scientifiche. La formazione del vetro è legata in questo caso a due fattori:

  1. l'uso come materia prima della sabbia silicea

  2. l'uso di una sostanza, il Natron, come fondente per abbassare il punto di fusione della materia prima. Se consideriamo una miscela binaria, cioè composta da due sostanze, notiamo che la temperatura di fusione della miscela è differente e generalmente inferiore a quella delle due sostanze prese singolarmente (figura 162); nel caso del vetro, è sufficiente un 15% di fondente per ottenere la fusione della silice che da sola fonderebbe solo sopra i 1700°C

Il motivo della formazione della struttura vetrosa è però legato anche ad un'altra causa: l'abbassamento rapido della temperatura della massa fusa, che impedisce il passaggio ad una struttura cristallina.

 

5.2.4 - La chimica del vetro

La chimica del vetro è prevalentemente una chimica di ossidi, cioè di sostanze composte di ossigeno e un altro elemento metallico o semimetallico. I componenti base nella manifattura del vetro possono essere i seguenti:

  • il biossido di silicio o silice (SiO2), former in inglese, componente base presente in gran quantità nella sabbia oppure ottenuto da pietre silicee quali la selce

  • il fondente o modificatore o flusso, ossido di sodio (Na2O) o di potassio (K2O), composti presenti nelle ceneri delle piante oppure ottenibili da minerali (es. Na2CO3 o soda), avente la funzione di abbassare la temperatura di fusione della silice

  • lo stabilizzatore, ossido di calcio (CaO), di magnesio (MgO) o di alluminio (Al2O3), composti ottenibili da minerali, avente la funzione di abbassare la solubilità in acqua del materiale vetroso, causata dalla presenza di ioni sodio e potassio

  • il colorante, un ossido di metalli, es. ferro (Fe2O3), manganese (Mn2O3) o piombo (Pb3O4) che impartisce al vetro colori trasparenti

  • l'opacizzante, un ossido o un sale di antimonio, arsenico o stagno, avente la funzione di rendere il vetro opaco, cioè non trasparente

  • un agente di affinamento, un ossido o un sale (As2O3, Sb2O3) che vaporizza nel bagno e ha la funzione di favorire la rimozione di bolle gassose

  • un decolorante, un ossido o sale (es. MnO2, As2O3) che annulla l'effetto colorante di un altro metallo mediante un reazione di ossidoriduzione

Un aspetto da evidenziare è che i vetri, a differenza dei cristalli (es. quarzo), non hanno una stechiometria da rispettare, il che vuol dire che, nell'ambito di una composizione vetrificabile, è possibile variare con continuità le proprietà chimico-fisiche, semplicemente cambiando anche di poco la sua composizione; basta pensare alle infinite intensità e tonalità di un vetro colorato. Si può quindi possibile, nell'ambito di una sistema vetrificabile, tagliare su misura il materiale vetroso cioè preparare un vetro adattandone la composizione in modo che abbia proprietà prefissate.

A parte alcuni vetri particolari (come i vetri borosilicati ad alta resistenza chimica, come le fibre di vetro per isolamento, come i vetri al piombo, detti anche cristalli pur se la loro struttura non è cristallina ma vetrosa) i più comuni vetri cosiddetti soda-calce hanno all'incirca in tutto il mondo la stessa composizione e sono stati il tipo di vetro più diffuso in antichità.

 

5.2.5 - Chi forma il vetro

Alcuni ossidi sono in grado di dare origine a vetri da soli, se portati a fusione e raffreddati. I tecnici vetrai chiamano queste sostanze vetrificatori o formatori; i principali esempi sono la silice (SiO2) e l'ossido di boro (B2O3). Altri, invece, da soli non sono in grado di vetrificare, ma possono far parte dei vetri entrando nel reticolo vetroso, distruggendo o rompendo alcuni legami chimici forti esistenti tra gli atomi formatori: i modificatori. Classici esempi di ossidi modificatori di reticolo sono, come detto in precedenza, gli ossidi di sodio (Na2O) e di potassio (K2O). Esistono infine alcuni ossidi che presentano un comportamento intermedio come l'ossido di alluminio (Al2O3) o l'ossido di piombo PbO.

 

5.2.6 - Il colore del vetro

Il colore del vetro è forse la caratteristica più apprezzabile dal punto di vista artistico. Per ottenere il colore desiderato è possibile utilizzare sali di elementi metallici (tabella 13) che si addizionano agli altri componenti del bagno in quantità attorno all'1%. Nelle figure 163 e 164 sono illustrati due oggetti in vetro colorato che suggeriscono una tecnica di gestione del pigmento molto raffinata ed avanzata.

Tabella 13 - Lista degli elementi utilizzati per la colorazione del vetro
COLORANTI
Elemento Forma Colore   Elemento Forma Colore
Antimonio Sb2S3 rosso   Manganese(IV)+Titanio MnO2 marrone
Argento(I)   giallo   Manganese(IV)+Ferro MnO2 marrone
Argento(III)   nero   Neodimio   violetto
Cadmio CdS giallo   Nickel+Potassio Ni+K2O porpora
Calcio+Ferro+Rame CaCO3 verde   Nickel+Sodio Ni+Na2O giallo
Carbone   marrone   Nickel+Piombo   rosso
Cerio(IV)   marrone, giallo   Oro AuCl rosso rubino, porpora
Cobalto Co2O3 blu, porpora   Oro+Stagno AuCl+SnCl rosso
Cobalto+Rame   nero   Piombo Pb3O4 rosso
Cromo(III) Cr3+ verde   Praseodimio   giallo-verde
Cromo(VI) CrO42- giallo-verde   Rame(I) Cu2O arancio, rosso
Cromo+Ferro   nero   Rame(I)+Piombo Cu2O rosso
Ferro(II) FeO blu   Rame(II) CuO verde-blu, giallo
Ferro(II)+Zolfo FeO ambra   Selenio   rosa, rosso
Ferro(II)+Selenio FeO marrone-rosso   Stagno SnO bianco
Ferro(III) Fe2O3 verde, giallo   Titanio   marrone-giallo
Ferro(II)+Ferro(III)   verde   Uranio (UO4)2- giallo fluorescente, verde
Manganese(II) MnO incolore   Vanadio   verde, blu, grigio
Manganese(III)   viola-nero   Zolfo   ambra, giallo
Manganese(IV) MnO2 rosa-porpora        
 
OPACIZZANTI
Elemento Forma Colore   Elemento Forma Colore
Calcio Ca2Sb2O7 bianco   Rame(I)   rosso
Piombo Pb2Sb2O7 giallo   Stagno SnO bianco

Gli ossidi di ferro sono sempre presenti come impurezza nelle sabbie e conferiscono al vetro colorazioni indesiderate; per questo costituiscono la bestia nera dei vetrai che vogliono ottenere un vetro bianco. Per eliminare il suo contributo al colore si ricorre ad un trucco: si aggiungono prodotti colorati in piccolissime quantità come l'ossido di cobalto oppure elementi come il selenio, il cui effetto non è quindi quello di togliere colore al vetro, bensì quello di aggiungere un colore complementare a quello dovuto al ferro. In definitiva, un perfetto vetro bianco è in realtà....grigio. Esiste però un altro modo per togliere il colore dato dal ferro: ossidarlo. Per chiarire il significato dell'ossidazione è necessario richiamare le nozioni di base di chimica del paragrafo 2.3.2. Come si è detto, la maggior parte degli altri elementi tende a formare più ioni aventi carica diversa, es. per il ferro si possono avere Fe2+ e Fe3+. Ioni di uno stesso elemento aventi carica diversa possono avere proprietà diverse, es. lo ione Fe3+ impartisce un colore giallo al vetro, mentre lo ione Fe2+ impartisce un colore scuro. La decolorazione di un vetro contenente impurezze di ferro si può ottenere mediante l'aggiunta di un sale di manganese(IV), sfruttando la reazione seguente:

Mn4+ + Fe2+ ® Mn2+ + Fe3+

Lo ione manganese(IV) si riduce a manganese(II) sottraendo due elettroni allo ione ferro(III) che a sua volta si ossida a ferro(II).

 

5.2.7 - Interesse allo studio del vetro

Il vetro, così come la ceramica e altri materiali artificiali, presenta alcune difficoltà dal punto di vista dello studio archeometrico. La sintesi a partire da più componenti e l'uso della temperatura causano modifiche spesso radicali della struttura chimica delle materie prime. Ad esempio

Na2CO3 Na2O + CO2

Diventa così difficile risalire alla natura delle materie prime. Inoltre, la struttura vetrosa rende particolarmente difficile l'individuazione di sostanze al suo interno; solo l'analisi elementare può dare indicazioni. Fortunatamente esistono fonti bibliografiche antiche che contengono molte indicazioni sulla preparazione dei manufatti (Plinio il Vecchio, Teofilo).

L'Interesse allo studio del vetro è legato ai seguenti motivi:

  • Caratterizzazione elementare

    • per effettuare studi di provenienza

  • Caratterizzazione di proprietà tecnologiche

    • per definire le capacità tecnologiche e il tenore di vita di una civiltà

  • Conservazione e restauro

    • studio degli effetti degli agenti atmosferici sul vetro (lisciviazione, interazione col terreno)

    • ripristino di aree danneggiate

 

5.2.8 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali vetrosi

Come detto in precedenza, nei manufatti vetrosi la maggior parte delle sostanze che compongono le materie prime non sono identificabili in quanto disperse nella struttura vetrosa. L'analisi si riduce quindi alla determinazione degli elementi che compongono i manufatti, utilizzando tecniche di analisi elementare come quelle di spettroscopia atomica, fluorescenza X, attivazione neutronica, SEM e PIXE.

Le tecniche di spettroscopia molecolare (Raman, IR, XRD) possono risultare utili per l'identificazione di fasi cristalline non vetrificate e rimaste intrappolate nella struttura vetrosa.

 

5.2.9 - I precursori del vetro

Le prime evidenze di utilizzo di materiale vetroso nella storia risalgono al III millennio a.C. e provengono dalla Mesopotamia: si tratta di paste vetrose di rivestimento. I primi reperti di frammenti di vetro opaco azzurro ritrovati risalgono al 2700 a.C., sempre in Mesopotamia.

In seguito si iniziò la manifattura di impasti di silice, carbonato di sodio (oppure potassa o salnitro) e gesso, che venivano macinate, fuse una prima volta e poi rifuse fino ad ottenere una polvere fine che, impastata con acqua, veniva applicata agli elementi di argilla successivamente ricotti in fornace. Lo scopo, quindi, era ottenere rivestimenti per prodotti ceramici. Assiri e Babilonesi impiegarono rivestimenti vetrosi a partire dal XVIII secolo a.C., periodo a cui risale un'iscrizione in cui era descritta la pasta vetrosa composta di potassa, rame e piombo.

Dal semplice rivestimento di argille con pasta vetrosa si passò alla modellazione di oggetti in polvere di quarzo e carbonato di sodio, rivestiti di pasta vetrosa e noti come faenza egiziana, termine tuttavia improprio e relativo piuttosto a produzioni ceramiche più recenti; il termine più corretto per questo precursore del vetro è quarzo smaltato. Questi oggetti (figura 165) erano utilizzati in Mesopotamia, Siria, Egitto, Grecia e India per produrre perle, scarabei e piccole figure; in seguito si diffusero in Europa. Le produzioni europee e quelle importate sono differenziabili in base al contenuto di stagno.

 

5.2.10 - Il vetro egiziano

A partire dal XV secolo a.C. la produzione del vetro è consolidata in Egitto, in particolare ad Alessandria; gli oggetti in quarzo smaltato blu raggiungono i vertici in termini di quantità e qualità, ma la novità è costituita soprattutto dalla possibilità di forgiare e decorare vasi in vetro.

La produzione di vetro era basata sulla combinazione silice-soda-calce che risulta immutata ancora ai giorni nostri ed è considerata superiore quanto a purezza, chiarezza e stabilità all'acqua. La silice proveniva dalla sabbia, che probabilmente conteneva anche quantità elevate di calcare, mentre il fondente poteva essere natron (miscela di Na2CO3 e NaHCO3) proveniente dall'oasi di Wadi Natroun, oppure cenere da piante come la salicornia, che cresce in zone a elevata salinità. Si usavano anche frammenti ceramici. Per il colore, gli Egizi utilizzavano pigmenti impiegati anche negli affreschi e quindi sali di cobalto, ferro, manganese e rame; per ottenere vetri opachi od opalescenti erano invece usati sali di antimonio come la stibnite (Sb2S3): in presenza di calcare si otteneva un colore bianco opaco dovuto alla formazione di antimoniato di calcio (Ca2Sb2O7) mentre in presenza di piombo il colore era giallo opaco per antimoniato di piombo (Pb2Sb2O7). Infine, per eliminare i colori indesiderati come il blu scuro del ferro(II), presente come impurezza nella sabbia, utilizzavano l'antimonio sotto forma di Sb(V) che ossida il ferro(II) a ferro(III), avente colore più tenue.

L'uso principale degli oggetti in vetro era come contenitore per cosmetici o oli preziosi.

La composizione dei vetri in Egitto, e più in generale nell'area mediterranea, conteneva inizialmente percentuali relativamente alte di magnesio e potassio; ciò fa pensare ad un uso di cenere vegetale come fondente piuttosto che natron. Dal VII secolo a.C. si osserva un calo dei due elementi a favore del sodio e, quindi, dell'uso di natron; subito dopo viene introdotto l'uso di antimonio come opacizzante e decolorante, in voga fino al IV secolo d.C.

Combinando la tecnologia del vetro e del metallo, gli artigiani Egizi inventarono la smaltatura: si utilizzavano paste vetrose contenenti sali metallici che, applicate sulla superficie degli oggetti in metallo, a seguito di cottura vetrificavano impartendo ai manufatti il colore desiderato. Il vetro aderiva all'oggetto grazie all'interazione metallo-metallo. Queste produzioni presuppongono un livello di tecnologia molto elevato. Benchè oggi la smaltatura sia impiegata per usi meno nobili (stufe e frigoriferi), nell'antico Egitto essa rappresentava una forma d'arte importante, come si può intuire dal suo utilizzo nella decorazione della maschera funebre di Tutankhamon (1350 a.C. circa, figura 166) dove le strisce blu sul copricapo sono in smalto vetroso.

Il grafico riportato in figura 167 è un plot ternario, utile per mostrare le quantità relative di tre composti in un campione. Sugli assi sono riportate le percentuali di silice (SiO2), fondente (soda, Na2O o potassa, K2O) e stabilizzatore (calce, CaO) in alcuni campioni di materiali vetrosi o di aspetto vetroso di epoca egiziana:

  • nucleo di perle egiziane in pasta vetrosa (+)

  • pigmento Blu egiziano (y)

  • vetro egiziano (³)

  • smalto di perle egiziane in pasta vetrosa (ñ)

Come si nota, i materiali sono abbastanza differenti gli uni dagli altri. Le differenze strutturali sono dovute sia alla composizione, sia alla tecnologia di produzione.

 

5.2.11 - Il vetro romano

Nel IX secolo a.C. Siria e Mesopotamia erano ritenuti i centri della manifattura del vetro. L'estendersi del dominio di Roma sul Mediterraneo orientale, conclusosi nel I secolo d.C. (conquista della Siria e dell'Egitto), segna una nuova tappa nell'estensione dell'industria vetraria. Molte tecniche decorative sono state sviluppate da artigiani dell'era romana e molte tecniche di lavorazione furono sviluppate.

Al I secolo a.C. risale la rivoluzionaria scoperta della soffiatura, sviluppata sulla costa fenicia probabilmente a Sidone, città non a caso appellata da Plinio il Vecchio come Artifex vitri. Questa tecnica divenne così diffusa che fino al XIX secolo fu il modo più utilizzato per modellare vasi in vetro. Essa rese possibile la produzione su vasta scala di oggetti, mutando lo status del vetro da materiale semiprezioso per l'elite a materiale di tutti i giorni.

La soffiatura sfrutta una proprietà molto importante del vetro: la capacità di essere plastico a certe temperature. Come in tutti i solidi amorfi, nel vetro non è possibile individuare un punto di fusione ma piuttosto un range di temperature nel quale la sua viscosità tende a diminuire al crescere della temperatura; normalmente tra 600 e 800°C (temperature ampiamente raggiungibili in antichità) esso presenta la massima plasticità, cioè la capacità di ritenere la forma impressa, ed è quindi molto lavorabile.

Una produzione importante è quella di pannelli in vetro per finestre: si trattava di piccole lastre di vetro soffiato secondo un processo di produzione di origine siriana introdotto nel I sec. a.C.; fra le rovine di Pompei (79 d.C.) sono stati ritrovati frammenti di finestre e di serramenti in bronzo destinati a sostenere lastre di vetro di dimensione 50 x 70 cm circa e con spessore di circa 1,5 cm. Inoltre, nelle terme di Pompei è stato trovata traccia di lastre di dimensione maggiore, 70 x 100 cm, prodotta per fusione su stampi.

La composizione del vetro dell'età romana è quella tipica soda-calce, con un contenuto di magnesio e potassio consistente con l'uso di fondenti minerali. A differenza degli Egizi, i Romani usavano manganese piuttosto che antimonio come decolorante: l'effetto dell'aggiunta di Mn4+ alla miscela contenente Fe2+ è descritto dalla già citata reazione:

Mn4+ + Fe2+ ® Mn2+ + Fe3+

Il manganese dà colore violetto quando è presente come Mn(III), rosa come Mn(IV), quasi incolore come Mn(II). Il ferro, invece, dà colore scuro come Fe(II), giallo o ambra come Fe(III) e verde se sono presenti entrambi gli ioni. Per aggiunta di Mn4+ allo 0.1-1.6% a Fe2+, la reazione di ossidoriduzione crea due specie (Mn2+ e Fe3+) che sono scarsamente colorate, anche se non perfettamente incolori (figura 168).

5.2.11.1 - Il Vaso Portland

Tra le tecniche vetrarie sviluppate in età romana vi è quella del cammeo, in cui strati sovrapposti di materiale vetroso aventi composizione diversa concorrono a creare oggetti di valore assoluto. Il Vaso Portland (figura 169) è il più famoso esempio di vetro a cammeo dell'antichità. L'origine è probabilmente romana, databile attorno al 5-25 d.C.; le dimensioni sono 24 x 7.7 cm cm (altezza x diametro).

Si tratta di un vetro di cobalto blu scuro che, nel suo decoro a figura, mostra delle rappresentazioni delle mistiche nozze di Peleo e Tetide con intagli da un rivestimento bianco; si pensa che sia stato creato come regalo di matrimonio. Fu rinvenuto vicino a Roma nel XVII secolo; dopo diversi passaggi di mano, nel 1810 esso fu depositato presso il British Museum dal quarto Duca di Portland dove risiede tuttora dopo essere stato regolarmente acquistato dal Museo nel 1945.

L'analisi del corpo blu e della parte bianca in rilievo indica per entrambi una tipica composizione soda-calce; lo strato bianco contiene in più l'opacizzante a base di antimonio.

La tecnica del cammeo prevedeva l'immersione del corpo colorato in un bagno di vetro bianco fuso. Dopo cottura e raffreddamento, la parte esterna bianca veniva modellata a seconda del disegno desiderato, probabilmente da un intagliatore di pietre preziose.

Il vaso Portland fu distrutto nel 1845 da un visitore ubriaco; (figura 170) dopo il restauro mancavano all'appello 37 frammenti che furono rinvenuti solo cento anni dopo, quando il British Museum lo acquistò. In seguito, però, ci furono grossi problemi di conservazione in quanto il restauro precedente appariva usurato; numerosi adesivi provati si rivelarono inadatti. Nel 1987 una nuova equipe di restauratori operò per consolidare la struttura del vaso; esso fu smontato e nuovi adesivi furono provati per garantire una durata a lungo termine. Finalmente, una resina epossidica fornì eccellenti garanzie di durabilità: i buchi furono riempitii con resine di colore compatibile con quelli del vetro interno ed esterno.

5.2.11.2 - La Coppa di Licurgo

Si tratta di una coppa in vetro di epoca romana (figura 171), attribuibile al IV secolo d.C.; le dimensioni sono 16.5 x 13.2 cm (altezza x diametro). La coppa fu preparata a partire da uno strato spesso, tagliato e modellato in superficie fino a che le figure non apparissero in rilievo. Alcune parti delle figure sono quasi staccate dalla superficie e connesse a questa soltanto da ponticelli. La composizione del vetro è nuovamente quella tipica soda-calce.

La scena sulla coppa descrive un episodio dal mito di Licurgo, re dei Traci (800 a.C. circa). Uomo di temperamento violento, attaccò Dioniso e Ambrosia, una delle sue menadi. Per punirlo, Ambrosia venne trasformata in vite con la quale Licurgo fu intrappolato e tenuto prigioniero. La scena riportata illustra Dioniso, Pan e un satiro mentre puniscono Licurgo a causa del suo comportamento malvagio. Si pensa che il tema del mito - il trionfo di Dioniso su Licurgo - possa essere stato scelto in riferimento ad un evento politico contemporaneo, la sconfitta dell'imperatore Licinius (in carica nel periodo 308-324 d.C.) da parte di Costantino nel 324 d.C..

Oltre alla bellezza intrinseca del manufatto vetroso, la straordinarietà della Coppa di Licurgo sta nel fatto che si tratta dell'unico esempio completo di un tipo molto speciale di vetro, noto come dicroico, che cambia colore a seconda del tipo di luce che lo irradia. Infatti il verde opaco in luce riflessa si muta in rosso in luce trasmessa (figura 172). Questa proprietà, il dicroismo, è conferita da minuscole particelle di oro e argento disperse nella matrice vetrosa. Il vetro che costituisce la coppa ha la tipica composizione silice-soda-calce caratteristica del periodo romano, tuttavia sono presenti anche argento (300 mg/Kg) ed oro (40 mg/Kg), che nell'impasto vetroso precipitano in forma di minutissimi cristalli di lega Ag-Au. Le dimensioni dei cristalliti (circa 70 nm, figura 172 - occhio) sono sufficienti per causare la diffusione della luce, ma ancora troppo limitate per inibire completamente la trasparenza del vetro. Per questo motivo, osservando l'oggetto in luce riflessa, esso appare opaco e verde. Inoltre, poiché la radiazione blu viene diffusa in percentuale maggiore rispetto alla componente rossa, la radiazione luminosa (bianca) che attraversa il vetro appare rossa e la coppa assumerà questo colore se illuminata dall'interno.

 

5.2.12 - Il vetro asiatico

Dopo la conquista dell'Egitto da parte dei Persiani, la produzione del vetro si estese all'arte babilonese. Un esempio molto famoso di produzione dell'area mesopotamica è il vaso di Sargon (figura 173). Si tratta di una giara in vetro neo-assira di dimensioni 8.5 x 6.2 cm, risalente all'VIII secolo a.C: e proveniente da Nimrud (nord Iraq). Fu rinvenuto nel XIX secolo da Henry Layard. Benchè trovato presso il palazzo del Re Ashurnasirpal II (883-859 a.C.) è datato più recente. Un'iscrizione cuneiforme recita "Palazzo di Sargon, Re di Assiria", da cui deriva il suo nome moderno. L'iscrizione è accompagnata da una figura di leone incisa, una sorta di marchio ufficiale che accompagna spesso le iscrizioni di Sargon II (722-705 a.C.). La giara non ha eguali in Assiria o nelle regioni circostanti. Potrebbe essere di origine fenicia, con le iscrizioni cuneiformi aggiunte dal nuovo padrone Assiro. Questi manufatti si preparavano applicando la pasta vetrosa sopra un nucleo argilloso che poi era rimossa, oppure con la tecnica della cera persa utilizzata anche per i bronzi.

La produzione del vetro presso gli Assiri è ampiamente documentata. La descrizione della manifattura di vetro con antimonio e arsenico è presente in una tavoletta assira conservata nella Biblioteca di Ninive (Assurbanipal, VII secolo a.C.).

Oltre alla grande diffusione nell'area mediterranea, il vetro si sviluppa notevolmente tra l'VIII e il XIV secolo d.C. nell'Islam (figura 174) dove gli artigiani riprendono le tradizioni dei vetrai Sassanidi. Qui si sviluppano le decorazioni su vetro a base di smalti e dorature, per le quali sono famosi i laboratori di Aleppo e Damasco, e la tecnica del lustro utilizzata anche per la decorazione della ceramica (vedi paragrafo 5.3.17), con la quale si creano effetti metallici marroni, gialli e rossi. Le forme e le decorazioni sviluppate nell'Oriente islamico influenzeranno in seguito la produzione vetraria occidentale, soprattutto a Venezia e in Spagna.

In Cina la composizione-base sembra impiegare piombo e bario anzichè calcio e sodio, cosa che testimonia di una scoperta separata della manifattura del vetro. Le composizioni tipiche potevano prevedere fino al 30-35% in ossido di piombo (PbO) e il 15% di ossido di bario (BaO) oltre alla silice e a quantità inferiori di ossidi di calcio, magnesio, sodio e potassio. Interessante è notare che nel periodo d'uso di queste composizioni, i Cinesi svilupparono l'uso di un pigmento blu avente composizione simile a quella del Blu egiziano tranne per il bario al posto del calcio. Come opacizzante, i Cinesi utilizzavano fluoruro di calcio (CaF2), introdotto in Occidente solo nel XVII secolo. Dopo il III secolo d.C., però, le miscele tendono ad avere composizioni simili a quelle occidentali con l'uso di soda e potassa come fondenti.

 

5.2.13 - Il vetro post-romano in Europa

La produzione di vetro si diffuse in tutto il nord-Europa dominato dai Romani. Si pensa che in alcuni siti tedeschi (Treviri e Colonia) lo sviluppo dell'arte vetraria sia da collegare alla necessità di bottiglie susseguente all'introduzione della viticoltura dall'Italia.

Verso la fine del VI secolo le conoscenze sulla produzione del vetro colorato cominciano a diffondersi in Europa. I benedettini iniziarono ad occuparsene a partire dall'VIII-IX secolo. In Inghilterra l'uso del vetro colorato risulta diffuso e conosciuto già alla fine del XII secolo.

Dopo la caduta dell'Impero Romano, la composizione del vetro rimase praticamente immutata per secoli, basandosi sul classico soda-calce romano. Mentre si sviluppava notevolmente la produzione del vetro islamico, nei paesi occidentali, travagliati dalle guerre e dalle invasioni barbariche, la fabbricazione del vetro subì una stasi produttiva che si prolungò per vari secoli. Fu solo a medioevo avanzato che l'arte vetraria riprese nuovo sviluppo nei territori franco-germanici, con una produzione dalle caratteristiche particolari che fu definita vetro teutonico (figura 175), avente tono verdastro per via dei fondenti ricavati dalle ceneri di piante e boschi ricchi di potassa, mentre i vetrai mediterranei usavano fondenti a base di soda derivati dalla combustione delle alghe.

Nel X-XI secolo si sviluppa a Venezia l'arte del vetro decorato su iniziativa di Bizantini ebrei: qui, nel 1279 fu creata la corporazione dei vetrai che nel 1291 spostarono le loro fornaci sull'isola di Murano, dando inizio alla produzione nota ancora oggi. Da Venezia la produzione di vetro artistico (figura 176) si diffuse in tutta l'Europa; i Veneziani introdussero poi nel XVI secolo il cristallo, un vetro estremamente fine, trasparente ed incolore. Un'altra invenzione dei vetrai di Murano fu lo specchio (figura 177). Nei tempi antichi gli specchi erano fatti con metalli nobili puliti e lucidati, ma nel XVI secolo i fratelli muranesi Gallo brevettarono uno specchio formato da una lastra quadrangolare ben spianata sul cui rovescio era applicata una sottile foglia di stagno in amalgama con mercurio.

 

5.2.14 - I mosaici

Nel periodo medioevale in Europa la produzione più gloriosa (a parte quella delle vetrate) è costituita dai mosaici. Essa si sviluppò sotto la spinta della Chiesa nell’area mediterranea, in particolare dagli artigiani Bizantini. L'arte del mosaico è praticata dal IV o III millennio a.C., ma il suo sviluppo è generalmente associato ai Greci, ai Romani e ai Bizantini (figura 178), dopo la cui caduta nel XV secolo la pratica declinò fino ad essere ripresa nel XIX secolo. Mentre i mosaici più antichi erano fatti con pezzi di argilla cotti e dipinti o con ciottoli, quelli medioevali erano costituiti da piccoli cubetti in vetro o tessere inseriti in una specie di cemento. Le tessere potevano essere assai elaborate, con inserti di oro o argento, ed essendo di piccole dimensioni permettevano di avere disegni più dettagliati e complessi. I colori erano ottenuti in maniera analoga agli altri manufatti vetrosi, ovvero addizionando sali metallici alla miscela.

 

5.2.15 - Vetrate colorate

Altrettanto gloriosa è la produzione di vetrate colorate nel Nord Europa. Probabilmente originarie del Medio Oriente (esempi possono essere visti nelle moschee e palazzi di India, Iran e Turchia), in Europa furono introdotte per le finestre delle grandi cattedrali in Germania a partire dall'XI secolo, benchè siano menzionate in documenti fin dal VI secolo d.C.; già nel XII secolo l'abate Teofilo, nel suo scritto De Diversis Artibus, ne aveva codificato il metodo e descritto, nei dettagli, anche le generali modalità di produzione del vetro. Le più belle vetrate sono considerate quelle prodotte nel XIII-XIV secolo in Francia (figura 179) e in Inghilterra (figura 180).

La tecnica delle vetrate colorate consisteva in un collage di innumerevoli pezzi a colori differenti su un telaio metallico. Il colore era ottenuto addizionando al bagno i consueti composti a base metallica, oppure riscaldando le sostanze coloranti sulla superficie del vetro incolore. I pezzi erano tenuti insieme con striscie di piombo.

Le prime vetrate policrome delle chiese romaniche e poi gotiche, rappresentavano scene bibliche. Ma un fatto rendeva le pitture delle vetrate policrome magiche: risplendevano per luce trasmessa e non riflessa. Nessun affresco o tela poteva competere con la suggestione di pitture risplendenti di una apparente luce propria. L'effetto non ha nulla di sovrannaturale ma è dovuto, naturalmente, al fatto che la luce bianca che passa attraverso il vetro è parzialmente assorbita dal colorante ivi contenuto, e ne emerge con un colore corrispondente alla frazione non assorbita.

 

5.2.16 - Rinascimento

Dal Rinascimento la produzione si amplia in numerose manifatture in diverse città europee; in Italia sono particolarmente fiorenti i centri di Firenze e di Altare, in provincia di Savona. Ad Altare esisteva, fin dagli inizi dell'anno 1000, un centro vetrario le cui origini erano legate all'epoca delle Crociate. Pare che un gruppo di crociati di origine fiamminga, di ritorno dalla Terra Santa si siano fermati presso Savona dove appresero da monaci benedettini l'arte di lavorare il vetro. Essi costituirono una corporazione che nel XV secolo veniva riorganizzata come Università dell'Arte Vitrea. L'emigrazione delle maestranze da Altare diede impulso e lustro a quasi tutte le vetrerie d'Europa.

Nel XVII secolo in due paesi europei, Boemia ed Inghilterra, si svilupparono nuove tecniche destinate a rivoluzionare l'arte vetraria. In Boemia si fabbricava già da tempo vetro con fondente potassico; a partire dal 1680 vennero aggiunte agli impasti delle sostanze calcaree fino a produrre un cristallo perfettamente trasparente e massiccio, il Cristallo di Boemia (figura 181), che si dimostrò ideale per il taglio e la molatura. In Inghilterra nel 1676 viene reintrodotto l'impiego di piombo nella manifattura di vetri particolarmente brillanti contenenti fino al 15% in ossido, creando il moderno cristallo al piombo che soppianta gli stili veneziani. Il termine cristallo è ovviamente non corretto essendo il materiale a struttura non cristallina; il nome è dovuto probabilmente alla somiglianza di questi vetri con minerali quali il quarzo.

Nel 1665 viene fondata l'industria francese Saint-Gobain, a cui si deve l'effettiva industrializzazione del vetro colato per le finestre e il relativo abbattimento dei costi di produzione.

 

5.2.17 - Art Nouveau

Uno stile moderno che utilizzò molto il vetro fu l'Art Nouveau (figura 182), noto in Gran Bretagna come Liberty, in Germania come Jugendstil e in Italia come Floreale. Queste produzioni si caratterizzano per i colori iridescenti, ottenuti impiegando sali di argento e patine superficiali di ossido di stagno. Analisi effettuate con la tecnica PIXE su frammenti di vetri Loetz (una tra le produzioni più importanti dell'epoca Liberty) hanno mostrato la presenza di un sottile strato di SnO2 sulla superficie del vetro, dovuto al trattamento degli artefatti con una soluzione alcolica di SnCl2. Lo strato ha uno spessore di 20-300 nm. L'intensità dell'iridescenza e il colore, inoltre, dipendono dal tipo di sali d'argento impiegati.

 

5.3 - I materiali ceramici

5.3.1 - Definizione di ceramica

La ceramica è senza dubbio il più importante tra i materiali di interesse archeologico. In qualsiasi scavo il numero di reperti ceramici è alto, siano essi residui di oggetti domestici o oggetti d'arte. L'arte della ceramica è infatti una delle più antiche e diffuse in tutto il mondo antico, nota da tempi preistorici; i metodi antichi per la manifattura dei prodotti ceramici sono tuttora in voga presso i vasai di tutto il mondo.

Il termine ceramica indica i prodotti ottenuti da minerali non metallici foggiati a freddo e consolidati per mezzo del calore. La gran maggioranza dei manufatti ceramici si preparano a partire dall'argilla, un tipo particolare di terra diffuso ovunque e formato in seguito all'erosione di rocce silicatiche.

Le prime evidenze di materiale simil-ceramico sono oggetti in terra cotta modellati a mano e cotti sul fuoco per dare durezza al manufatto. Statuine in terra cotta sono note da almeno 20.000 anni; oggetti d'uso domestico sono databili a 10.000 anni fa (figura 183). Più o meno a quel periodo si stima che risalga la scoperta della proprietà fondamentale dell'argilla: la plasticità in presenza di acqua. Questa proprietà si evidenzia solo quando essa è miscelata con acqua nel giusto rapporto. In eccesso di acqua la miscela è troppo fluida, in difetto non è lavorabile. Il range ottimale è attorno al 25% in acqua.

 

5.3.2 - Le materie prime

I costituenti fondamentali della ceramica sono tre:

  1. l'argilla, una roccia sedimentaria composta da minerali derivanti dall'erosione di rocce silicatiche e quindi costituiti prevalentemente da silicio, alluminio e ossigeno e in sottordine da calcio, magnesio, sodio, potassio, ferro, manganese e titanio; i principali minerali argillosi sono l'illite, la montmorillonite, la caolinite

  2. l'acqua, addizionata all'argilla in rapporto 1:4

  3. le cosidette tempere (fillers in inglese), materiali aventi funzioni varie, di natura organica (sterco, paglia, fieno) ma soprattutto inorganica (conchiglie, spicule, sabbia, calcare, arenaria, basalto, cenere vulcanica) e comprendenti anche frammenti di ceramiche usate in precedenza, i cosidetti grog; le funzioni principali delle tempere sono il permettere un'evaporazione capillare dell'acqua, minimizzare la contrazione dell'argilla durante la cottura, prevenire la rottura del manufatto dopo cottura e coadiuvare la vitrificazione

L'insieme di argilla, acqua e tempere costituisce il cosidetto impasto e, dopo foggiatura ed essiccatura, genera il corpo ceramico che è pronto per la cottura.

 

5.3.3 - Le proprietà dell'argilla

Le proprietà chimico-fisiche dell'argilla sono nel complesso uniche in natura. L'argilla è composta da particelle di dimensioni inferiori a 2 µm, disposte a strati (figura 184).

La proprietà più importante è la plasticità dopo opportuna bagnatura con acqua, cioè la capacità di mantenere la forma impressa. La plasticità è causata dalla struttura lamellare dei minerali argillosi e dai legami superficiali che si instaurano tra i vari stati di particelle, nei quali penetra l'acqua che, creando dei cuscini, permette agli strati di slittare gli uni sugli altri (figura 185).

Un'altra caratteristica importante è l'impermeabilità: essa è dovuta all'azione protettiva dello strato superficiale che, imbibendosi di acqua, ne impedisce la diffusione agli strati interni.

Una caratteristica termica è la refrattarietà, cioè la capacità di resistere a temperature elevate (950-1100°C) senza deformarsi.

Si ha poi una buona resistenza meccanica quando l'argilla è essiccata: essa è dovuta ai legami tra le particelle che, essendo di dimensioni ridottissime, hanno superfici di interazione elevate in rapporto al volume.

 

5.3.4 - Il processo di cottura

Durante la cottura dell'impasto ceramico avvengono una serie di reazioni che influenzano le proprietà del prodotto finale. I passaggi fondamentali sono i seguenti:

  1. poco sopra i 100°C si ha l'eliminazione dell'acqua residua, rimasta dopo l'essiccamento

  2. fino a 200°C viene eliminata l'acqua interfogliare, racchiusa tra le particelle argillose

  3. tra 350°C e 650°C le sostanze organiche presenti subiscono la combustione e vengono degradate a CO2 + H2O

  4. tra 450°C e 650°C è eliminata l'acqua di costituzione, chimicamente legata; in questa fase l'argilla perde irreversibilmente la plasticità

  5. a 573°C il quarzo passa dalla forma a alla forma b; ciò provoca un repentino aumento di volume pari a circa l'8%

  6. tra 800°C e 950°C si decompongono i carbonati: CaCO3 CO2 + CaO

  7. da 700°C in su inizia la sinterizzazione, il passo precedente alla fusione: le particelle si avvicinano le une alle altre e i pori si chiudono

  8. sopra 1000°C i silico-alluminati iniziano a rammolirsi e a fondere formando un vetro: si parla di vitrificazione

  9. la temperatura finale determina le proprietà del manufatto e la sua tipologia

Come si può vedere, la cottura provoca il mutare di una serie di proprietà dell'argilla. In particolare, si nota che, al crescere della temperatura

  • la porosità diminuisce, rendendo il materiale pù lucido

  • l'impermeabilità aumenta

  • la vitrificazione, cioè il passaggio ad una struttura vetrosa, aumenta

  • la resistenza meccanica aumenta

  • il volume diminuisce a seguito della contrazione delle particelle

 

5.3.5 - Classificazione della ceramica

In base alla temperatura raggiunta nella cottura, si possono classificare i prodotti ceramici in qusto modo:

  • se la temperatura è non superiore a 900°C si ha la terracotta, una ceramica molto porosa e poco resistente

  • tra 900 e 1100°C si ottiene la terraglia o earthenware, una ceramica meno porosa a cui la presenza impartisce un colore rosso

  • tra 1100 e 1200°C la presenza di calcio favorisce lo sviluppo di un color crema

  • tra 1200 e 1300°C si ha un prodotto fortemente vetrificato e impermeabile, il gres o stoneware, molto resistente e trascurabilmente poroso

  • sopra i 1300°C si ottiene un prodotto altamente vetrificato, translucido e impermeabile, la porcellana, che si ottiene a partire da un'argilla completamente incolore, il caolino

 

5.3.6 - Classificazione tecnologica

I prodotti ceramici sono classificabili, dal punto di vista tecnologico, in base al tipo di argilla usata e alla presenza o meno di rivestimento (tabella 14).

Si può avere un impasto bianco o colorato; nel secondo caso il colore è dovuto alla presenza di ossidi metallici, ferro in particolare.

I corpi ceramici possono essere porosi o impermeabili: ciò è legato strettamente alla temperatura di cottura che influenza l'entità del processo di sinterizzazione e la chiusura dei pori. Per ottenere l'impermeabilità dai ceramici porosi è necessario applicare un rivestimento.

Tabella 14 - Classificazione tecnologica delle ceramiche
  POROSE IMPERMEABILI
CORPO Senza rivestimento Rivestimento argilloso Rivestimento vetroso Rivestimento argilloso/vetroso  
Bianco     Terraglie   Porcellane
Colorato Terrecotte Sinterizzate (Sigillata) Ingobbiate Invetriate Smaltate (Maioliche) Ingobbiate Invetriate Graffite Gres

 

5.3.7 - Come si prepara un prodotto ceramico

Nella manifattura dei prodotti ceramici ci sono alcuni passaggi comuni a tutte le produzioni:

  1. Raccolta dell'argilla che viene macinata e raffinata

  2. Preparazione dell'impasto, mescolando l'argilla con l'acqua in proporzioni corrette e con le tempere

  3. Foggiatura, ovvero l'insieme delle operazioni per dare forma all'oggetto

  4. Essiccamento, per portare il contenuto di acqua dal 20-25% all'1-2%; la presenza dell'acqua in fase di cottura causerebbe fenditure e rotture a causa della sua evaporazione

  5. Cottura, da effettuare in un solo passaggio (monocottura) o in due o più passaggi (bicottura o biscottatura) se è prevista l'applicazione di un rivestimento

  6. Eventuale applicazione del rivestimento a scopo estetico o funzionale

  7. Eventuale decorazione, effettuabile anche prima della cottura se si aggiunge all'impasto o al rivestimento un pigmento

 

5.3.8 - La cottura

I due punti critici della cottura sono la temperatura e l'atmosfera.

Per quanto riguarda la temperatura, si è visto che all'aumentare nel forno si ottengono manufatti dalle caratteristiche diverse, sia in termini tecnologici, sia in termini cromatici.

Con atmosfera di cottura si intende per lo più la presenza o assenza di specie ossidanti quali l'ossigeno. L'effetto dell'ossigeno, presente nell'aria per un terzo del totale, è quello di ossidare (ovvero di sottrarre elettroni) le sostanze minerali presenti nel minerale argilloso e di degradare il materiale organico eventualmente presente fino a eliminarlo

C + O2 ® CO2

Fe2+ + O2 ® Fe3+

In atmosfera ricca di aria (o ossidante) si ha quindi lo sviluppo del colore rosso dovuto al Fe3+; in atmosfera povera di ossigeno e ricca di vapore acqueo o monossido di carbonio (CO), un'atmosfera riducente, si ha invece la formazione di colore nero dovuto al Fe2+ e all'incompleta combustione delle sostanze organiche

Fe2O3 + CO ® FeO·Fe2O3 (Magnetite)

 

5.3.9 - Il colore della ceramica

Il colore del prodotto ceramico è legato sia alle condizioni di cottura, sia all'introduzione intenzionale di pigmenti nell'impasto, sia all'applicazione di rivestimenti colorati o a decorazioni.

La cottura influenza il colore finale a seconda che le condizioni siano ossidanti o riducenti: nel primo caso si avrà lo sviluppo del rosso-arancio dovuto al Fe3+, nel secondo prevarrà il nero-grigio dovuto al Fe2+ e al carbone. In presenza di calcio e a temperature di almeno 1100°C si può avere un colore giallo-crema; a temperature ancora più alte si ottiene il bianco della porcellana.

Se si vuole impartire al manufatto un colore intenzionale, è possibile addizionare all'impasto sostanze pigmentate quali ocre o altri ossidi che siano in grado di non degradarsi in fase di cottura.

L'applicazione di rivestimenti dà la possibilità di avere il colore desiderato o di avere una base su cui applicare in un secondo tempo un pigmento. Nel primo caso si addiziona alla miscela argillosa o vetrosa che compone il rivestimento un pigmento che sia stabile alla cottura del rivestimento.

La decorazione necessità normalmente di un supporto levigato quale può essere un rivestimento. Si effettua secondo le normali tecniche pittoriche.

 

5.3.10 - La superficie delle ceramiche

In molti prodotti ceramici la superficie è trattata con un rivestimento che ha lo scopo di impartire alcune proprietà al corpo ceramico. I motivi possono essere di ordine estetico (per dare un colore, lucentezza o per fornire una base da decorare) o tecnologico (per dare impermeabilità).

Il rivestimento è quindi uno strato di materiale ceramico che ricopre l'impasto e che viene trattato termicamente, insieme all'impasto nella monocottura o successivamente nella biscottatura.

I rivestimenti sono classificabili in basse alla loro composizione:

  • l'ingobbio, il tipo più antico di rivestimento, è un materiale argilloso, composto da un'argilla molto simile a quella dell'impasto ma differente in colore e applicato generalmente in monocottura

  • la vernice sinterizzata o patina è anch'essa argillosa ma ottenuta per raffinazione dell'argilla, cosa che comporta una selezione sia mineralogica sia della dimensione delle particelle: ciò ha lo scopo di favorirne la sinterizzazione in fase di cottura; la patina è lucida già in crudo

  • i rivestimenti vetrosi sono ottenuti con materiali in grado di fondere e di vetrificare, quindi in presenza di alcali. Si usano di preferenza nella biscottatura, in quanto nella monocottura il vetro può imprigionare le bolle di vapore che si generano dall'impasto

 

5.3.11 - I rivestimenti vetrosi

I rivestimenti vetrosi (glazes in inglese) sono simili strutturalmente ai vetri, avendo struttura amorfa, e si ottengono in maniera analoga ai vetri, cioè addizionando un fondente al materiale vetrificatore. Tuttavia hanno composizioni che non trovano riscontro in alcun vetro antico.

A livello di composizione, infatti, i rivestimenti vetrosi si differenziano dai vetri per almeno tre motivi:

  1. contengono un percentuale di ossido di alluminio (Al2O3) più elevata rispetto al vetro, cosa che ne garantisce la cottura a temperature più alte, permettendo l'applicazione anche su stoneware e porcellana

  2. possiedono affinità chimica per il corpo ceramico, caratterizzato anch'esso da un alto contenuto in Al2O3

  3. si preparano a partire da alluminosilicati, mentre il vetro si prepara da silicati puri

Queste caratteristiche sono ovviamente legate tra di loro.

Il requisito fondamentale che deve soddisfare un rivestimento vetroso per essere applicato è la compatibilità del coefficiente di espansione. Il corpo ceramico tende a contrarsi durante la cottura; lo stesso fenomeno si ha per il rivestimento, che deve però contrarsi in maniera corretta: non troppo per non frammentarsi contro il corpo ceramico, e non troppo poco per evitare di accartocciarsi su esso. L'ideale è che il rivestimento si contragga leggermente di più rispetto al corpo ceramico, in modo che faccia presa e garantisca un'adesione ottimale.

Per quanto riguarda la composizione dei rivestimenti vetrosi, essi sono classificabili in vetrine trasparenti e in smalti opachi. Si può facilmente intuire che la composizione delle vetrine e degli smalti segua le stesse regole dei vetri per quanto riguarda colorazione e opacità. Infatti, per avere il colore si utilizzano sali o ossidi di ferro, rame, cobalto, manganese; per avere l'opacità si utilizza un composto di antimonio (antimoniato di calcio, Ca2Sb2O7) o di stagno (SnO2, il minerale cassiterite).

 

5.3.12 - Interesse allo studio della ceramica

La ceramica presenta le stesse difficoltà del vetro dal punto di vista dello studio archeometrico. Anche in questo caso si parte da una miscela di materie prime che vengono mutate dall'azione della temperatura e dalle reazioni chimiche che intercorrono tra i componenti; alcune tra le sostanze di partenza non sono più presenti nel manufatto. Inoltre il passaggio ad una struttura vetrosa impedisce di riconoscere molecole all'interno del prodotto finito; solo l'analisi elementare è possibile. La relazione tra materie prime e prodotto finito è difficile se non impossibile da individuare.

Nonostante ciò il numero di studi archeometrici sulla ceramica è veramente elevato, a testimonianza dell'importanza di questo materiale. L'interesse per lo studio della ceramica è legato ai seguenti motivi:

  • Caratterizzazione elementare

    • per effettuare studi di provenienza

  • Caratterizzazione di proprietà tecnologiche

    • per definire le capacità tecnologiche (T cottura) e il tenore di vita di una civiltà

  • Conservazione e restauro

    • studio degli effetti degli agenti atmosferici sulla ceramica

    • ripristino di aree danneggiate

Il settore più noto è quello degli studi di provenienza. Esistono in letteratura numerosissimi studi archeometrici di provenienza sulla ceramica nei quali si vuole determinare l'origine di un reperto ceramico o la provenienza dell'argilla. La gran parte di questi studi è basata sulla determinazione della composizione elementare dei reperti, effetttuata mediante tecniche di analisi quali la spettroscopia atomica o la fluorescenza X.

Come detto in precedenza è piuttosto difficile, se non impossibile, correlare chimicamente una ceramica all'argilla con cui è sta preparata, a causa delle trasformazioni chimico-fisiche delle materie prime. Questa è una netta differenza rispetto agli studi di provenienza sui materiali lapidei, nonostante la materia prima della ceramica sia essa stessa un materiale lapideo, essendo una roccia sedimentaria.

Per correlare ceramica e argilla sarebbe necessario caratterizzare tutte le sorgenti possibili di argilla nell'ambito della zona di interesse archeologico, ma anche in questo caso non è detto che un letto argilloso abbia composizione elementare omogenea e differente rispetto ad altri letti.

La conservazione dei reperti ceramici sotto terra, caratteristica comune a tutti gli scavi archeologici, aggiunge un ulteriore elemento che altera la composizione originale della'argilla, in quanto può esserci stata interazione chimica con i composti presenti nel terreno.

Per questo motivo, i chimici che si occupano di studi archeometrici sula ceramica preferiscono classificare i reperti ceramici in base alla loro composizione elementare, senza correlarli all'argilla ma individuando le differenze tra gruppi di manufatti: questo è facilmente ottenibile confrontando i profili di distribuzione elementare di campioni di diversa origine. L'attribuzione assoluta è poi realizzata confrontando la composizione di reperti di provenienza ignota con quella di reperti di provenienza certa sulla base di parametri stilistici. L'esempio in figura 186 illustra un diagramma bivariato CaO vs. MgO in cui i più importanti centri di produzione di ceramica del tipo Terra Sigillata occupano porzioni dello spazio ben circostanziate: ciò permette di individuare la provenienza di un reperto di origine incognita.

 

5.3.13 - Tecniche analitiche per lo studio della ceramica

La ceramica presenta, a seconda della temperatura di cottura, un grado più o meno elevato di vetrificazione. Il manufatto tende a passare dall'impasto, composto prevalentemente di minerali argillosi quindi aventi struttura cristallina, ad un prodotto che presenta una struttura amorfa più o meno diffusa passando dalla terracotta, in cui sono presenti ancora molti minerali, alla porcellana che è totalmente vetrificata.

La conseguenza di questi cambiamenti chimico-fisici è che la maggior parte delle sostanze che compongono le materie prime diventano difficilmente identificabili nel prodotto finale, essendo disperse nella struttura vetrosa in analogia a quanto detto per il vetro oppure essendosi degradate termicamente. La maggior parte del prodotto, quindi, è analizzabile dal punto di vista degli elementi che lo compongono, mediante tecniche di analisi elementare quali le spettroscopie atomiche ICP-AES, GF-AAS o ICP-MS, oppure la spettroscopia XRF. Tuttavia, sono spesso identificabili impurezze cristalline che si trovano nelle materie prime, non subiscono vetrificazione e sono quindi rivelabili con la tecnica XRD o con la spettroscopia Raman; questi cristalli possono dare indicazioni sulla temperatura di cottura, sia nel caso abbiano mantenuto la struttura originaria (come la calcite), sia nel caso siano state formate per effetto della temperatura (come il diopside).

La spettroscopia Raman può anche essere utilizzata per l'identificazione dei pigmenti della superficie.

Una tecnica molto utilizzata nel'analisi delle ceramiche è la microscopia SEM, che permette di riconoscere le zone aventi composizione o tessitura diverse, potendosi così differenziare il corpo ceramico dal rivestimento. Un esempio di applicazione è il riconoscimento di microfossili nel corpo ceramico, indice dell'impiego di materiale di origine marina come tempera (figura 187); importanti informazioni tecnologiche si possono avere dall'analisi SEM del rivestimento (figura 187 - OCCHIO).

Riassumendo, le tecniche che si utilizzano nell’analisi delle ceramiche sono le seguenti:

  • Spettroscopia atomica (ICP-AES, GF-AAS, ICP-MS) e XRF per la determinazione degli elementi, utile per studi di provenienza

  • Spettroscopia Raman per l’identificazione di impurezze cristalline e per l’analisi superficiale di pigmenti

  • Spettroscopia XRD per l’identificazione di impurezze cristalline

  • Microscopia SEM per l’analisi stratigrafica e il riconoscimento quali-quantitativo di rivestimenti

 

5.3.14 - La ceramica nella storia dell'uomo

Le caratteristiche essenziali della produzione di manufatti ceramici sono state scoperte più volte nel corso della storia e in maniera indipendente. La sequenza cronologica degli sviluppi nella tecnologia ceramica è descritta nella tabella 15:

Tabella 15 - Sequenza cronologica nella tecnologia ceramica

Sviluppo Europa Vicino Oriente Estremo Oriente Emisfero Occidentale
Figurine in argilla cotta Dolni Vestonice (Repubblica Ceca) 30000 a.C.      
Terracotta Neolitico Anatolia 8500-8000 a.C. Giappone 10000 a.C. vari siti 3000-2500 a.C.
Fornace Inghilterra I millennio a.C. Iran VII millennio a.C. Cina 4800-4200 a.C. Messico 500 d.C.
Ruota Grecia 500 a.C. 3500 a.C. Cina 2600-1700 a.C. XVI secolo d.C.
Mattoni cotti al sole Neolitico Zagros 7500-6300 a.C.   Perù 1900 a.C.
Mattoni cotti in fornace Neolitico Sumeri 1500 a.C.   Messico 600-900 d.C.
Stoneware Germania XIV secolo d.C.   Cina 1400-1200 a.C.  
Porcellana Germania 1709 - Francia 1768   Cina IX-X secolo d.C.  
Bone China Inghilterra XVIII secolo d.C.      

I manufatti considerati più antichi sembrano essere stati localizzati in Giappone sull'isola di Kyushu e risalirebbero all'XI millennio a.C.; al IX millennio risalgono invece reperti ceramici rinvenuti in siti dell'Anatolia (Turchia meridionale), mentre al III millennio sono attribuiti i reperti più antichi nel continente americano. Manufatti ceramici sono le tavolette assiro-babilonesi in argilla cotta, utilizzate per la scrittura in caratteri cuneiformi (figura 188), che costituiscono un archivio di valore storico inestimabile.

Tra le produzioni ceramiche antiche, degno di nota è l'esercito di guerrieri in terracotta rinvenuto nel 1974 presso Xian, in Cina. Si tratta di un insieme di alcune migliaia di figure tra guerrieri, cavalli e carri risalenti al III secolo a.C., creati per "vegliare" la tomba di Shi Huangdi, primo imperatore della dinastia Qin; le figure sono collocate a livelli diversi su un'area di non meno di 32 Km2 in quella che è la tomba imperiale più grande di ogni epoca (figura 189). È impressionante notare che ogni singola figura è diversa dalle altre, come si fosse voluto riprodurre persone reali (figura 190).

Molte produzioni di epoca preromana sono differenziabili, oltre che stilisticamente, anche in base al loro contenuto di elementi in tracce. Una ceramica antica nota come tipo Tell el Yahudiyeh, diffusa nel Mediterraneo orientale, è stata ampiamente studiata e sono stati individuate produzioni caratteristiche per il loro contenuto di bario e cromo (Siria), manganese e scandio (valle del Nilo), rubidio e cobalto (Sudan); in questo modo è stato possibile individuare legami culturali tra le zone in cui questa ceramica era prodotta o commercializzata. Altre produzioni ceramiche molto studiate a livello di composizione chimica sono quelle micenaiche e minoiche: in base al contenuto di metalli, sono stati individuati non meno di 17 gruppi distinti, di cui i principali sono la ceramica micenea del Peloponneso e la ceramica minoica di Cnosso a Creta.

 

5.3.15 - Vasi attici

Un esempio particolarmente noto di tecnologia ceramica è quella dei Greci antichi. Quando si pensa alla ceramica greca, si pensa subito ai famosi vasi attici a figura nera e corpo rosso e a figura rossa e corpo nero (figura 191). Questi manufatti venivano prodotti con un procedimento estremamente ingegnoso, che dimostra la capacità di selezionare le materie prime più idonee e di gestire l'intero processo di preparazione in maniera efficiente.

Il procedimento è stato elucidato soltanto negli anni '40 da un chimico di nome Schumann. L'analisi delle parti rosse e nere mostrano composizione molto simile e quindi assenza di pigmenti intenzionalmente aggiunti per ottenere il colore nero, quali ossido di manganese.

Per ottenere i vasi a figure rosse e corpo nero si applicava uno schema a tre passaggi:

  1. Le aree desiderate in nero erano impresse sull'impasto con uno strato sottile (slip in inglese) di argilla ottenuta per elutriazione, un procedimento di raffinazione in cui l'argilla è sospesa in acqua con un agente disperdente per selezionare le particelle più fini; allo slip era addizionato un fondente che in fase di cottura in ambiente ossidante ne provocava la vetrificazione, a differenza dell'impasto. Dopo cottura ossidante, tutto il corpo ceramico era rosso

  2. Si effettuava una cottura in ambiente riducente per ottenere un manufatto completamente nero; lo slip, vetrificando, sigilla la parte sottostante dell'impasto proteggendola dall'azione dell'ossigeno

  3. Si effettuava una nuova cottura in ambiente ossidante a temperatura leggermente inferiore: lo slip e la parte sottostante restano neri, mentre il resto del corpo ceramico torna ad essere rosso. Interessante è notare che, nel prodotto finito, le parti rosse sono sempre scabre e porose, mentre le parti nere sono più liscie e meno porose, essendo state soggette a sinterizzazione e vetrificazione

Le tre fasi sono riassunte nella figura 192.

Per i vasi a figure nere e corpo rosso la tecnologia era analoga, ma le figure nere ottenute con l'applicazione dello slip a base di argilla fine erano di qualità stilisticamente inferiore; dopo cottura e vetrificazione dello slip, le figure erano rifinite a mano asportando le parti in eccesso. Nel caso precedente dei vasi a figura rossa, si ottenevano manufatti con figure meglio definite. Esistono poi manufatti aventi un fondo bianco, dovuto all'utilizzo di argille a base di caoliniti, prive di impurezze ferrose che danno la pigmentazione.

La struttura del rivestimento argilloso è evidenziata dalla fotografia SEM della figura 193.

 

5.3.16 - Ceramica romana

Tra le numerose tipologie di ceramica romana è di particolare rilevanza quella nota come Terra Sigillata, Samian ware in inglese (figura 194), una produzione caratterizzata dalla presenza di un sigillo apposto dal ceramista sul manufatto. Questa ceramica aveva come centri di produzione soprattutto Arezzo ma anche tutta la zona europea dell'Impero romano, in particolare, ed era diffusa in zone molto lontane come l'India. Strutturalmente la Terra Sigillata si distingue per la superficie lucida, ottenuta con una tecnologia simile a quella dei vasi attici a figura rossa, mediante cioè l'applicazione di uno slip di argilla fine miscelata con un fondente, seguita da una singola cottura in ambiente ossidante; la vetrificazione del rivestimento dava a questi manufatti l'aspetto lucido che la contraddistingue.

 

5.3.17 - Ceramica orientale

Tra le culture che hanno più contribuito allo sviluppo della tecnica ceramica c'è sicuramente quella islamica, soprattutto da Persia, Siria e Iraq. Due esempi di tecniche artistiche create nel Medio Oriente sono la ceramica sgraffita (figura 195), sviluppata da ceramisti musulmani tra il IX e il X secolo, che consiste nell'incidere la superficie rivestita di un manufatto in modo da far risaltare il colore del corpo ceramico sottostante, e il lustro (figura 196), una tecnica utilizzata anche nella decorazione del vetro e del metallo, creata nel IX secolo in Persia e Iraq e consistente nell'applicare alla superficie rivestita una pasta a base di ossidi metallici, cuocendo poi il manufatto in ambiente riducente: si otteneva la riduzione dei metalli ad elementi puri

Au+ + e- ® Au0

Le particelle metalliche, diffondendo sulla superficie, creavano effetti iridescenti. L'argento impartiva colorazioni dal giallo all'ambra, il rame dall'arancio al rosso in base all'entità della riduzione

Cu2+ + e- ® Cu+ ® Cu0

Naturalmente il controllo sul risultato finale richiedeva un alto grado di destrezza.

 

5.3.18 - L'introduzione del rivestimento vetroso

L'uso di rivestimenti vetrosi su manufatti ceramici è noto a partire dal II millennio a.C. in Mesopotamia, ma oggetti smaltati di altro materiale risalgono a epoche ancora più antiche. I primi rivestimenti vetrosi furono a base di ossidi alcalini (potassio o sodio). Probabilmente gli artigiani della Mesopotamia e dell'Egitto sperimentarono diverse sostanze prima di ottenere una composizione che impartisse al rivestimento proprietà di contrazione e colore tali da renderlo compatibile con il corpo ceramico. I minerali del piombo avevano queste proprietà e agivano anche da fondenti per l'argilla; una ricetta per un fondente a base di piombo è stata rinvenuta su una tavoletta di argilla proveniente dall'Iraq (1700 a.C.). Naturalmente a quell'epoca le proprietà tossiche del piombo non erano note (e non lo furono fino al XIX secolo) e non si sapeva, per esempio, che esso può essere rilasciato in soluzione se posto a contatto con liquidi contenenti acidi, quali i succhi di agrumi che sono ricchi di acido citrico. Nondimeno, i rivestimenti a base di piombo furono i più utilizzati per le ceramiche invetriate fino all'introduzione dei composti di stagno. 

Per puntualizzare le differenze dal punto di vista terminologico, è bene chiarire, quindi, che con il termine invetriatura si definisce un rivestimento ottenuto dalla miscela di varie sostanze che sparso sul corpo ceramico vetrifica in cottura; la ceramica ottenuta è detta invetriata. Mentre negli esemplari più antichi (in Medio Oriente e Egitto) si univano prevalentemente alcali (invetriate alcaline), in età romana e per tutto l’altomedioevo come fondente viene utilizzato l’ossido di piombo (invetriate piombifere).

Per avere rivestimenti colorati, si addizionava alla miscela sali di rame (blu-verde), di ferro (rosso-marrone) o di cobalto (azzurro).

Gli Egiziani utilizzavano molto i rivestimenti vetrosi per produrre piccoli oggetti d'arte, mentre presso gli Assiro-babilonesi l'uso principale era invece a scopo architettonico, per produrre mattonelle smaltate che andavano a ornare le superfici di opere edili come nella famosa Porta di Ishtar (VI secolo a.C., figura 197); il colore blu era ottenuto impiegando sali di cobalto nella miscela del rivestimento. Questi rivestimenti erano spesso a base di argilla povera in alluminio, addizionata con fondenti alcalini o di piombo. L'uso in campo edile è ancora molto sviluppato nel mondo islamico, soprattutto nella decorazione degli edifici religiosi come nel famoso Registan a Samarcanda, nell'attuale Uzbekistan (figura 198).

Altri rivestimenti vetrosi utilizzati, ma di proprietà tecnologicamente inferiori, erano basati su fondenti alcalini (soda, borace) oppure sull'uso di sale da cucina (NaCl) secondo una pratica sviluppata nel XV secolo d.C. in Germania, dove contenitori ceramici con rivestimento a base di sale erano impiegati per stoccare la birra; questa ceramica era chiamata salt-glazed (figura 199).

Probabilmente su influenza del mondo islamico, durante il Rinascimento diventa diffuso l'utilizzo dei rivestimenti a base di stagno, già noti dal IX secolo a.C. e impiegati dai ceramisti dal IX secolo d.C.; l'introduzione dello stagno nella miscela vetrosa crea una superficie opaca e bianca che rappresenta una buona base per la decorazione del manufatto. Le ceramiche con rivestimento in stagno sono note come smaltate. La tecnica di decorazione tra la ceramica invetriata e quella smaltata era diversa: nel primo caso sul manufatto già cotto si eseguiva il disegno voluto, poi si immergeva in una sospensione d'acqua e ossidi di piombo ed infine si rimetteva nel forno, dove gli ossidi di piombo fondevano dando la lucentezza tipica della ceramica invetriata; nel caso della ceramica smaltata, il processo era inverso: si immergeva prima il manufatto già cotto in una sospensione d'acqua e ossido di piombo insieme a ossidi di stagno (per avere l'effetto opacizzante), poi si lasciava asciugare e si eseguiva il disegno voluto. Infine il manufatto andava una seconda volta in forno, dove gli ossidi fondevano creando uno strato di smalto sul manufatto.

Nel corso del tardo Medioevo si sviluppano in Europa produzioni tipiche di ceramiche smaltate che prendono il nome dai centri di produzione o di scambio. Abbiamo in particolare:

  • le maioliche che prendono il nome dall'isola spagnola di Mallorca, centro di smistamento delle produzioni ispano-moresche (figura 200)

  • le faentine, dalla città di Faenza (figura 201)

  • la ceramica di Delft (delftware in inglese) con elementi decorative che richiamano la porcellana cinese (figura 202)

Luca della Robbia per la produzione di sculture in ceramica utilizza smalti a base di stagno e piombo, che danno al manufatto l'apparente consistenza del marmo (figura 203).

A partire dal 1500, la maiolica viene massicciamente esportata nel continente americano; tuttavia, essendo le materie prime disponibili in loco, nell'America spagnola si sviluppa parallelamente una produzione locale avente il suo centro nella città messicana di Puebla. Le maioliche messicane sono ben distinguibili da quelle europee importate in base al contenuto di microelementi, principalmente cerio, lantanio e torio, metalli presenti come impurezze nell'argilla o nelle tempere. Una differenza ancora più evidente è legata all'uso delle tempere: di origine sedimentaria nei manufatti europei, di origine vulcanica in quelli messicani. Anche la composizione dei rivestimenti vetrosi indica l'utilizzo di materie prime locali, come è evidenziato dal grafico in figura 204 che mostra i rapporti isotopici del piombo misurati in manufatti ceramici messicani e spagnoli: risulta evidente che le maioliche locali erano fatte con un rivestimento vetroso a base di piombo estratto da miniere locali.

Oltre alla più classica produzione di vasellame, l'uso di rivestimenti vetrosi a base di piombo e/o stagno è impiegato nella produzione di piastrelle smaltate, la cui tecnologia si sviluppa soprattutto nella Spagna araba a partire dal XII e XIII secolo, su influenza forse di ceramisti persiani emigrati in Andalusia. Queste piastrelle sono chiamate in arabo a-zala iyi, parola che si ritrova nello spagnolo azulejo e nel portoghese azulejo. Gli azulejos andalusi assumono nel tempo forme geometriche sempre più elaborate e virtuose, come si può ammirare nelle piastrelle che decorano le stanze dell'Alhambra a Granada (figura 205). La produzione di piastrelle smaltate spagnole si diffonde poi nei secoli successivi in tutta l'area mediterranea e in particolare al Portogallo (figura 206). In Italia, molto note sono le piastrelle in maiolica che ornano il chiostro del monastero di Santa Chiara a Napoli, risalenti al XVIII secolo (figura 207).

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5.3.19 - La porcellana

La porcellana è considerata tecnicamente ed esteticamente il pù alto livello di produzione ceramica. Il nome sembra sia dovuto a Marco Polo, che la chiamò così da una conchiglia in uso in Oriente come valuta di grande valore, la porcella. Essa è stata infatti inventata in Cina attorno all'VIII secolo d.C.; il notevole ritardo rispetto agli altri tipi di manufatti è dovuto alla necessità di disporre di materie prime e tecnologie di cottura più avanzate. Sono necessari un'argilla bianca, il caolino, una roccia a base di feldspato che agisca come fondente e la possibilità di cuocere l'impasto ad almeno 1300°C, una temperatura inaccessibile in antichità. A questa temperatura l'impasto vetrifica e forma una superficie bianca molto lucida e resistente. Il caolino ha un contenuto di alluminio molto elevato, cosa che rende difficoltosa la vetrificazione al di sotto di 1400°C, per cui è necessaria l'addizione del fondente in quantità opportune. Per ottenere un prodotto ottimale, i due componenti vanno miscelati in quantità uguali.

La produzione di porcellana rimase prerogativa dei Cinesi per diversi secoli. Le porcellane a fondo bianco e decorazione blu (figura 208) rappresentavano uno dei manufatti più pregiati e richiesti in Europa fino al XVII secolo, quando la produzione viene sviluppata anche in Occidente. Il caolino e la roccia feldspatica erano noti rispettivamente come China clay e China stone.

Per la decorazione della porcellana i Cinesi svilupparono la tecnica underglaze, impartendo il colore mediante un pigmento applicato sotto il rivestimento vetroso. La tecnica, sviluppata durante la dinastia Tang (VIII-X secolo d.C.) e rifinita nel tempo dai ceramisti, prevedeva l'applicazione del pigmento sull'impasto essiccato, l'essiccazione della decorazione e infine l'applicazione del rivestimento, a seguito della quale il manufatto era pronto per la cottura. Tra i colori, particolarmente utilizzato era il blu, ottenuto mediante composti di cobalto tra cui il pigmento Blu Cobalto (CoO·Al2O3) proveniente dalla Persia fino all'epoca della dinastia Ming (XIV secolo) e poi reperito localmente; è interessante notare che è possibile distinguere chimicamente il pigmento blu di provenienza persiana da quello di provenienza locale in base al contenuto di impurezze di ossido di manganese di cui il secondo è più ricco, ottenendo in questo modo anche una possibile datazione del manufatto: porcellane contenenti trace di manganese non possono essere antecedenti al periodo della dinastia Ming. Altri colori utilizzati erano il rosso con composti di rame e il nero a base di ferro.

Relativamente al rivestimento, sulla porcellana era utilizzata la cosidetta glaze stone, cioè China stone miscelata con un fondente alcalino oppure macinata per renderla più fine e più facilmente vetrificabile.

In Europa la porcellana era molto apprezzata ma la tecnologia di produzione rimase ignota fino al XVIII secolo, più che altro perchè non erano note sorgenti di caolino. In questo secolo vengono fatti alcuni tentativi di imitazione; il più rilevante è quello dell'inglese Josiah Wedgwood, il quale, successivamente allo sviluppo della porcellana europea, utilizzò caolino e feldspato per ottenere una ceramica nota come creamware (figura 209) per il colore caldo, più resistente della maiolica, alla quale associò un rivestimento vetroso trasparente a base di solo piombo. Successivamente, lo stesso Wedgwood scoprì che l'addizione di solfato di bario (BaSO4) all'impasto permetteva di ottenere un grès vetroso non smaltato molto simile alla porcellana, da lui chiamato Jasper (figura 210). Questa produzione era adattissima per ritratti (nella figura 211 il ritratto di Wedgwood) e per fare da sfondo a rilievi bianchi di ispirazione classica e poteva essere facilmente colorata mediante l'uso di ossidi metallici; l'esempio più noto di questa ceramica è l'imitazione del Vaso Portland (figura 212). Un'altra produzione rilevante a partire dal XVI secolo è una ceramica meno resistente della porcellana ma creata a sua imitazione e nota come soft paste (in contrapposizione alla porcellana, hard paste), sviluppata soprattutto a Sevres, in Francia, e in Gran Bretagna.

Ma è grazie ad un alchimista tedesco di nome Böttger che diventa possibile anche in Europa la produzione di porcellana dalla caratteristiche stilistiche e tecnologiche paragonabili a quelle cinesi. La scoperta è legata all'individuazione del caolino in cave site in Germania meridionale, materiale che Böttger utilizzò insieme ad una roccia feldspatica per ottenere manufatti ceramici, senza in realtà conoscere la tecnologia dei Cinesi e senza avere esperienza di ceramista. Nel 1710 a Meissen (ex Germania orientale) viene insediata una fabbrica reale per la produzione di porcellane di cui la città diventerà uno dei centri più importanti; attualmente le porcellane di Meissen sono tra le più quotate al mondo (figura 213). Un altro centro importante diventa Limoges, a seguito della scoperta di giacimenti di caolino nelle vicinanze, mentre per lo stesso motivo Sevres converte la sua produzione di soft-paste in hard-paste.

Nel 1768 W. Cookworthy, un farmacista di Plymouth (Gran Bretagna) brevettò un procedimento per la manifattura della porcellana. Infine, all'inizio del XIX secolo J. Spode miscelò caolino, feldspato e cenere d'ossa (costituite prevalentemente da fosfati) per ottenere un prodotto simile alla porcellana dal colore avorio molto delicato e molto apprezzato sui mercati inglesi, noto come Bone China.

 

5.4 - I materiali metallici

5.4.1 - Introduzione

Si dice che le civiltà antiche conoscessero otto elementi: rame, stagno, piombo, zinco, ferro, oro, argento e mercurio. Altri elementi di minor uso ma probabilmente noti erano antimonio e platino. In base al loro utilizzo, questo gruppo può essere diviso in due tribù: una di semidei (oro, argento, rame) utilizzati per monete e gioielli, e una di terrestri, utilizzata per oggetti di uso comune.

Questi elementi hanno una caratteristica comune: sono tutti metalli. Presso gli alchimisti, i metalli erano ritenuti avere proprietà mistiche ed essi li associavano ai pianeti e ai giorni della settimana (tabella 16):

Tabella 16 - Metalli, pianeti e giorni della settimana
Metallo Pianeta Giorno
Oro Sole Domenica
Argento Luna Lunedì
Ferro Marte Martedì
Mercurio Mercurio Mercoledì
Stagno Giove Giovedì
Rame Venere Venerdì
Piombo Saturno Sabato

Più semplicemente, i metalli hanno proprietà che li rendono nettamente distinti, come materiali, rispetto a quelli già noti in antichità:

  • la duttilità, cioè la possibilità di essere lavorati in forme allungate;

  • la malleabilità, cioè la possibilità di essere lavorati in forme schiacciate; questa proprietà, come la precedente, è strettamente legata alla plasticità, cioè alla capacità di ritenere la forma impressa

  • la durabilità, infinitamente superiore a qualunque altro materiale

  • l'aspetto metallico particolarmente lucido, tale da rendere i metalli idonei anche alla manifattura di oggetti d'arte

Dal punto di vista strutturale, i metalli sono caratterizzati dal legame metallico (figura 214). Essendo i metalli elementi elettrondonatori, tendono ad esistere sotto forma di ioni carichi positivamente; i cationi formatisi occupano posizioni fisse e ordinate nei cristalli metallici mentre gli elettroni ceduti vengono messi in comune e costituiscono una nuvola elettronica molto mobile, responsabile delle proprietà macroscopiche di questi elementi, prima fra tutte la conducibilità elettrica. Questa nuvola elettronica si muove facilmente tra i cationi e funge da "collante" poichè esiste un'attrazione reciproca tra cationi e nuvola elettronica in quanto portatori di carica elettrica di segno oppostogli elettroni che appartengono ad ogni atomo sono in realtà condivisi tra tutti gli atomi, creando così un movimento di elettroni che rende conto della coesione e della grande conducibilità elettrica dei metalli.

Tra i metalli citati, solo argento, ferro, oro, platino e rame esistono in natura allo stato nativo, ovvero come elementi puri, mentre gli altri, ma anche ferro e rame, sono combinati ad altri elementi ed esistono sotto forma di minerali, soprattutto come ossidi (MemOn) e solfuri (MemSn), es. il piombo sotto forma di galena (PbS), il ferro sotto forma di ematite (Fe2O3) o magnetite (Fe3O4).

L'uso di un metallo implica quindi che gli antichi sapessero dove e come estrarlo, e come trattarlo per ottenerlo allo stato metallico. Si ritiene che l'estrazione da minerali sia stata scoperta indipendentemente in almeno cinque culture: Mesopotamia, Europa sudorientale (Balcani), Cina, Africa Occidentale (Nigeria) e Sudamerica. Dal punto di vista metallurgico, i processi coinvolti erano l'arrostimento, effettuato in atmosfera ossidante

MeX + mO2 ® MeOn + X

e la riduzione, ottenuta per reazione con carbone in ambiente riducente

MeOn + C ® Me + CO2

MeOn + CO ® Me + CO2

L'uso dei metalli implica anche l'esistenza di rotte commerciali verso le zone dove esistevano le miniere. Siccome i metalli venivano utilizzati non solo per utensili domestici o ornamenti ma anche per armi da guerra (asce, figura 215, coltelli, punte di freccia), la disponibilità di materie prime influenzava la capacità di un popolo di dominare popoli vicini, in maniera più effettiva che per qualsiasi altro materiale. Per l'importanza che queste scoperte rivestono nella storia dell'uomo, si è soliti dividere le età dell'uomo in riferimento all'introduzione dei metalli: abbiamo così, dopo l'età della pietra, l'età del bronzo (III millennio a.C.) e l'età del ferro (II millennio a.C.), che segnano profondamente gli stili di vita delle civiltà.

Lo sfruttamento dei metalli da parte dell'uomo risale ad almeno il IX millennio a.C. con la scoperta del rame; seguono poi oro, piombo, stagno, argento e, molto dopo, il ferro. Parallelamente vengono introdotte le leghe, miscele di due o più metalli.

 

5.4.2 - Interesse allo studio dei metalli

I materiali metallici sono molto studiati dal punto di vista archeometrico. Molti studi consentono di elucidare la tecnologia metallurgica delle civiltà antiche, sfruttando il responso delle analisi chimiche per replicare i metodi usati in antichità. Per quanto riguarda gli studi di provenienza, la situazione è diversa a seconda che i manufatti siano in metallo puro o in lega. Per i metalli puri, la determinazione delle impurezze può dare informazioni preziose sulla provenienza della materia prima, a patto che il manufatto non provenga da materiale di provenienza differente rifuso insieme; risulta invece piuttosto difficile dire se un manufatto è stato prodotto da metallo nativo o da minerali. Per quanto riguarda le leghe, l'assegnazione della provenienza è problematica per la miscelazione di più elementi e bisogna ricorrere al confronto con manufatti di provenienza certa, come nel caso delle ceramiche e dei vetri. Tuttavia, le percentuali relative dei componenti delle leghe sono in alcuni casi differenziabili da un'epoca all'altra e da un'area geografica all'altra.

L'Interesse allo studio dei metalli è legato ai seguenti motivi:

  • Caratterizzazione elementare

    • per effettuare studi di provenienza

  • Caratterizzazione di proprietà tecnologiche

    • per definire le capacità tecnologiche e il tenore di vita di una civiltà

  • Conservazione e restauro

    • studio degli effetti degli agenti atmosferici sul metallo (malattia del bronzo, formazione di patine, ecc.)

    • ripristino di aree danneggiate

 

5.4.3 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali metallici

Nella caratterizzazione chimica dei reperti metallici l'analisi elementare è quella che può dare le informazioni principali, essendo il substrato formato da elementi puri o in lega e non da composti. Le tecniche più usate sono quindi quelle di spettroscopia atomica o la spettroscopia di fluorescenza X. Molto utili sono anche le tecniche di analisi superficiale che consentono di caratterizzare in maniera non distruttiva le superfici esposte dei manufatti; tecniche come la microsonda elettronica o la PIXE possono essere impiegate, per esempio, nell'analisi delle filigrane per determinare quali composti sono stati usati.

Le tecniche di spettroscopia molecolare (Raman, Infrarosso o XRD) possono dare informazioni utili nella caratterizzazione di prodotti di degradazione superficiali, che sono spesso composti e non elementi.

 

5.4.4 - Rame

Il rame 216, insieme ad argento e oro, fa parte del gruppo dei metalli nobili, cosidetti per il fatto che si trovano spesso in pepite pure e per la loro scarsa solubilità negli acidi. Il suo simbolo, Cu, viene dalla parola latina cuprum, l'antico nome dell'isola di Cipro, famosa per le sue miniere. Si ottiene allo stato nativo o da minerali, principalmente solfuri (calcopirite, CuFeS2, calcosina, Cu2S, covellina, CuS). Dal punto di vista tecnologico, si distingue tra i metalli per l'elevata conducibilità termica e per l'ancora più elevata conducibilità elettrica, seconda solo a quella dell'argento.

L'uso del rame è documentato da almeno il IX millennio a.C. in Medio Oriente; in Europa ci sono evidenze di una cultura del rame almeno dal V millennio nei Balcani, sviluppatasi in maniera indipendente. All'inizio si trattava di rame nativo, ma dal VI millennio a.C., sempre nella stessa area, viene introdotto il processo di estrazione da minerali che rappresenta una vera e propria linea di confine nella storia dell'uomo: esso infatti implica l'acquisizione di nuove tecnologie e la capacità di intuire che da minerali di un certo colore e aspetto si può ottenere un materiale avente proprietà completamente diverse. Se valutiamo la malachite sotto l'aspetto visuale, senza avere conoscenze chimiche non saremmo in grado di riconoscervi una materia prima per ricavare rame (figura 217).

L'origine di questa scoperta è incerta; è probabile che, nel fondere rame nativo in presenza di residui rocciosi o ganga contenenti composti di rame, il processo generasse più rame di quanto fosse atteso facendo intuire che la roccia era anch'essa sorgente di questo metallo. Uno scenario alternativo collega l'estrazione alla lavorazione della ceramica, nella quale pigmenti verdi a base di rame potrebbero essere virati al tipico colore ramato in ambiente di cottura riducente, oppure rame nativo potrebbe essersi degradato a composti ossidati di colore diverso.

Il processo di estrazione prevede che il minerale contenente rame venisse scaldato in fornace in atmosfera riducente ad una temperatura di circa 1100°C, in base alla seguente reazione:

CuO + CO ® Cu + CO2

che poteva essere preceduta dalla conversione di un carbonato (malachite) ad ossido:

CuCO3 CuO + CO2

Se il minerale era un solfuro si aveva preventivamente l'arrostimento, cioè il passaggio ad ossido in atmosfera ossidante:

Cu2S + 2O2 ® 2CuO + SO2

Come detto in precedenza, è difficile dire se un manufatto di rame sia stato prodotto da metallo nativo o da minerali. In questo caso un indicatore può essere la presenza di impurezze di piombo, che non esistono nel rame nativo in quanto questo elemento non esiste in natura come metallo libero, ma potrebbe prodursi nel processo di estrazione dal minerale di rame.

A partire dal IV millennio probabilmente, nell'estrazione del rame da minerali vengono utilizzati fondenti per abbassarne il punto di fusione. Questi possono essere stati sostanze alcaline, silicati, ossidi di ferro o composti già presenti nel minerale. Ciò è testimoniato dai numerosi ritrovamenti di scorie, che possono in qualche modo essere collegati anche alla scoperta dei rivestimenti vetrosi e del vetro stesso. La percentuale di ferro in reperti di rame può differenziare i manufatti prodotti con tecniche diverse di estrazione: più elevata in tecniche maggiormente avanzate, meno in tecniche più primitive.

L'uso del rame è legato principalmente alla manifattura di utensili e di armi. L'ascia riportata in figura 218, ritrovata nei pressi dell'Uomo di Similaun, risale a 5300 anni fa ed è composta da rame al 99.7%.

 

5.4.5 - Bronzo

La scoperta del bronzo è un passaggio chiave della storia dell'uomo, che delimita un periodo noto come Età del Bronzo (3000-1200 a.C.). La tradizione del bronzo si è sviluppata probabilmente in maniera indipendente in Mesopotamia, Cina, Africa occidentale (l'odierna Nigeria) e Sudamerica, fino a raggiungere il suo apice nelle produzioni greche. L'uso delle miscele di metalli o leghe risale al IV millennio a.C.; nella tabella 17 sono riportate le principali leghe utilizzate in antichità.

Tabella 17 - Lista delle leghe utilizzate in antichità
Nome Composizione % Origine Utilizzo
Acciaio Ferro (95-99.9) – carbone (5-0.1)   armi
Amalgama Mercurio – altri metalli   saldature
Argento da conio Argento (75-95) – Rame (25-5) Grecia conio
Argentarium Piombo (50) – Stagno (50) Roma stagnatura
Bell metal Rame (75-80) – Stagno (25-20)   campane
Biglione Argento o Oro – Rame, Stagno o altri metalli   gioielleria
Bronzo Rame (80-95) – Stagno (20-5)   vari
Bronzo da conio Rame (92-95) – Stagno (5-4) – Zinco (3-1) Grecia conio
Elettro Oro (80) – Argento (20) naturale conio
Oricalco Rame – Zinco naturale conio
Ottone Rame (50-90) – Zinco (50-10)   vari
Peltro Stagno (65-95) – Piombo (35-5) Roma stoviglie
Salda Piombo (50-70) – Stagno (50-30) Roma saldature
Speculum Rame (60) – Stagno (40) Roma, Oriente specchi
Tertiarium Piombo (66) – Stagno (33) Roma saldature
Tumbaga Oro (97-3) – Rame (3-97) - Argento America gioielleria

La prima lega era probabilmente una miscela rame-arsenico nota come bronzo arsenicale. L'addizione di arsenico al 2% migliora le proprietà del rame, rendendolo più duro e più facilmente fusibile. L'introduzione dell'arsenico può essere dovuta all'estrazione di rame da un minerale come la olivenite (Cu2AsO4OH) o dall'addizione di fondenti come l'orpimento (As2S3). La produzione di bronzo arsenicale fu particolarmente sviluppata in Sudamerica nelle Ande settentrionali, probabilmente per la disponibilità di materie prime, mentre nelle Ande meridionali prevaleva la produzione di bronzo di stagno.

Tra il 4000 e i 3000 a.C. si diffonde l'uso dello stagno come elemento di lega, si otteneva un materiale con proprietà analoghe al bronzo di arsenico, chiamato bronzo di stagno o semplicemente bronzo. Inizialmente miscelato con l'arsenico, viene poi utilizzato in percentuale attorno al 10%.

Durante l'età del Bronzo l'estrazione del rame si perfeziona, attraverso l'uso di minerali differenti tra cui i solfuri e attraverso il raffinamento delle materie prime o beneficiazione. Lo stagno poteva essere addizionato alla miscela da fondere come ossido (cassiterite, SnO2), come solfuro (stannite, SnCu2FeS4) o come metallo puro; un altro elemento che si addizionava era il piombo.

La massa fusa, ottenuta dall'estrazione dei metalli, veniva versata in uno stampo per ottenere la forma voluta. I primi stampi erano in pietra (figura 219), mentre successivamente si usarono l'argilla e soprattutto la famosa tecnica della fusione a cera persa, messa a punto probabilmente dai Greci e ancora oggi impiegata. Essa prevedeva i seguenti passaggi (figura 138):

  1. preparare un nucleo argilloso avente grossolanamente la forma dell'oggetto che si vuole fare

  2. coprire il nucleo con uno strato di cera e ivi plasmare i dettagli dell'oggetto

  3. coprire interamente la forma con uno spesso mantello argilloso da attaccare al nucleo interno con inserti di ferro o bronzo, quindi scaldare lentamente la forma argillosa in modo da far fondere e fuoriuscire la cera, poi cuocere per irrobustire l'argilla

  4. riempire lo spazio lasciato dalla cera con bronzo fuso: dopo raffreddamento, rompere la forma, rimuovere l'oggetto in bronzo e ripulirlo dall'argilla contenuta all'interno

L'uso di questa tecnica permetteva di realizzare statue che fossero cave all'interno, utilizzando una quantità minore di bronzo. Una statua in bronzo di piccole dimensioni si poteva ragionevolmente realizzare a blocco pieno, predisponendo una forma cava al negativo; una statua di uno o due metri di altezza, invece, non era realizzabile in questo modo perché avrebbe richiesto molto metallo e avrebbe avuto un peso incredibile; inoltre, una volta colata nella forma, in fase di raffreddamento, per effetto della differente temperatura tra interno ed esterno con conseguente divario di dilatazione e contrazione, la forma sarebbe stata sollecitata a tensioni interne così forti che ne avrebbero determinato la rottura.

Un esempio notissimo di sculture bronzee realizzate con la tecnica della cera persa è quello dei Bronzi di Riace (figura 221), due statue rinvenute nel 1972 nel mare Ionio a 300 metri dalle coste di Riace, in provincia di Reggio Calabria. Le statue, tra le poche originali che ci sono giunte dalla Grecia, sono in realtà differenti stilisticamente essendo state attribuite a due differenti artisti e a due epoche distinte; entrambe risalgono comunque al V secolo a.C.. Sia gli autori, sia i personaggi raffigurati sono ignoti. La tecnica utilizzata prevedeva la colatura del bronzo fuso in fori praticati sulla forma in argilla; la cera si scioglieva e colava da opportuni fori ricavati inferiormente. Quando il bronzo si raffreddava aveva preso tutto il posto della cera; a questo punto si poteva liberare la statua di tutto il materiale refrattario che la ricopriva. All'interno la statua conteneva ancora l'argilla usata per la prima modellazione; per rimuoverla, si faceva in modo che la forma non fosse totalmente chiusa, in modo da poter liberare la statua dell'argilla interna. Nel caso dei bronzi di Riace, ad esempio, le due figure sono aperte sotto i piedi, fori che ovviamente non si vedono quando le statue sono collocate in posizione eretta. Recenti interventi di restauro interno, condotti con microsonde radiocomandate, hanno permesso di asportare ancora un quintale circa di argilla che era rimasto negli anfratti interni delle due statue. Se le statue non erano fuse in un unico blocco, il lavoro risultava più agevole. In questo caso le parti venivano saldate a posteriori in punti appositamente studiati per non influire nella visione dell'opera.

 

5.4.6 - Stagno

Lo stagno (figura 222) è importante in antichità soprattutto come componente critico nel bronzo. Il nome deriva dal latino stannum; in natura si trova principalmente sotto forma di ossido (cassiterite, SnO2, figura 223) e viene utilizzato nelle saldature in lega con il piombo per il suo basso punto di fusione.

Lo stagno si otteneva facilmente puro per estrazione in ambiente riduttivo:

SnO2 + 2CO ® Sn + 2CO2

In epoca greco-romana esistevano ricche miniere di stagno in Bretagna, Spagna e Cornovaglia, mentre per l'area orientale sembra che fossero disponibili miniere in Anatolia, non lontano dall'isola di Cipro dove esistevano miniere dell'altro componente del bronzo, il rame. L'uso dello stagno al di fuori della produzione d bronzo è scarsamente documentato.

 

5.4.7 - Piombo

Il nome deriva dal latino plumbum. Si trova prevalentemente sotto forma di solfuro (galena, PbS, figura 224). Tra i metalli è il più molle, potendosi rigare con un'unghia (figura 225).

La produzione di piombo per estrazione da minerali potrebbe essere uno dei primi processi metallurgici noti all'uomo, essendoci testimonianze risalenti al VI millennio a.C.; esso potrebbe addirittura precedere l'estrazione del rame in quanto il piombo è estraibile dalla galena a circa 800°C, una temperatura più facilmente raggiungibile. Il processo prevedeva più stadi, come nel caso del rame: prima si effettuava l'arrostimento in ambiente ossidante

2PbS + 3O2 ® 2PbO + 2SO2

L'ossido di piombo così formato era noto come litargirio o pietra d'argento, in quanto era ottenuto anche come residuo nel processo di coppellazione per l'estrazione dell'argento. Dal litargirio si otteneva poi il metallo puro per riduzione in ambiente riducente

PbO + C ® Pb + CO

oppure per reazione con il minerale residuo non ancora arrostito

2PbO + PbS ® 3Pb + SO2

Data la bassa temperatura di fusione del piombo (327°C), dal processo di estrazione si otteneva piombo allo stato fuso.

I manufatti più antichi contenenti piombo risalgono al VI millennio a.C. in Mesopotamia. L'uso principale era in lega nel bronzo oppure nella manifattura di piccoli oggetti ornamentali o ad uso utensile, come i famosi pesi trovati nelle isole egee di Kea e Thera (figura 226), esistenti in multipli di 61 grammi. L'addizione al bronzo di stagno aumentò drasticamente la produzione di piombo dal II millennio a.C. e durante l'epoca imperiale romana i livelli di produzione erano così elevati che esso era noto come metallo Romano, essendo utilizzato su scala industriale per la coniatura di monete, per i rivestimenti di tini, chiglie di navi, bare, stoviglie e condotte per l'acqua. Oltre all'uso nel bronzo, il piombo era impiegato in lega con lo stagno per formare il peltro (5-25% di piombo) e la ganza (~60% piombo); una lega a composizione simile a quest'ultima è attualmente molto utilizzata nelle saldature. Questi usi hanno lasciato un segno nell'etimologia delle parole inglesi plumb e plumber o idraulico.

L'impiego massiccio del piombo in epoca romana ha lasciato tracce più interessanti a livello ambientale come si può vedere dalla figura 227: il culmine della produzione di piombo in epoca romana coincide con un massimo di concentrazione di questo metallo misurata nei ghiacci della Groenlandia. Inoltre esso ebbe probabilmente conseguenze dal punto di vista sanitario, causando il diffondersi del saturnismo o avvelenamento da piombo che può essere stato provocato dall'esposizione cronica legata agli acquedotti e ai contenitori utilizzati per cibo e vino, per i quali era d'uso il rivestimento in piombo. Se ciò abbia contributo alla caduta dell'Impero Romano è incerto, ma restano due testimonianze: la concentrazione anormalmente elevata di piombo nelle ossa umane rinvenute in siti romani, e il tasso di fertilità anormalmente basso nelle famiglie aristocratiche romana.

Gli studi archeometrici sui manufatti in piombo hanno verificato l'utilità dell'analisi isotopica nell'assegnazione della provenienza delle materie prime. Il piombo ha quattro isotopi: 204Pb, 206Pb, 207Pb e 208Pb. Tranne il primo, gli altri possono derivare dal decadimento radioattivo degli elementi uranio e torio; siccome il contenuto di questi due elementi nei minerali è variabile da zona a zona, la proporzione dei quattro isotopi varia di conseguenza. L'analisi dei rapporti isotopici del piombo è oggetto di studi da almeno trenta anni, nel corso dei quali le miniere utilizzate in antichità sono state ampiamente caratterizzate. Quindi è possibile, impiegando diagrammi come quello riportato in figura 228, attribuire la provenienza di un reperto contenente piombo in base alla sua collocazione nello spazio definito dalle varie sorgenti. Nell'esempio illustrato, riguardante le miniere di area mediterranea, ci sono diverse sovrapposizioni ma i siti più importanti di epoca greco-romana (Cipro, l'isola egea di Kynthos e le famose miniere del Laurion in Attica, figura 229) sono ben differenziati. Molti reperti a Cnosso, Micene e persino in Egitto risultano essere stati manufatti da minerali provenienti dal Laurion.

 

5.4.8 - Zinco

Lo zinco (figura 230) è un altro elemento impiegato in lega con il rame, ultimo in ordine di scoperta. Il nome probabilmente deriva dal tedesco zin che significa stagno. Si trova in natura soprattutto come solfuro (blenda o sfalerite, ZnS, figura 231) o carbonato (smithsonite, ZnCO3, figura 232); viene usato come rivestimento per proteggere il ferro nelle zincature.

La lega di rame e zinco è l'ottone: il suo uso potrebbe risalire all'VIII secolo a.C. in Turchia, forse a seguito dell'impiego non intenzionale di minerali di rame contenenti impurezze di zinco. L'ottone era prodotto in gran quantità nel subcontinente indiano a partire dal IV secolo a.C. e appare in area ellenistica circa un secolo dopo. A Roma una lega rame-stagno-zinco chiamata bronzo duro era utilizzata per coniare monete. Successivamente alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente (IV secolo d.C.), la perdita delle fonti di stagno favorì il passaggio dal bronzo all'ottone.

La produzione dell'ottone era ottenuta con un procedimento metallurgico basato sulla volatilità dello zinco che ha punto di fusione 420°C e punto di ebollizione 917°C. Il metodo più antico era la cementazione, nella quale il rame veniva scaldato a 1000°C in presenza di ossido di zinco (ZnO, proveniente dal carbonato o da solfuro di zinco arrostito) e carbone; zinco metallico si formava per l'azione riducente del carbone

ZnO + C ® Zn + CO

lo zinco era in fase vapore e si scioglieva nel rame in percentuale non superiore al 28%; se erano presenti stagno o piombo la percentuale era ancora inferiore. Questo procedimento prendeva il nome di processo di calamina se la materia prima era la smithsonite, detta anche calamina

ZnCO3 ZnO + CO2

ZnO + C ® Zn + CO

Avendo disponibilità di zinco metallico, l'ottone si poteva anche ottenere per fusione diretta di rame e zinco, avendo come risultato un prodotto con percentuale di zinco molto maggiore, benchè sopra il 46% la lega diventi fragile. È questo il caso di manufatti rinvenuti in Pakistan risalenti al IV secolo a.C.; la produzione di zinco metallico nel subcontinente indiano risale ad almeno 2000 anni fa, con procedimenti per l'estrazione che in Europa furono introdotti solo dopo la Rivoluzione Industriale. La produzione nei secoli successivi raggiunse infine il livello ottimale di 34%. La percentuale variabile nel tempo può essere di aiuto nei casi di autenticazione.

 

5.4.9 - Ferro

Il ferro (figura 233) è tra i metalli più importanti nella storia dell'uomo, tanto che la sua introduzione ha marcato un'epoca, la cosidetta Età del Ferro. Il nome deriva dal latino ferrum. Tra gli elementi metallici è il più diffuso; si trova raramente allo stato nativo (nelle meteoriti o in pochi giacimenti sulla Terra) e più spesso sotto forma di minerali, soprattutto la pirite (FeS2, figura 234) e gli ossidi ematite (Fe2O3, figura 235) e magnetite (Fe3O4, figura 236).

La prima sorgente di ferro fu il metallo nativo, presente nelle meteoriti. Questa origine è identificabile in base al contenuto di nickel, che nel ferro meteorico è presente almeno al 4%. Oggetti in ferro meteorico sono databili al III millennio a.C. in area mesopotamica e egiziana. Il ferro cominciò a sostituire il rame nelle leghe a partire dal II millennio a.C., a causa forse della sopravvenuta scarsità dei minerali di rame e stagno oppure a seguito del riconoscimento delle proprietà tecnologiche delle leghe in ferro. La produzione su vasta scala di utensili in ferro è generalmente associata agli Ittiti, un popolo dell'Anatolia. Attorno al XII secolo a.C. comincia la cosidetta Età del Ferro, con la produzione da parte degli Ittiti di una lega a base di ferro e carbonio: l'acciaio. Successivamente la tecnologia del ferro si diffonde in area greco-romana. In Cina l'impiego del ferro ha origine indipendente; curiosamente, nell'America precolombiana questo sviluppo non si ebbe.

La scoperta del processo di estrazione del ferro è probabilmente legata all'estrazione del rame, in quanto in questo procedimento minerali ferrosi erano utilizzati come fondenti. Il punto di fusione del ferro è 1540°C, fuori dalle possibilità delle fornaci dell'Età del Bronzo. Il processo di riduzione dagli ossidi è invece effettivo già a 800°C, secondo la reazione vista in precedenza con altri metalli

Fe2O3 + 3CO ® 2Fe + 3CO2

Il prodotto di questo processo era un materiale spugnoso con percentuali elevate di scorie e carbone non reagito. Mediante ripetuti cicli di forgiatura e martellamento a caldo per eliminare le scorie, gli antichi fabbri ferrai (figura 237) ottenevano un prodotto più puro da usare come sostituto del bronzo, il ferro battuto.

La vera rivoluzione è però l'introduzione dell'acciaio: scaldando il ferro in presenza di carbone ardente si otteneva un prodotto dalle proprietà tecnologiche superiori, che miglioravano ancora se si scaldava in ambiente riducente e poi si raffreddava il risultato in acqua, realizzando la tempra. La miscela risultante era una lega ferro-carbonio allo 0.2-2% di carbonio, il cui ruolo chiave fu riconosciuto solo nel XIX secolo. I vari passaggi della trasformazione del ferro in acciaio temperato sono riconoscibili analizzano i manufatti al microscopio elettronico.

I Cinesi per primi svilupparono l'utilizzo di altoforni per lavorare il minerale ferroso, ricavando un prodotto, la ghisa, avente una percentuale maggiore di carbonio. In Europa gli altoforni sono noti solo dal XII secolo d.C. in Svezia. In Africa il procedimento per l'estrazione di ferro da minerali impiegava combustibile con elevate quantità di fosforo, tali da generare una lega nota come acciaio al fosforo, molto resistente e malleabile. I vari tipi di lega al ferro sono riassunti nella tabella 17.

Tabella 17 - Tipi di materiali ferrosi

Materiale % Carbonio % Fosforo
Ferro battuto <0.1 <0.1
Acciaio 0.2-2 <0.1
Ghisa 2-5 <0.1
Acciaio al fosforo <0.2 0.2-4

Un settore che ricevette grande vantaggio dall'introduzione dell'acciaio fu quello delle armi, in particolare nella manifattura delle spade. La produzione raggiunse forme molto apprezzabili anche sotto l'aspetto artistico. In India si sviluppò a partire dall'anno 1000 d.C. una produzione di acciai molto apprezzata in Europa, Cina e Medio Oriente, tra cui una lega nota come wootz o crucible steel. Questa lega si preparava riscaldando in piccoli crogioli il ferro in presenza di materiale organico, fino a che il carbonio veniva assorbito dal ferro in percentuale pari all'1-2%. In questo modo si otteneva un materiale molto avanzato per l'epoca, avente proprietà di superplasticità ed elevata durezza. Gli artigiani Arabi e Persiani utilizzavano il wootz per produrre spade (figura 238) e altri oggetti damascati (figura 239), così chiamati perchè introdotti in Europa attraverso Damasco.

 

5.4.10 - Oro

L'oro potrebbe essere il metallo più antico utilizzato dall'uomo. Il nome deriva dal latino aurum. Del gruppo dei metalli nobili l'oro è l'elemento principe: esso è solubile solo in una miscela fortemente ossidante composta da acido nitrico e acido cloridrico e chiamata, non a caso, acqua regia. Le caratteristiche tecnologiche dell'oro sono notevoli, in quanto esso è il più duttile e malleabile dei metalli; può essere lavorato per ottenere fogli trasparenti alla luce di spessore pari a 0.01 µm. Si trova principalmente allo stato nativo (figura 240); in depositi primari esso è disperso in filoni di quarzo aurifero da cui può essere estratto per amalgamazione, cioè facendolo reagire con mercurio con il quale forma una lega nota come amalgama, secondo un procedimento già descritto da Vitruvio e Plinio il Vecchio; in depositi secondari alluvionali viene estratto dalle sabbie per levigazione, grazie alla sua elevata densità. L'oro nativo contiene sempre una certa quantità di argento, dal 5 al 50%; sopra il 20% si parla di elettro, che è anche il nome della lega intenzionalmente ottenuta. Per purificare l'oro dall'argento si utilizzava un procedimento noto come parting (separazione), che in antichità prevedeva il riscaldamento del minerale impuro in un crogiolo in presenza di un fondente, sale da cucina e una sostanza acida come l'urina: si sviluppava acido cloridrico o cloro che erano in grado di reagire con l'argento formando AgCl, composto volatile e quindi allontanabile. Nel Medioevo il parting era effettuato con acido nitrico, che scioglie l'argento ma non l'oro.

L'adorazione dell'uomo verso l'oro è scarsamente giustificabile in base alla sua rarità. Nella scala degli elementi più rari, infatti, si trova solo al diciannovesimo posto. Il platino, per esempio, è ugualmente raro ma non ha la stessa attrattiva, e nessuna donna gradirebbe ricevere in regalo un gioiello in polonio (figura 241) che pure è l'elemento naturale più raro sulla terra. Eppure una moltitudine tra re, imperatori, esploratori, pirati e criminali hanno legato il proprio nome a questo metallo. L'intera storia dell'oro è immersa nei miti e nelle leggende, dalla tomba di Tutankhamon all'Eldorado sudamericano alla saga di Giasone e del vello d'oro (figura 242). Rifacendosi a questo mito, il grande storiografo romano Strabone nel I secolo a.C. descrive un antico metodo per estrarre l'oro dai depositi alluvionali dei torrenti, facendo scorrere l'acqua sopra pelli di ariete che trattengono la polvere d'oro nel loro vello. Egli attribuisce l'invenzione di questa tecnica agli abitanti della Colchide, l'attuale Georgia, una regione posta tra il Caucaso, l'Armenia ed il Mar Nero, dove secondo la leggenda trovò asilo il principe Frisso, tratto in salvo proprio da un ariete d'oro, dono degli dei al padre degenere Atamante, e da lui sacrificato in onore del re Eeta che gli aveva dato asilo. Il mito di Giasone e degli Argonauti si riallaccia a questa leggenda: Giasone dopo mille peripezie insieme al suo drappello di Argonauti, sopra la nave Argo, costruita dal figlio di Frisso, giunge nella Colchide dove trova il vello d'oro dell'ariete sacrificato, e riesce ad impossessarsene superando altre mille difficoltà. Per quanto riguarda la tomba di Tutankhamon, scoperta nel 1922 da Howard Carter, basta citare il fatto che in essa era presente oro in quantità doppia rispetto a quella in possesso della Royal Bank of Egypt a quell'epoca, e questa quantità costituiva naturalmente una frazione della ricchezza aurifera dell'antico Egitto.

L'origine della tecnologia dell'oro dovrebbe essere sita nell'area del Medio Oriente (Iran, Iraq, Anatolia) attorno al III millennio a.C., come testimoniato da ricchissimi ritrovamenti nella città sumera di Ur. Un'altra regione di grande sviluppo della lavorazione è sicuramente l'Egitto. La malleabilità dell'oro era utilizzata in antichità per applicare lamine sottili di oro su oggetti ornamentali, in modo da impartire loro un aspetto più pregiato utilizzando quantità limitate di metallo nobile. Già attorno al 2000 a.C. gli artigiani Egiziani erano in grado di produrre lamine d'oro dello spessore di 1 µm. Le lamine erano applicate sulla superficie da dorare riscaldando il manufatto, in modo da legare le due fasi per diffusione allo stato solido, oppure utilizzando leganti organici. Un'altra tecnica era l'amalgamazione, che impiegava ovviamente mercurio a far da ponte chimico tra l'oro e la superficie da dorare; il mercurio era allontanato per riscaldamento. Altre due tecniche di doratura erano la granulazione e la filigrana, simili nell'approccio: nella granulazione si utilizzavano piccolissime sfere di oro per coprire la superficie, secondo un metodo sviluppato dai Sumeri già nel II millennio a.C.; nella filigrana si usavano invece sottili fili d'oro. In entrambi i casi, la saldatura del materiale d'oro alla superficie era ottenuta con una colla organica contenente un sale di rame: dopo cottura a circa 900°C, la colla bruciava rilasciando monossido di carbonio che riduceva il rame allo stato elementare, il quale agiva da legante tra l'oro e la superficie, secondo le reazioni

CmHnOo CO + H2O

CuO + CO ® Cu + CO2

Cu + Au ® CuAu (lega)

Queste tecniche, molto sviluppate in Medio Oriente, furono poi abbandonate in epoca romana imperiale.

Anche nelle civiltà precolombiane la lavorazione dell'oro era di grande livello tecnologico e artistico, soprattutto in Perù e Colombia da parte dei popoli Moche, Chimù e Inca (figura 243). Le tecniche sviluppate erano diverse da quelle del mondo eurasiatico. Si utilizzava ad esempio un metodo di elettrodeposizione, basato sull'immersione di un oggetto in rame in una soluzione di cloruro di oro, che provocava una reazione di ossidoriduzione tra rame e oro; essendo l'oro più elettronattrattore del rame, la reazione che avveniva era:

2AuCl3 + 3Cu ® 2Au + 3CuCl2

Altri metodi utilizzavano una lega di oro, argento e rame nota come tumbaga, spesso impiegata in oggetti dorati ma di valore inferiore avendo percentuali elevate degli altri due metalli. Questa lega poteva essere arricchita in oro sfruttando la diversa reattività dei tre metalli: riscaldando in atmosfera ossidante si formavano gli ossidi di rame e argento, eliminabili per decappaggio con sostanze acide, ma non l'ossido di oro.

 

5.4.11 - Argento

L'argento era in antichità meno comune dell'oro. Il nome deriva dal latino argentum. Esso si trova in piccole quantità allo stato nativo (figura 244), puro o associato all'oro, e più spesso sotto forma di solfuro (argentite, Ag2S) associato a minerali di piombo o altri elementi; le miniere di piombo, come quelle del Laurion in Attica, ne costituivano in antichità la sorgente primaria. Tra tutti gli elementi è il miglior conduttore di elettricità.

La scarsità dell'argento allo stato nativo ha reso necessario lo sviluppo di una tecnologia metallurgica più sofisticata rispetto a quella richiesta per l'oro. L'uso primitivo dell'argento potrebbe risalire al V millennio a.C. in Iran e Anatolia. Esso si estraeva associato alla galena (PbS) o alla pirite (FeS2) con un processo in tre stadi: dapprima il minerale solfidrico era arrostito

2PbS + 3O2 ® 2PbO + 2SO2

2Ag2S + 3O2 ® 2Ag2O + 2SO2

poi gli ossidi erano ridotti con carbone, generando argento e piombo metallici

2PbO + CO ® 2Pb + CO2

Ag2O + CO ® 2Ag + CO2

Infine, con un procedimento noto come coppellazione, l'argento era separato dal piombo scaldando la miscela in un contenitore ceramico o in cenere d'ossa chiamato coppella, in corrente d'aria e quindi in ambiente ossidante; si formava ossido di piombo (PbO, il famoso litargirio o pietra d'argento) che veniva assorbito dal contenitore, mentre l'argento restava in forma non combinata. La coppellazione risale al IV millennio a.C.; l'argento prodotto con questo metodo è facilmente riconoscibile per la presenza di impurezze di piombo in quantità superiore rispetto all'argento nativo o rispetto all'argento estratto dall'oro.

Tra le produzioni antiche, di particolare pregio artistico sono quelle dei Sassanidi in Iran tra il II e il VI secolo d.C. (figura 245). Essi utilizzavano le tecniche di amalgamazione e doratura con filigrana o granulazione. Un'altra produzione importante era quella del niello (dal latino nigellum opus che significa lavoro nero), comune alla lavorazione dell'argento e dell'oro. In questa tecnica, comune nell'antica Roma e descritta in dettaglio da Plinio il Vecchio, una sostanza nera era applicata nelle cavità della superficie incisa di un manufatto in metallo nobile. Le sostanze utilizzate potevano essere solfuri di argento e rame prodotti miscelando argento, rame e zolfo in presenza di cera; per riscaldamento, la cera fondeva facendo aderire le sostanze nere alla superficie, creando così un'affascinante decorazione scura (figura 246).

 

5.4.12 - Altri metalli

Il mercurio (figura 247) è un metallo dalle proprietà uniche, essendo liquido a temperatura ambiente. Il nome deriva dal pianeta, ma il simbolo chimico, Hg, deriva dalla parola hydrargyrium, cioè argento vivo. Si trova soprattutto come solfuro (cinabro, HgS, figura 248). L'uomo lo utilizzava già nel II millennio a.C., estraendolo facilmente dal cinabro e impiegandolo per amalgamare oro e argento allo scopo di fissarli su superfici o di estrarli da minerali.

L'antimonio (figura 249) era noto agli antichi in quanto ricavato dal minerale stibnite (Sb2S3, figura 250) che gli Egizi usavano come cosmetico per ombreggiare gli occhi; il suo simbolo, Sb, deriva infatti dal latino stibium o segno. Il nome invece deriverebbe dal sanscrito. Un vaso di provenienza caldea risalente al IV millennio a.C. è costituito prevalentemente di antimonio. I Greci e i Romani lo utilizzavano, ma probabilmente non erano in grado di distinguerlo dal piombo che ha caratteristiche di durezza e colore analoghe.

Il platino (figura 251) è un elemento raro quanto l'oro e come l'oro è anche esso definito metallo nobile, ma stranamente non ha avuto nella storia dell'uomo la stessa fama. Il nome deriva dal latino platina o lamella d'argento, in quanto lo si confondeva con questo metallo. Si trova allo stato nativo o come arseniuro (sperrylite, PtAs2). Era ricavato in Sudamerica, probabilmente da sabbie alluvionali; in Europa fu conosciuto soltanto a partire dal XVIII secolo.

 

5.4.13 - Altri elementi

Oltre agli elementi metallici citati, in antichità erano noti anche altri elementi semimetallici, utilizzati con varie funzioni, tra cui lo zolfo (S, figura 252), e l'arsenico (As, figura 253) il cui nome deriva dal greco arsenikos o maschio, utilizzato spesso in leghe. Sicuramente utilizzato era poi il carbonio sotto forma di carbone o di diamante (figura 254).

 

5.4.14 - Le monete

Tra gli usi più comuni dei metalli c'è senza dubbio l'impiego nella coniatura delle monete. Infatti dopo i frammenti ceramici le monete sono i reperti più comuni negli scavi archeologici. Le prime monete furono create in Lidia nel VII secolo a.C. ed erano composte da una lega naturale di oro e argento proveniente dalla Turchia Occidentale. In seguito, sotto il regno di Creso, il perfezionamento delle tecniche di separazione e raffinamento permise di coniare monete in oro puro e argento puro.

Le monete erano coniate generalmente in oro (figura 255, stater greca del IV secolo a.C.), argento (figura 256, tetradracma greca del III secolo a.C.) o in leghe (figura 257, didracma cartaginese in elettro del IV secolo a.C., e 258, sesterzio romano in bronzo del I secolo d.C.).

L'analisi chimica delle monete fornisce informazioni preziose sulla storia dei metalli utilizzati e sull'economia delle epoche corrispondenti. In particolare è possibile verificare i processi di debasement, un fenomeno ricorrente in tutta la storia dell'uomo e consistente nell'uso crescente di metalli meno nobili nella coniatura: monete che inizialmente erano fabbricate in oro o in argento più o meno puri, venivano nel tempo impoverite di metallo nobile a favore di rame, piombo o zinco, per motivi legati all'economia del periodo di conio. Questo fenomeno può essere messo in rilievo analizzando serie storiche di monete dello stesso popolo. L'esempio più eclatante di debasement è quello associato al declino dell'Impero Romano: come si può notare dal grafico riportato nella figura 259, la percentuale di argento nelle monete dell'Impero crollò tra il I e il III secolo d.C. salvo risalire brevemente sotto l'effetto di una riforma attuata da Diocleziano nel 301 d.C.; è evidente il parallelismo tra il debasement della moneta in argento e la declinante economia dell'Impero alle prese con le invasioni barbariche. Un altro esempio interessante è relativo a monete in oro coniate nella Penisola Iberica durante il periodo della dominazione musulmana e chiamate dinari (figura 260): il basso contenuto di oro riflette la cattiva situazione economica sotto la dinastia dei Taifa, mentre il successivo rialzo è legato al ristabilimento di un forte potere centrale sotto gli Almoravidi.

Oltre alle informazioni economiche, l'analisi delle monete dà indicazioni sulle tecniche di raffinamento dei metalli impiegati per il conio. Nella figura 261 è mostrato il livello di impurezza di oro in monete Sassanidi in argento note come dracme. Il livello è circa 0.5-1.0 % fino al 550 d.C.; successivamente, il miglioramento delle tecniche di raffinazione dell'argento porta il livello di oro a valori spesso inferiori. Monete false e risalenti al XIX-XX secolo (pallini bianchi nella figura) risultano avere un livello di impurezza troppo basso per l'epoca a loro attribuita.

 

5.5 - I materiali coloranti

5.5.1 - La luce

Non si può parlare di colori senza parlare prima di luce, la madre di tutti i colori, il personaggio più importante in qualsiasi rappresentazione artistica. Come detto nel capitolo 3, la luce ha natura ondulatoria e corpuscolare. Relativamente alla prima definizione essa è caratterizzata dalla lunghezza d'onda l, pari alla distanza tra due cicli oppure dalla frequenza n, equivalente al numero di cicli nell'unità di tempo ed inversamente proporzionale alla lunghezza d'onda; relativamente alla seconda definizione, la luce è formata da pacchetti di energia luminosa, i fotoni, aventi energia proporzionale alla frequenza in ragione della legge di Planck E = hn

 

5.5.2 - Lo spettro elettromagnetico

Lo spettro elettromagnetico (figura 103) comprende l'intera gamma delle lunghezze d'onda esistenti in natura, dalle onde radio, lunghissime e poco energetiche, ai raggi cosmici, cortissimi e dotati di straordinaria energia. Fenomeni fisici apparentemente diversissimi, come le onde radio che trasportano suoni e voci nell'etere e i raggi X che impressionano le lastre radiografiche, appartengono in realtà alla medesima dimensione, quella delle onde elettromagnetiche.

All'interno dello spettro elettromagnetico, solo una piccolissima porzione appartiene al cosiddetto spettro visibile, l'insieme delle lunghezze d'onda a cui l'occhio umano è sensibile e che sono alla base della percezione dei colori. Esso si situa tra i 380 e i 780 nanometri.

 

5.5.3 - Luce bianca e colorata

La luce visibile, cioè la radiazione compresa tra 380 e 780 nm, è definita globalmente luce bianca: essa è la somma delle componenti colorate, dal violetto al rosso passando per il blu, il verde, il giallo, ecc., corrispondenti alle lunghezze d'onda comprese nell'intervallo suddetto. Queste componenti possono essere evidenziate quando un raggio di luce passa attraverso un prisma (figura 104), un oggetto capace di rallentarle in maniera differente; lo stesso effetto si ha nell'arcobaleno, quando la luce bianca passa attraverso le goccioline d'acqua di cui è satura l'aria dopo un temporale.

 

5.5.4 - L'origine del colore

Perchè le cose sono colorate? Ci sono fondamentalmente tre cause che, in innumerevoli varianti, rendono il mondo colorato. La luce può essere:

  1. CREATA come nel bagliore giallo di una candela (figura 105). La luce visibile si può creare attraverso l'energia elettrica (es. lampadina), l'energia chimica (es. combustione) o l'energia termica (es. vulcano in eruzione)

  2. PERSA o ASSORBITA come attraverso un vetro colorato (figura 106). Alcuni colori risultano da porzioni dello spettro visibile che si perdono o vengono assorbite. Se vediamo un colore su un oggetto, c'è una molecola in grado di assorbire parte dello spettro visibile

  3. MODIFICATA come nel cielo al tramonto o in un prisma (figura 107). Molti esempi di colore naturale derivano dalle proprietà ottiche della luce e dalle sue modificazioni attraverso processi come diffusione, rifrazione, diffrazione, interferenza, ecc.

 

5.5.5 - Definizione di colore

Il colore è una sensazione prodotta sul cervello, tramite l'occhio, da un corpo opaco colpito dalla luce o in grado di emettere luce. Due situazioni sono definibili in maniera semplice: il bianco e il nero. Un corpo che riflette completamente la luce bianca appare bianco, mentre un corpo che assorbe completamente la luce bianca appare nero. Appaiono colorati i corpi che riflettono o producono un particolare e limitato intervallo di lunghezze d'onda. Per quanto riguarda i materiali coloranti, il meccanismo prevalente è quello dell'assorbimento di luce ed emissione di luce riflessa.

Per poter valutare e descrivere in termini oggettivi i colori che l'occhio umano riesce a distinguere, esistono sistemi di carte del colore il più importante dei quali è descritto nel Munsell Book of Color. Questi sistemi definiscono ogni colore in base a:

  • la tinta, che indica i colori base, ovvero le lunghezze d'onda dell'intervallo visibile

  • la chiarezza, che indica la quantità di bianco e nero presente nel colore

  • la saturazione, che indica la quantità di tinta presente in un dato colore in rapporto al bianco, al nero o al grigio stabilito dal valore di chiarezza

Tutte le variazioni (circa quattromila) che l'occhio umano è in grado di registrare sono classificabili in termini di queste variabili. Esiste poi la cosidetta ruota dei colori (figura 108) dove, a partire dai quattro colori fondamentali blu, rosso, verde e giallo, è possibile valutare le tinte che si generano dalla variazione continua tra un colore e l'altro.

 

5.5.6 - Produzione di colore

Il meccanismo prevalente di produzione del colore da un oggetto è quello dell'assorbimento parziale di luce bianca ed emissione di luce riflessa. I colori corrispondenti alla lunghezza d'onda assorbita e a quella riflessa sono detti complementari (figura 109). Per esempio, un oggetto che sia in grado di assorbire la radiazione a 400-440 nm (luce violetta) apparirà giallo-verde; un oggetto che assorba nel range 600-700 nm (luce rossa) appare di colore blu-verde. Fa eccezione il grigio che, nelle sue varie tonalità, non è un vero colore essendo una miscela di bianco e nero.

Un particolare colore può essere ottenuto (a parte la possibilità di emettere luce propria) miscelando colori puri. Per esempio, è possibile generare il colore rosa in tre modi:

  • diluendo luce arancio (~620 nm) con luce bianca

  • miscelando luce rossa (~700 nm) e ciano (~490 nm)

  • miscelando luce rossa (~700 nm), verde (~520 nm) e violetta (~420 nm)

L'artista è interessato principalmente alla luce riflessa; Il chimico analitico, invece, deve concentrarsi soprattutto sulla luce assorbita per poter individuare correttamente le sostanze responsabili della colorazione evidente a livello macroscopico.

 

5.5.7 - Percezione del colore

Il colore che si percepisce macroscopicamente può essere in realtà generato da sostanze che, a livello microscopico, sono colorate in maniera molto differente. Nella figura 110, tratta da un testo tedesco del XVI secolo, il contorno della lettera R appare grigia. L'ingrandimento al microscopio (100x), riportato nella figura 111, mostra invece che il colore grigio è ottenuto con sostanze di colore diverso. L'artista ha ottenuto la tinta desiderata miscelando la bellezza di non meno di sette colori diversi.

 

5.5.8 - Il colore nella storia dell'uomo

Il colore ha sempre giocato un ruolo importante nelle civiltà antiche ed è una testimonianza tangibile dell'arte e della psicologia di quei popoli. Dall'inizio della propria storia l'uomo ha cercato di utilizzare il colore per tutte le sue espressioni, attingendo a piene mani dal mondo minerale, da quello vegetale e da quello animale per produrre pigmenti e coloranti a seconda delle risorse disponibili. In tutte le religioni maggiori l'uso del colore ha sempre avuto un fortissimo significato simbolico. Ancora oggi, il colore ci orienta nella scelta del cibo e dell'ambiente in cui vivere.

Lo studio dell'uso del colore nel corso della storia dell'uomo ci consente di constatare quanto profonda fosse la conoscenza dell'ambiente in cui l'uomo viveva: una conoscenza sperimentale di piante, animali e rocce incredibilmente profonda ed estesa. Alcune scoperte e alcune sintesi nel campo della chimica delle sostanze coloranti, operate da popoli antichi, ci appaiono stupefacenti nella loro genialità, pur con soluzioni che possono sembrare oggi curiose.

Gli usi principali del colore sono stati:

  • nelle opere d'arte (affreschi, pitture)

  • nella decorazione degli oggetti preziosi (statuette, monili)

  • nella decorazione degli oggetti domestici

  • nella tintura dei tessuti (vesti, paramenti)

  • nella tintura del corpo (per rituali, per impressionare i nemici)

 

5.5.9 - Tipi di materiali coloranti

I materiali utilizzati per impartire il colore ad un oggetto sono classificabili in:

  • Pigmenti, sostanze generalmente inorganiche (minerali o rocce) aventi proprietà coprenti, insolubili nel mezzo disperdente col quale formano un impasto più o meno denso. Sono dotati di colore e di corpo; impartiscono il proprio colore aderendo mediante un legante alla superficie del mezzo che si desidera colorare. Sono generalmente stabili agli agenti atmosferici e alla luce (lightfastness in inglese), tranne alcuni composti a base di piombo. Vengono utilizzati soprattutto nell'arte pittorica

  • Coloranti, sostanze generalmente organiche trasparenti, solubili nel mezzo disperdente. Sono dotati di colore ma non di corpo; impartiscono il proprio colore per inclusione, assorbimento o legame chimico con il mezzo che si desidera colorare. Sono meno stabili dei pigmenti, in particolare se utilizzati nei manoscritti e nei quadri. Vengono utilizzati soprattutto per la tintura dei tessuti, es. Indaco, Porpora di Tiro

  • Lacche, coloranti solubili in acqua, intrappolati in un substrato solido come calcare o argilla, precipitati e successivamente polverizzati, da utilizzare analogamente ai pigmenti, es. Robbia, Cocciniglia

  • Mordenti, che non sono materiali coloranti ma composti intermediari utilizzati per fissare chimicamente i coloranti al substrato, generalmente costituiti da sali metallici che possono conferire colori diversi a seconda del metallo

 

5.5.10 - Tecniche pittoriche

Tutte le tecniche pittoriche prevedono l'applicazione del colore ad un superficie. Per fare ciò, è necessario miscelare la sostanza colorante in un opportuno mezzo. La scelta del metodo di applicazione e del mezzo disperdente hanno caratteristiche importanti sul prodotto finito, in quanto ciascuna ha i propri limiti e potenzialità.

Le tecniche principali sono le seguenti:

1) Tecniche su parete

  • Mosaico: si utilizzano tasselli di pietra, vetro colorato, ceramica o altro applicati su un pavimento o su un muro (esempio in figura 112)

  • Affresco: il pigmento si stende sull'intonaco ancora fresco e viene ingabbiato dal calcare che si forma per reazione della calce con l'anidride carbonica (esempio in figura 113)

  • Fresco secco: il pigmento si stende sull'intonaco secco appena bagnato e aderisce semplicemente alla parete (esempio in figura 114)

Data la particolare importanza della tecnica dell'affresco, è necessario spendere qualche parola in più. In questa tecnica, che pare sia stata inventata durante la civiltà minoica, i pigmenti sono dispersi (non disciolti) in acqua e poi applicati all'intonaco, composto da calce viva. Man mano che la parete si asciuga, l'idrossido di calcio dell'intonaco si combina con l'anidride carbonica presente nell'atmosfera, formando così carbonato di calcio secondo la reazione:

CaO + CO2 ® CaCO3

In questo modo si forma sulla superficie uno strato fine, trasparente e vitreo che intrappola i pigmenti, mantenendoli protetti per molto tempo. L'affresco tende anzi a migliorare col tempo, in quanto l'effetto protettivo del calcare diventa più pronunciato.

La tecnica dell'affresco è piuttosto difficile; i colori vanno stesi rapidamente, prima che la calce secchi, e senza commettere errori che non si possono poi correggere. Per questo i maestri affrescatori usavano disegnare i soggetti su cartone, le famose sinopie, e dividere il lavoro in sezioni definite giornate.

Il range di colori utilizzabili è ristretto a quelli che possono resistere all'azione caustica della calce viva, un composto fortemente basico. Tra quelli utilizzati in antichità, si possono citare i neri a base carboniosa, le ocre rosse e gialle, le terre verdi, marroni e d'ombra, il bianco di San Giovanni e lo smalto. Altri colori possono essere usati a secco, ma sono poco durevoli: tra di essi venivano utilizzati il blu oltremare, l'azzurite, la malachite.

2) Tecniche su tavola o tela

  • Encausto: i pigmenti sono stesi per mezzo di cera d'api e miscelati con oli essenziali, applicati su legno e riscaldati con una fiamma per ammorbidire il tutto e rendere stabili i colori; è il procedimento più diffuso nell'antichità fino al VIII-IX secolo d.C., quando viene abbandonato (esempio in figura 115)

  • Tempera a uovo: miscelazione del pigmento con rosso d'uovo (a volte anche con bianco) e diluizione con acqua; usato fino al XV secolo (esempio in figura 116)

  • Tempera a olio: diluizione del pigmento con oli essenziali (trementina, olio di lino) e applicazione sul supporto, sul quale viene poi stesa una vernice protettiva incolore; gli oli devono avere la proprietà di polimerizzare per stabilizzare i colori, creando una rete protettiva; usata a partire dal XV secolo (esempio in figura 117)

  • Tempera ad acqua: nota come acquerello, consiste nella diluizione del pigmento e di un legante con acqua e applicazione, di solito su carta; usato in Europa dal XVI secolo, ma in Cina e Giappone da molto prima (esempio in figura 118)

  • Colori acrilici: composti sintetici sviluppati nel XX secolo e utilizzati nell'arte moderna e contemporanea (esempio in figura 119)

 

5.5.11 - Lista dei materiali coloranti noti

Nel corso della storia dell'arte sono stati utilizzati numerosissimi pigmenti e coloranti, sia di origine naturale sia di origine sintetica. Per ciascuno di essi è noto a grandi linee il periodo di impiego, cosa che in molti casi rende possibile autenticare un reperto pittorico in base alle sostanze individuate. Nelle tabelle 10 e 11 sono riportati i materiali coloranti utilizzati prima e dopo il 1400.

Tabella 10 - Lista dei pigmenti ante 1400
Pigmento Fine utilizzo   Pigmento

Fine utilizzo

Asfalto, idrocarburi     Terre Ferrose, Fe2O3·xH2O  
Azzurrite, 2CuCO3·Cu(OH)2 1825   Giallo Piombo-Stagno 1750
Azzurrite + Giallo Piombo o Giallo Stagno 1825   Bianco Piombo, 2PbCO3·Pb(OH)2  
Azzurrite + Giallo Ocra 1825   Litargirio, PbO  
Bitume, idrocarburi     Robbia, 1,2-diidrossiantrachinone·Al(OH)3  
Blu verditer, 2CuCO3·Cu(OH)2     Malachite, CuCO3·Cu(OH)2 1825
Bianco osso, Ca3(PO4)2     Massicot, PbO  
Nero osso, Ca3(PO4)2     Minio (Rosso Piombo), Pb3O4  
Nerofumo, carbone     Oro Mosaico, SnS2  
Calcite, CaCO3 (dal terreno)     Orpimento, As2S3  
Carbone di legna, carbone     Realgar, As2S2  
Cinabro (Vermiglio), HgS     Rosso Piombo, Pb3O4  
Rame resinato, sali di Cu in balsamo     Zafferano  
Blu Egiziano, CaCuSi4O10     Terra Verde, silicati di Fe, Mg, Al e K  
Gamboge, resina gommosa     Ultramarino (naturale), silicato di Na, S e Al 1900
Terra Verde, silicato di Fe, Mg, Al e K     Verdigris, Cu(C2H3O2)2·Cu(OH)2  
Gesso, CaSO4·2H2O     Vermiglio (Cinabro), HgS  
Indaco, C16H10N2O2 1860      

 

Tabella 11 - Lista dei pigmenti post 1400
Inizio utilizzo Pigmento Fine utilizzo   Inizio utilizzo Pigmento
1400 Terre d'ombra     1842 Vermiglio Antimonio, Sb2S3
1500 Bianco Bismuto     1847 Giallo Zinco, ZnCrO4
1549 Cocciniglia, colorante organico con mordente     1850 Blu di Prussia + Giallo Cadmio, vedi formule
1550 Smalto, vetro a base di silicato di Co e K 1625   1850 Blu Cobalto + Giallo Napoli, vedi formule
1565 Grafite     1850 Blu Cobalto + Giallo Cadmio, vedi formule
1600 Marrone Van Dike, carbone     1850 Giallo Cobalto, CoK3(NO2)6·H2O
1610 Giallo Napoli, Pb3(SbO4)2     1850 Ossidi di Ferro
1700 Blu di Prussia, Fe4(Fe(CN)6)3     1854 Verde Ultramarino
1700 Blu di Prussia + Giallo Ocra (Fe2O3·xH2O)     1856 Carbone-Pece (Malva)
1778 Verde Scheele, CuHAsO3     1861 Violetto Cobalto, Co3(AsO4)2
1781 Giallo Turner, PbOCl2     1862 Cromo Ossido, Cr2O3
1788 Verde Smeraldo, Cu(C2H3O2)2·3Cu(AsO2)2     1864 Nerofumo
1800 Bario Solfato, BaSO4     1868 Alizarina (sintetica), 1,2-didrossiantrachinone
1800 Giallo Cromo, PbCrO4     1871 Nero Manganese, MnO
1800 Rosso Cromo, PbCrO4·Pb(OH)2     1874 Litofono, ZnS + BaSO4
1800 Giallo Indiano, Ca o Mg euxantato     1886 Polvere di Alluminio, Al
1800 Verde Cromo (Blu di Prussia + Giallo Cromo)     1890 Violetto Manganese, Mn(NH4)2(P2O7)2
1802 Blu Cobalto, CoO·Al2O3 vetroso     1900 Bario Solfato, BaSO4
1805 Blu Ceruleo, CoO·nSnO2     1910 Rosso Cadmio, Cd(S, Se)4
1809 Bario Cromato, BaCrO4     1916 Bianco Titanio, TiO2
1810 Calcio Carbonato, CaCO3     1920 Bianco Antimonio, Sb2O3
1817 Giallo Cadmio, CdS     1926 Rosso Cadmio, CdS + BaSO4
1824 Ultramarino (sintetico), silicato di Na, S e Al     1927 Giallo Cadmio, CdS + BaSO4
1825 Rosso Cromo, PbCrO4·Pb(OH)2     1930 Arancio Molibdeno, 7PbCrO4·2PbSO4·PbMoO4
1825 Viridiana, Cr2O3·2H2O     1935 Blu Manganese, Ba(MnO4)2·BaSO4
1826 Alizarina (naturale), 1,2-diidrossiantrachinone     1935 Blu Ftalocianina, Cu ftalocianina
1825 Bianco Zinco, ZnO     1938 Verde Ftalocianina, Cu ftalocianina clorinata
1836 Giallo Stronzio, SrCrO4     1950 Blu Manganese, Ba(MnO4)2 + BaSO4
1834 Verde Cobalto, CoO·xZnO     1956 Arancio Mercadiano
1840 Bario Solfato, BaSO4        

 

5.5.12 - Interesse allo studio dei materiali coloranti

Ci sono diversi motivi per cui è importante studiare e riconoscere le sostanze coloranti su un reperto pittorico:

  • Caratterizzazione

    • caratterizzazione della tavolozza di un artista, cioè delle sostanze utilizzate per la pittura

    • capacità tecnologiche e tenore di vita di una civiltà

  • Conservazione

    • studio degli effetti degli agenti atmosferici su pigmenti, leganti e vernici

  • Restauro

    • ripristino di aree rovinate con tinte il più possibile simili

  • Datazione e autenticazione

    • in base alla collocazione temporale dei pigmenti identificati

 

5.5.13 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali coloranti

I materiali coloranti possono essere analizzati con molte tecniche analitiche. Le tecniche più idonee sono quelle di spettroscopia molecolare (Raman, IR, XRD) perchè consentono di identificare in maniera definitiva il composto responsabile del colore: per esempio, quasi tutti i pigmenti e i coloranti mostrano uno spettro Raman caratteristico e riconoscibile.

Le tecniche spettroscopiche elementari (XRF, PIXE, SEM), invece, arrivano all'identificazione mediante la determinazione di uno o più elementi-chiave, benchè in alcuni casi non diano risposte definitive. La tabella 12 elenca alcuni pigmenti e coloranti identificabili con la spettroscopia XRF.

Tabella 12 - Lista di pigmenti e coloranti identificabili con XRF

Elementi chiave Colore Pigmento Composizione
Arsenico Giallo Orpimento As2S3
Bromo Porpora Porpora di Tiro C16H8Br2N2O2
Cadmio Giallo Giallo di Cadmio CdS
Cobalto Blu Smaltino Silicato di cobalto e potassio
Ferro Giallo, bruno, rosso, verde Terre, Ocre Miscele di ossidi di ferro e silicati
Manganese Marrone scuro Bruno di Manganese MnO2
Mercurio Rosso Cinabro HgS
Piombo Bianco Bianco Piombo 2PbCO3·Pb(OH)2
Rosso Rosso Piombo Pb3O4
Rame Blu Azzurrite 2CuCO3·Cu(OH)2
Verde Malachite CuCO3·Cu(OH)2
Titanio Bianco Bianco Titanio TiO2
       
Antimonio + Piombo Giallo Giallo Napoli Pb3(SbO4)2
Calcio + Rame Blu Blu Egiziano CaCuSi4O10
Cromo + Piombo Giallo Giallo Cromo PbCrO4
Rosso Rosso Cromo PbCrO4·Pb(OH)2

Le tecniche cromatografiche sono spesso impiegate nella determinazione di coloranti oltre che di leganti (per i quali è adatta la tecnica GC-MS), raramente per i pigmenti. Le tecniche di analisi isotopica, infine, sono utilizzabili per identificare l'origine dei pigmenti contenenti piombo.

Sono particolarmente utili le tecniche che permettono l'analisi in situ senza prelievo, come le spettroscopie Raman e XRF.

 

5.5.14 - I colori della preistoria

Il primo uso culturale del colore potrebbe risalire a mezzo milione di anni fa: la decorazione del corpo. I popoli di Neanderthal e di Cro-Magnon usarono l'ocra rossa per riti funebri o di fertilità. Probabilmente questo composto rappresentava il sangue e quindi l'inizio e la fine della vita. Il componente base dell'ocra rossa, l'ematite (Fe2O3, figura 128), sorgente di molti pigmenti a base di ossido ferrico, deve il suo nome alla parola greca hema che significa appunto sangue.

In ogni civiltà l'inizio dell'uso del colore è basato sui quattro colori primitivi:

  • il rosso, ottenuto dalle ocre (ossidi di ferro con impurezze argillose). Gli uomini preistorici scoprirono che il colore ottenuto con le ocre rosse era molto stabile; per questo motivo, si stima che i pigmenti rossi fossero oggetto di commerci. In ogni località in cui furono scoperti siti preistorici, è possibile tracciare rotte commerciali verso depositi di ematite

  • il nero, ottenuto da minerali trovati nelle grotte come ossido di manganese (MnO2), dalla fuliggine e da legna combusta

  • il giallo, ottenuto anche esso da ocre a base di ferro

  • il bianco, ottenuto dal gesso, dalle crete e dalle argille

Miscelando l'ocra rossa e un nero si otteneva anche il marrone. Solo successivamente sono stati introdotti i verdi, i blu, i porpora. Occasionalmente sono state notate tinte rosso-violetto e malva, ma si tratta di prodotti di degradazione.

I primi dipinti conosciuti sono quelli rinvenuti nelle caverne. Le popolazioni preistoriche ne decoravano le pareti con pigmenti mescolati a leganti preparati a partire dalle materie prime disponibili. I pigmenti aderivano alla parete in parte rimanendo intrappolati alla porosità della superficie, in parte perchè il legante, seccando, ne permetteva l'adesione. Leganti utilizzati potevano essere acqua, oli o succhi vegetali, saliva, urina, grassi animali, midollo osseo, sangue e albume.

Pur essendo limitato il numero di colori espressi, è invece notevole il numero di composti utilizzati per esprimere questi colori. Alcuni studiosi francesi, analizzando i dipinti rupestri della sola regione francese, hanno identificato sulle superfici non meno di quindici tipi di pigmenti, tra i quali numerose varianti di ocre. Queste ultime sono composte prevalentemente di ossidi di ferro anidri o idrati (idrossidi e ossiidrossidi aventi formula generica FenOmHo); tra questi composti si possono citare l'ematite (Fe2O3) e la magnetite (Fe3O4) tra gli ossidi anidri e la goetite (FeO2H) e la limonite (2Fe2O3·3H2O) tra gli ossidi idrati. Altre varianti si hanno tra gli ossidi di manganese (MnmOn).

In definitiva, si può dire che i pigmenti a base di ossido di ferro costituivano la tavolozza di base degli artigiani preistorici, in Europa come nelle altre civiltà, dall'Egitto all'India alla Cina.

Le espressioni artistiche più elevate nella Preistoria sono collocabili presso le grotte di Lascaux (Francia) e Altamira (Spagna).

5.5.14.1 - Lascaux

Situate nelle regione della Dordogna (Francia sudoccidentale, figura 129), le grotte di Lascaux sono probabilmente le più importanti al mondo insieme a quelle di Altamira in Spagna per quanto riguarda le pitture murali. Le pitture (figura 130) risalgono ad un periodo compreso tra 30.000 e 10.000 anni fa. Per il valore artistico e simbolico delle opere rinvenute all'interno, queste grotte sono state definite la Cappella Sistina della Preistoria.

Per preservare l'enorme valore delle pitture, negli anni 60 fu deciso di vietare l'accesso dei turisti alle grotte e di crearne una copia esatta in un sito vicino, riproducendo con perfezione le opere murali.

Per quanto riguarda i leganti utilizzati a Lascaux, è stato dimostrato che l'acqua delle caverne, ricca di calcare, agiva da legante precipitando calcite sulle pareti; i cristalli di questo minerale imprigionavano gli ossidi di ferro e manganese (colori rossi e neri) garantendone una buona conservazione nel corso dei millenni.

5.5.14.2 - Altamira

Il titolo di Cappella Sistina della Preistoria è rivendicato anche dalle grotte di Altamira, site nella regione Cantabrica (Spagna del Nord). I dipinti che si trovano nelle varie sale (figura 131), sono espressione di un'arte molto raffinata. Si pensa che i pigmenti siano stati apposti con una cannuccia cava, il primo pennello della storia dell'arte.

 

5.5.15 - Le civiltà del Mediterraneo

Il sorgere di civiltà nell'area mediterranea (Egitto, Creta, Mesopotamia e in seguito Grecia e Roma) creò le basi per la scoperta di tutti gli altri colori e di tinte più brillanti rispetto alle ocre.

Così dal mondo minerale arrivarono nuovi pigmenti gialli (Orpimento - As2S3, Realgar - AsS), nuovi rossi (Cinabro - HgS, Rosso Piombo - Pb3O4), nuovi bianchi (Bianco di Calce - CaCO3, Gesso - CaSO4·2H2O, Bianco Piombo - 2PbCO3·Pb(OH)2), nuovi neri (Galena - PbS), i verdi (Malachite - CuCO3·Cu(OH)2), i blu (Blu Oltremare - Na8-10Al6Si6O24S2-4, Blu Egiziano - CaCuSi4O10, Azzurrite - 2CuCO3·Cu(OH)2). Tra i pigmenti antichi, sicuramente tra i più nobili sono da considerarsi Cinabro e Blu Oltremare: la loro presenza era sempre indice di ricchezza.

Dal mondo vegetale e animale arrivarono invece i coloranti: l'Indaco blu, dalla pianta Indigofera tinctoria e dalla pianta Isatis tinctoria (in questo caso noto come Guado), la Robbia rossa dalla pianta Rubia tinctorum, il Kermes rosso dall'insetto Coccus ilicis o Kermes vermilio, lo Zafferano giallo dalla pianta Crocus sativus e infine il più nobile di tutti, la Porpora di Tiro da molluschi della specie Murex o Purpuria. I coloranti erano composti da una o più molecole organiche aventi struttura più complessa rispetto ai pigmenti (figura 132), ed erano trasformati in lacche attraverso l'uso di opportuni mordenti.

5.5.15.1 - Il cinabro

Il cinabro si otteneva e si ottiene tuttora dal minerale omonimo la cui formula è HgS. Il pigmento sintetico è più correttamente noto come vermiglio o vermiglione. Il suo colore è più brillante rispetto all'ocra rossa e in generale si tratta di un pigmento di maggior valore e di discreta durabilità. Si otteneva dalle miniere di cinabro vicino a Belgrado già nel III millennio a.C.; lo si ritrova in affreschi e decorazioni in Persia (I millennio a.C.), in Palestina a Gerico e in numerosi siti Romani. L'impiego di cinabro è riportato come agente colorante nell'inchiostro usato nei Rotoli del Mar Morto (figura 133) risalenti all'inizio dell'era Cristiana.

I Romani chiamavano questo pigmento minio e siccome il rosso era il colore dominante nelle opere pittoriche di piccole dimensioni, esse erano note come miniature (in seguito il nome minio è attribuito al pigmento Rosso Piombo, Pb3O4). I titoli in rosso dei manoscritti divennero noti come rubriche, dal Latino ruber = rosso.

5.5.15.2 - Lapislazzuli e Blu oltremare

Il colore blu intenso del Lapislazzuli è utilizzato e apprezzato da almeno 5000 anni. Si tratta di un pigmento molto pregiato dal momento che il minerale da cui si produce (figura 134) è considerato pietra semipreziosa. Il nome di Blu Oltremare con cui era inizialmente noto deriva dal fatto che il minerale si trovava principalmente in Afghanistan.

Il Lapislazzuli o Blu Oltremare naturale, ha attraversato tutta la storia dell'arte fino al XVIII secolo, per essere poi sostituito a partire dal 1828 dalla sua versione sintetica nota come Oltremare artificiale. Esempi dell'uso di Blu Oltremare vanno da oggetti preziosi presso gli Egizi ai manoscritti illuminati medioevali agli impressionisti (Monet, Pissarro, Renoir). Il suo impiego in opere pittoriche è indice di alto tenore di vita da parte dell'utilizzatore o del committente. Nel tardo Medioevo era riservato al manto della Vergine, e il suo utilizzo era descritto a parte nel contratto firmato dal pittore.

 

5.5.16 - I colori degli egizi

Gli antichi Egizi disponevano di una tavolozza praticamente completa, in particolare per la produzione di affreschi nelle tombe e nei templi come si vede dalla figura 135. L'affresco proviene dalla tomba di Pashed (il personaggio in basso inginocchiato davanti a Osiride). In esso le zone rosse, gialle e marroni sono espresse con ocre; le zone verdi con malachite; il giallo delle zampe dell'uccello sulla sinistra con orpimento (da aurum pigmentum, pigmento usato per simulare l'oro); le superfici nere con carbone; le superfici bianche con gesso e bianco di calce e infine il blu del copricapo del personaggio a destra con blu egiziano.

5.5.16.1 - Gli usi del colore presso degli egizi

Le sei coppe riportate nella figura 136 sono state rinvenute dal famoso archeologo Flinders Petrie nel 1888, vicino ad una mummia successivamente chiamata il pittore. Esse risalgono al I secolo d.C. e contengono alcuni tra i pigmenti più comunemente utilizzati dagli Egizi: ci sono il Blu egiziano, l'ematite rossa, la jarosite gialla (composto avente formula KFe3(SO4)2(OH)6), il minio rosso-arancio (noto come rosso piombo), il gesso bianco e la lacca di robbia rosa (il colorante è miscelato con il gesso). Petrie ipotizzò che questi pigmenti fossero utilizzati per affreschi nelle tombe, ma è più verosimile un impiego per la decorazione di maschere funerarie.

L'uso dei pigmenti nell'arte cosmetica era sorprendentemente sviluppato in Egitto. Si usava la polvere di galena per tingere di nero le palpebre (come nella maschera di Tutankhamon, figura 137), l'ocra rossa per le labbra e il colorante rosso hennè per unghie, mani e piedi.

5.5.16.2 - Blu egiziano

Questo pigmento, noto anche come Blu Pompeiano o Fritta, è probabilmente il più antico pigmento sintetico prodotto dall'uomo (3100 a.C.). La sua invenzione, dettata forse dalla necessità di disporre di un pigmento blu più stabile dell'Azzurrite (gli Egizi non avevano miniere di lapislazzuli), è sorprendente per la genialità del processo di sintesi e per le qualità del prodotto finale. Molti reperti decorati con Blu egiziano, risalenti a più di 3000 anni fa, mantengono tuttora inalterato il loro colore.

Il pregio del Blu egiziano era tale che, tremila anni dopo la sua introduzione, a Roma esso era più pagato della Porpora di Tiro. A quel tempo esso era commercializzato come Caeruleum vestorianum anzichè Caeruleum aegyptium da un tale Vestorio di Pozzuoli, che aveva imparato la ricetta da qualche maestro egiziano.

Il Blu egiziano si trova spesso sugli affreschi in Egitto ma anche in Mesopotamia (Nimrud e Ninive), in Grecia e a Roma (Pompei); fu usato inoltre per la decorazione di oggetti preziosi. Fu utilizzato fino al 400 d.C.

Due esempi di utilizzo del Blu egiziano sono illustrati nella figure 138 e 139; nella prima in un affresco è raffigurato Re Ramsete III (1170 a.C.) il cui copricapo blu con il serpente dorato è simbolo di regalità; nella seconda è invece mostrata una statuetta interamente decorata con Blu egiziano.

Nessun pigmento dell'antichità è stato tanto studiato quanto il Blu egiziano. Vitruvio ne descrive la preparazione nel I secolo d.C., ma fu nel XIX secolo che la sua composizione chimica e la sua struttura furono elucidate, insieme alla chimica che sta alla base della sua produzione.

L'origine del pigmento è ignota: è probabile che gli ingredienti fossero presenti contemporaneamente in un aggregato che, scaldato per caso, diede luogo al prodotto finale. La formulazione originale prevedeva sabbia, carbonato di calcio, un composto di rame (malachite o rame puro) e un sale di sodio che agisse da flusso per abbassare la temperatura di fusione della miscela. Si preparava riscaldando a 850°C la mistura in proporzioni più o meno fisse (4 SiO2 : 1 CaO : 1 CuO), evitando di superare i 1000°C al di sopra dei quali il prodotto si decomponeva in un aggregato verde-nero composto da tridimite, ossido di rame e vetro. La massa fusa era poi mantenuta a 800°C per 10-100 ore. Dopo raffreddamento si otteneva un composto che corrisponde alla formula CaCuSi4O10 (silicato di calcio e rame), strutturalmente simile al minerale noto come cuprorivaite.

Il punto chiave della preparazione è l'aggiunta del sale di sodio sotto forma di Natron o carbonato di sodio decaidrato, un composto ottenuto per evaporazione delle acque di superficie, in Egitto raccolto presso l'oasi di Natrun. Il Natron, pur non entrando nel prodotto finale, ne rende possibile la formazione abbassando la temperatura di fusione dei componenti la miscela . La sabbia, infatti, fonde a ben 1714°C, temperatura irraggiungibile dagli antichi Egizi che avevano risorse limitate di combustibili naturali.

 

5.5.17 - I colori del mondo greco-romano

Durante l'epoca classica greco-romana furono introdotte pochissime sostanze coloranti nuove: eccezioni sono il Bianco Piombo (2PbCO3·Pb(OH)2) e il Verdigris o Verderame (Cu(CH3COO)2·2Cu(OH)2). Nella pittura romana la maggioranza dei pigmenti erano, come in precedenza, di origine minerale: i gialli, i rossi, gli scuri, certi verdi provenivano dalle terre naturali che contengono vari ossidi di metallo. Altri sono di origine vegetale: alcuni rosa dalle lacche organiche (robbia, kermes), il nero, ottenuto spesso a partire dal nerofumo, da ossa o da legno. Altri ancora sono fabbricati artificialmente a partire da minerali che contengono un metallo raro: il rosso vermiglio dal cinabro e il blu egiziano, prodotto da Vestorio di Pozzuoli sulla base della ricetta originale.

Un contributo molto importante alla storia dell'arte viene però dalle fonti bibliografiche: Teofrasto, Vitruvio e soprattutto Plinio il Vecchio con la sua Historia naturalis danno descrizioni dettagliate sulle materie prime, sui procedimenti per la preparazione delle sostanze coloranti e persino sui prezzi.

5.5.17.1 - Porpora di Tiro

Attorno al 1600 a.C. i Cretesi cominciarono ad estrarre da molluschi delle specie Murex o Purpuria (figura 140) una sostanza color porpora, utilizzandola come colorante per tessuti. In seguito furono i Fenici a legare il loro nome a questa sostanza, che in tutto il mondo allora conosciuto fu nota come Porpora di Tiro, dal nome della città ora in Libano. Il vincolo era così stretto che si dice il nome Fenici derivi etimologicamente dalla parola porpora.

La Porpora di Tiro o Porpora Reale è senza dubbio il colorante più famoso, più bello e più pregiato della storia dell'uomo. La Bibbia parla dell'uso di sostanze porpora e blu ricavate da molluschi per colorare tessuti (Esodo 26, 1-28 oppure Numeri 15, 38). Presso i Romani la Porpora di Tiro valeva 10-20 volte il suo peso in oro: circa 200 denari per chilo al tempo di Augusto, l'equivalente di almeno 6-7.000 Euro attuali. Plinio il Vecchio ne descrive caratteristiche e prezzo; Aristotele, Omero e Vitruvio ne parlano. Il suo valore sociopolitico, religioso ed economico era dovuto alla sua rarità. Ci volevano infatti 10.000 molluschi adulti per ottenere un solo grammo di colorante!

L'uso della Porpora venne quindi riservato per legge a imperatori ed ecclesiastici di alto rango a Babilonia, in Egitto, in Grecia e a Roma. Presso l'impero Bizantino il colore e le decorazioni erano strettamente regolate a seconda del rango e della condizione economica. Solo l'imperatore e l'imperatrice avevano titolo per indossare abiti da cerimonia interamente in Porpora e solo l'imperatore poteva indossare calze e stivali tinti in quel modo, in analogia a quanto stabilito a Roma da Nerone che puniva con la morte e la confisca di tutti i beni chiunque venisse scoperto ad indossare capi in Porpora Reale.

Si dice che presso l'Impero Bizantino, i figli dell'Imperatore venissero partoriti in una particolare stanza del palazzo reale decorata in porpora, in modo che essi fossero autenticamente porphyriogenatos, cioè nati nella porpora, per dare loro un imprinting di supremazia.

La produzione su larga scalca cessò con la caduta di Constantinopoli in 1453; esso fu sostituito da altri coloranti più economici come il Lichene porpora e la robbia.

Ancora oggi, il colore porpora è riservato ad alti funzionari ecclesiastici come i cardinali, chiamati anche porporati.

Nel 1909 il chimico tedesco Paul Friedländer identificò la struttura chimica del composto responsabile del colore della Porpora di Tiro: esso è un derivato dell'indaco, il 6,6'-dibromoindaco (figura 141). Questa sostanza in soluzione si presenta blu ma diventa porpora quando è fissata su un tessuto. La sua struttura è affine all'indigotina, principio attivo del colorante indaco, e a quella di altri composti identificati in coloranti di origine animale, quali ad esempio il Guado, un colorante blu utilizzato dai Pitti (una popolazione britannica) per tingere il loro corpo a scopo bellico, e il Tekhelet, un colorante blu citato più volte dalla Bibbia, molto importante presso gli Ebrei per usi rituali.

In seguito è stato possibile produrre per sintesi chimica il colorante.

Uno degli usi più importanti della Porpora di Tiro era nella tintura di pergamene, i cosidetti Codici Purpurei o Purple Codex. Generalmente combinati alla crisografia (scrittura con oro e argento), questi manoscritti sono caratteristici dell'Impero Bizantino nel V e VI secolo e dell'Impero Carolingio e Ottoniano dall'VIII all'XI secolo. La produzione aveva i suoi centri in Siria, ad Antiochia e a Costantinopoli.

Esempi di pergamene porpora sono il Vienna Genesis (VI secolo d.C.) considerato il più antico manoscritto biblico sopravvissuto e il Codice Purpureo di Rossano Calabro (figura 142), noto come Rossano Gospels o Codex Purpureus Rossanensis, del VI secolo d.C., considerato il più antico Nuovo Testamento illustrato, attualmente nel Museo Diocesano di Rossano Calabro (provincia di Cosenza) dove è giunto dall'Oriente nel IX-X secolo portato da un monaco in fuga durante l'invasione degli arabi. L'evangelario contiene il testo greco dei Vangeli di Matteo e Marco; gli altri due sono andati perduti. Le numerose miniature e l'uso di oro e argento indicano che si tratta di produzione di lusso, fatta probabilmente per i membri della corte imperiale.

La produzione di pergamene porpora è stata ripresa nell'ultimo secolo, a seguito della scoperta del principio attivo del colorante e della sua sintesi.

 

5.5.18 - I colori dell'Oriente

Il mondo Asiatico produsse molte innovazioni nell’uso di pigmenti e coloranti, benchè non introdusse molte sostanze nuove di utilizzo generale. La novità più importante può essere considerata l’Inchiostro Cinese, noto anche come Inchiostro Indiano, probabilmente risalente al III secolo d.C.; si tratta di una dispersione di nerofumo o fuliggine in acqua, con colla animale come legante. Il suo utilizzo era ubiquitario in Asia per scrittura e pittura. Per quanto riguarda i pigmenti, va segnalato un composto avente struttura chimica sorprendentemente simile a quella del Blu Egiziano: si tratta del cosidetto Blu Cinese o Han Blu, avente formula BaCuSi4O10. La formula si differenzia per la presenza del bario al posto del calcio, ma è probabile che anche questo pigmento sia stato ottenuto per sintesi a partire da materie prime simili. Dal punto di vista cromatico, il Blu Cinese appare più chiaro del Blu Egiziano in quanto formato da particelle più fini. Il Blu Cinese è stato segnalato recentemente in relazione ai famosi Guerrieri di Terracotta di Xian, in Cina, in quanto utilizzato per la loro decorazione (figura 143). Di formula leggermente differente, BaCuSi2O6, è il pigmento noto come Porpora Cinese o Han Purple, anch'esso individuato sulla superficie dei Guerrieri di Terracotta (figura 144, ingrandimento al microscopio ottico di un grano di pigmento). Un altro pigmento molto importante era il Blu Cobalto, utilizzato per la decorazione della porcellana secondo la tecnica underglaze (figura 145) che prevedeva l'applicazione del pigmento tra il corpo ceramico e il rivestimento.

Per quanto riguarda l'India, l’opera più rappresentativa dell’arte pittorica antica, non tanto per la presenza di sostanze coloranti particolari quanto per l'importanza dal punto di vista culturale, è il complesso di affreschi delle caverne di Ajanta (figura 146), situate ad est di Bombay nello stato di Maharashtra. Scoperte nel XIX secolo da soldati britannici a caccia di tigri, le pitture murali coprono un arco temporale che va dal II secolo d.C. al VII secolo d.C. e sono decorate con colori vibranti. Gli artisti trasformarono la pietra in un libro aperto sulla vita di Buddha e sui suoi insegnamenti. I dipinti di Ajanta costituiscono un panorama della vita dell'antica India di inestimabile valore.

 

5.5.19 - I colori delle civiltà precolombiane

I pigmenti e i coloranti del Nuovo Mondo rivaleggiano con quelli del Mondo Antico per quanto riguarda varietà e tecnologia di produzione. Ad esempio, i Maya disponevano di una tavolozza completa, benchè i pigmenti mesoamericani avessero sorgenti simili a quell di analoghi colori del Mondo Antico; unica, notevole eccezione erano i blu, tra i quali giganteggiava il famosissimo Blu Maya, ottenuto dalla combinazione del colorante indaco con un'argilla bianca, la attapulgite o paligorskite, per formare una lacca al 5-10% di indaco.

Così detto perchè scoperto per la prima volta nel Tempio dei Guerrieri di Chichen Itza (Yucatan) ma in realtà di invenzione ignota, il Blu Maya (figura 147) era diffuso, oltre che presso i Maya, presso i Toltechi, i Mixteca e gli Aztechi.

Le proprietà tecnologiche del Blu Maya sono stupefacenti quanto a durabilità, fatto sorprendente per un composto a base organica. Ciò è spiegabile in base alla sua composizione mista organica/inorganica, elucidata solo negli anni 60: l'indaco risultava incapsulato nella struttura argillosa.

Da citare è anche la Cocciniglia, un colorante rosso estratto dall'insetto Dactylopius coccus, avente proprietà superiori a quelle di analoghi composti sviluppati nell'area mediterranea come il Kermes. Importata in Europa dal XVI secolo e subito utilizzata al posto degli altri coloranti rossi, il suo uso principale era nella tintoria.

 

5.5.20 - I colori nel Medioevo

Attraverso il Medio Evo e il Rinascimento i pigmenti minerali continuarono ad essere utilizzati ma, sotto la spinta ad esempio degli ordini monastici che portano avanti ricerca scientifica empirica in modo quasi alchimistico, vengono sviluppate nuove soluzioni come la sintesi diretta del vermiglio a partire da mercurio e zolfo (X secolo) anzichè per estrazione dal minerale cinabro.

Una delle fonti più interessanti per ricavare la composizione del colore nel Medio Evo è il trattato "Il Libro dell'Arte" di Cennino Cennini. In questo libro vengono descritte le principali tecniche utilizzate nell'affresco e nella tempera a uovo. I colori a disposizione degli artisti all'epoca erano quelli ottenibili con le miscele dei pigmenti allora in uso. La preparazione dei pigmenti poteva basarsi su molte sostanze, sia naturali come artificiali. Alcuni colori erano facilmente disponibili ed economici, altri erano ancora assai rari e costosi, come l'eterno blu oltremare naturale.

Si deve notare comunque che i pittori medievali erano dei profondi conoscitori dei pigmenti che usavano, andando spesso alla ricerca di nuove sostanze, come fece Ugolino di Nerio quando, per la pala di altare di Santa Croce, decise di non utilizzare il blu oltremare e di ricorrere, invece, all'azzurrite, in virtù della sua particolare tonalità verdastra dovuta alla parziale degradazione a malachite. Nel trattato del Cennini si parla anche del cangiantismo, della scelta cioè di colori che avevano la proprietà di cambiare il loro aspetto a seconda della luce che li colpiva.

Un altro testo di sicuro interesse per chi desidera conoscere di più sull'uso dei pigmenti utilizzati nella tempera a uovo è il trattato "Della Pittura" di Leon Battista Alberti, che sviluppò e approfondì molte delle tematiche del Cennini.

 

5.5.21 - Manoscritti illuminati

Si tratta di manufatti di grande valore storico, artistico e religioso, tipici del Medioevo. Originariamente descritti come manoscritti impreziositi dall'uso di colori luminosi (in particolare oro e argento) per le illustrazioni, essi sono la testimonianza delle capacità tecnico-artistiche degli antichi scribi. Le illustrazioni dei manoscritti illuminati sono ancora adesso in grado di rivaleggiare con i manoscritti a stampa dal punto di vista della precisione di tratto e della fantasia delle forme.

Generalmente preparati su pergamena (pelle animale opportunamente trattata) e in seguito su carta, i manoscritti erano decorati con pigmenti, coloranti e inchiostri dalle tinte vivaci. La varietà di colori a disposizione del decoratore di manoscritti medievali era sorprendentemente vasta: la stesura su pergamena non comportava alcun limite nella scelta dei composti da utilizzare (a differenza, per esempio, della tecnica dell'affresco), tranne in rari casi in cui due colori apposti in zone limitrofe potevano reagire chimicamente e dare luogo a prodotti di degradazione indesiderati, come nel caso di pigmenti a base di piombo, es. Bianco Piombo, 2PbCO3·Pb(OH)2 e a base di solfuro, es. Orpimento, As2S3. Inoltre, la produzione di colori sintetici (quali il Vermiglio al posto del Cinabro naturale o i pigmenti blu a base di rame) e l’importazione di nuovi colori dai paesi extraeuropei (Zafferano, Cocciniglia) ebbe un significativo incremento proprio mentre l'arte della miniatura si stava sviluppando. Gli illustratori erano soliti preferire pigmenti inorganici perchè più stabili nel tempo rispetto a quelli organici, più facilmente soggetti a degradazione fotochimica; di questo gli scribi erano probabilmente consci. Ciò non toglie che spesso sia ancora possibile identificare la presenza di alcuni coloranti, come l'Indaco o la Porpora di Tiro, o di lacche come la Robbia e il Kermes.

Nei manoscritti medievali, come in altre espressioni pittoriche, era prassi utilizzare i pigmenti più pregiati per colorare i soggetti più sacri, come ad esempio le figure dei santi. La gerarchia dei pigmenti blu, ad esempio, era in questo senso lapislazzuli > azzurrite > guado.

Nella lettera O istoriata (figura 148), tratta da un testo di cori italiano del XIII secolo, è possibile vedere un esempio della tecnica degli strati successivi di pigmento o layering. Le zone blu sono costituite da lapislazzuli su azzurrite; ciò crea un effetto cromatico interessante, dà maggiore stabilità al colore in quanto la superficie esposta è costituita dal pigmento più stabile, il lapislazzuli, e infine ha il vantaggio economico di minimizzare l'uso del minerale più pregiato.

Una grossa differenza della tecnica di illuminazione rispetto alle altre tecniche pittoriche era l'utilizzo di pigmenti metallici: oro e argento. L'oro, in particolare, era utilizzato per la doratura. Si utilizzavano tre tipi di tecnica:

  • nel primo caso, la superficie da decorare era coperta con una colla umida sulla quale si applicava una sottile lamina ottenuta da monete, a formare il pigmento noto come Foglia d'oro; ciò era possibile grazie all'enorme malleabilità dell'oro, che può essere lavorato fino a ottenere lamine dello spessore di pochi µm. Questa tecnica era usata in particolare nei primi manoscritti

  • nel secondo caso, si preparava un fondo di intonaco costituito da gesso (solfato di calcio diidrato) amalgamato con una colla in modo da ottenere un risultato tridimensionale; sul fondo era applicata la lamina d'oro. Questa era la tecnica preferita nel Nord Europa, soprattutto per le iniziali (figura 149)

  • la terza tecnica prevedeva l'applicazione dell'oro sotto forma di polvere dispersa in gomma arabica, a formare una specie di inchiostro dorato, chiamato shell gold, impiegato soprattutto per le decorazioni a margine

5.5.21.1 - Gli inchiostri

Mentre le illustrazioni erano composte con una tavolozza spesso molto varia, il testo era invece limitato a poche alternative (a parte le iniziali che hanno la stessa valenza artistica delle miniature). Gli inchiostri, costituiti da pigmenti o coloranti combinati ad un legante e dispersi in un mezzo veicolante, generalmente acqua, erano di colore rosso o nero, più raramente di altri colori. Il termine deriva dal latino encaustum che significa "bruciare dentro" o "sopra" dal momento che l’acido gallico e tannico presenti fra i suoi ingredienti corrode la superficie sulla quale si scrive.

  • per il rosso si utilizzava Cinabro o Rosso Piombo; l’inchiostro rosso era molto usato nei manoscritti medievali per titoli, sottotitoli e rubriche

  • per il nero si utilizzavano due inchiostri diversi:

    • gli inchiostri a base di carbone (fuliggine, nerofumo), adoperati nell’antichità e nel mondo orientale e descritti in tutte le ricette medievali fino al XII secolo

    • gli inchiostri cosidetti metallo-gallato, in uso almeno dal III secolo ma descritti per la preparazione dal primo XII secolo con Teofilo; si ottenevano miscelando sali di ferro, rame o zinco detti vetrioli, e le noci di galla: queste noci contengono i tannini, composti organici a base fenolica che reagiscono con il ferro formano un precipitato nero-marrone. Le noci di galla sono formazioni tumorali rotonde che crescono sulle foglie e sui rametti della quercia e si formano quando all’interno del germoglio quercia una vespa depone le sue uova: l'azione protettiva della pianta si esplica formando intorno alle larve queste "biglie" contenenti sostanze tanniniche

Un caso particolare di inchiostro si ha nella Crisografia: il termine indica la scrittura con oro su manoscritti. Fu utilizzata a partire dal I secolo d.C. per produzioni di lusso; generalmente si trattava di testi composti su pergamene colorate con tinte porpora. Svetonio menziona un poema di Nerone scritto in oro; l’imperatore Massimino (235–8 d.C.) era noto per possedere un testo di Omero scritto in oro su porpora. Se il tingere di porpora la pergamena migliorava la leggibilità, la ragione principale per l’uso della crisografia su porpora ha a che fare con l’associazione di questi due colori con la figura dell’imperatore. Nella crisografia si usava oro polverizzato mescolato con gomma arabica e applicato sulle superfici mediante una penna o un pennello; anche l’argento, lo stagno e il colorante zafferano erano a volte impiegati. Un esempio di crisografia si ha nel Canterbury Codex Aureus, un manoscritto dell'VIII secolo attualmente conservato presso la Royal Library di Stoccolma (figura 150).

5.5.21.2 - Analisi chimica dei manoscritti illuminati

L'analisi dei manoscritti, dato l'enorme valore delle opere, va ovviamente effettuata con tecniche non distruttive e che non prevedano il prelievo di un campione. Esiste però una tecnica di campionamento accettata da alcuni enti museali, tra cui il Louvre di Parigi: essa consiste nell'impiego di un tampone noto come Q-tip, la cui punta è in grado di asportare per sfregamento quantità del tutto irrisorie (meno di 100 ng) di pigmento dal manoscritto (figura 151). Le tecniche analitiche più adatte sono le tecniche spettroscopiche e in particolare Raman (figura 151), PIXE e XRF.

5.5.21.3 - A Bible laid open

Uno dei primi studi di caratterizzazione di manoscritti illuminati è stato pubblicato da R. Clark (University College London) nel 1993 sulla rivista Chemistry in Britain, con il titolo "A Bible laid open". In questo lavoro è stata definita la tavolozza utilizzata per illustrare la cosidetta Paris Bible o Lucka Bible, una Bibbia risalente al 1270 creata a Parigi, poi passata nelle mani di una Santa Maria Vergine presso l'abbazia di Lucka in Znojmo, attuale Repubblica Ceca, il cui nome è leggibile in luce ultravioletta. Il testo del manoscritto è in latino, i caratteri sono in stile gotico (figura 151).

Utilizzando la spettroscopia Raman direttamente sul manoscritto, Clark ha identificato i pigmenti impiegati nella decorazione dell'opera. Nella figura 152 è mostrata la lettera I iniziale del Libro della Genesi (In principio...). La lettera è alta 83 mm e mostra sette scene rappresentanti i sette giorni della creazione. In questa lettera i pigmenti identificati sono otto: Azzurrite, Lapislazzuli (per gli sfondi di quattro scene), Bianco Piombo, Cinabro, Orpimento e Rosso Piombo (per le cornici gialle e arancioni e per la tunica di Dio nella quarta e settima scena), Realgar, Malachite, questi ultimi due probabilmente presenti come impurezze o prodotti di degradazione di orpimento e azzurrite. Gli spettri Raman sono riportati nella figura 153.

5.5.21.4 - Altri manoscritti

Il più famoso tra i manoscritti illuminati è senza dubbio il Book of Kells (figura 154). Si tratta di un'edizione del testo latino dei quattro Vangeli, attualmente in possesso del Trinity College di Dublino. Le sue origini si perdono tra il VI e l'VIII secolo d.C., mentre il luogo in cui è stato creato è dibattuto tra l'isola di Iona (al largo dell'isola di Mull, Scozia Occidentale) e Kells, nella contea di Meath (Irlanda). Le decorazioni del Book of Kells sono incredibilmente ricche e fantasiose: Umberto Eco ha definito l'opera "il prodotto di un'allucinazione a sangue freddo". La tavolozza del Book of Kells comprende numerosi pigmenti (Orpimento, Rosso Piombo, Verdigris) e coloranti (Indaco, Kermes), oltre che oro e argento. Sorprende soprattutto l'uso del Blu Oltremare (figura 155), a quei tempi accessibile solo a caro prezzo per importazione dall'Oriente. Il legante utilizzato è bianco d'uovo.

Un altro importantissimo manoscritto di area britannica è il Lindisfarne Gospels (figura 156), attribuito alla fine del VII secolo d.C. e al monastero di Lindisfarne, nell'Inghilterra Nordoccidentale; attualmente appartiene alla British Library di Londra. L'analisi Raman, effettuata su questo manoscritto dal Prof. R. Clark, ha evidenziato l'utilizzo di Indaco (figura 157) come unico prodotto blu; questo colorante era disponibile nell'Inghilterra dell'VIII secolo in quanto estratto dalla pianta Isatis tinctoria o guado. Nonostante l'evidente valore simbolico del manoscritto, che fa pensare alla necessità di utilizzare pigmenti nobili, non si rileva la presenza di Blu Oltremare, il cui impiego è effettivamente noto in Inghilterra a partire dal X secolo. Una caratteristica tecnica rilevante di questo manoscritto è il fatto che il testo è estremamente scuro e consistente (figura 158): l'inchiostro impiegato dallo scriba, probabilmente del tipo metallo-gallato, doveva essere stato prodotto con una ricetta eccezionalmente stabile e in quantità copiose.

 

5.5.22 - La pittura ad olio e il Rinascimento

Nella prima metà del 400 si verifica un cambiamento di grande importanza nella pittura: l'introduzione della pittura a olio. Tale innovazione si diffuse immediatamente nel nord Europa, anche se le recenti analisi hanno confermato che i pittori olandesi del 1420, quali Van Eyck e Campin, continuarono a usare uno sfondo fatto con tempere a uovo, per ricorrere all'olio nella parte finale del dipinto. La pittura a olio cominciò anche gradatamente ad affermarsi anche in Italia.

Per l'emergere della pittura ad olio fu necessario disporre di oli vegetali aventi la proprietà di polimerizzare, creando una maglia attorno ai pigmenti. Questi prodotti, come l'olio di lino, erano generalmente disciolti in trementina.

Un posto di preminente importanza hanno sicuramente le opere della scuola veneziana del sedicesimo secolo. Venezia infatti era il principale punto di commercio dell'epoca, il che permetteva agli artisti di procurarsi tutti i pigmenti immaginabili e disponibili all'epoca. L'Incredulità di San Tommaso di Cima di Conegliano (figura 159) risalente al 1500, contiene in pratica tutti i pigmenti conosciuti all'epoca. Tutti i colori sono diversi tra di loro, tranne un unico colore ripetuto due volte.

Il massimo esperto nell'uso del colore fu però probabilmente Tiziano. In Bacco e Arianna (figura 160) il maestro veneto utilizza il blu oltremare più puro.

Con Rembrandt si raggiunge il vertice della tecnica del chiaroscuro. In lui prevalgono le tinte nere, rosse, bianche e oro.

Col sopraggiungere dell'era Illuminista, gli artisti avevano ormai a disposizione una tavolozza estremamente ricca e inoltre possedevano le cognizioni per gestire la miscelazione e la sovrapposizione dei pigmenti.

Ciò richiedeva una conoscenza non banale della compatibilità chimica dei materiali. Tintoretto, ad esempio, era in grado di lavorare con quattro diversi pigmenti blu.

 

5.5.23 - I pigmenti sintetici

Attorno alla fine del XV secolo si produsse in Sassonia il pigmento blu noto come Smalto o Smaltino, un composto vetroso ottenuto miscelando un minerale di cobalto con silice e potassa. Il prodotto finale aveva elevata resistenza se utilizzato negli affreschi, ma scarsa se impiegato nella pittura ad olio perchè tendeva a decomporsi nell'olio di lino, il legante di moltissimi pittori europei.

Dal punto di vista della storia dell'arte, è quindi una data importante è il 1704, anno in cui viene realizzato per caso combinando sali di ferro e cianuri, il pigmento Blu di Prussia (Fe4[Fe(CN)6]3·nH2O con n=14-16) che sostituì presto molti pigmenti blu naturali (figura 161). Il Canaletto già nel 1720 utilizzava tale colore per i suoi dipinti.

Nel XVIII secolo, inoltre, si cominciò a produrre pigmenti sintetici a base di ossidi di ferro, tra cui il Rosso di Marte, aventi proprietà comparabili a quelli naturali. Dal 1920 furono disponibili gli equivalenti pigmenti gialli (Giallo di Marte), mentre i marroni sono stati prodotti modificando la tecnologia per sintetizzare rossi e gialli.

Nei primi trent'anni del 1800 si ha uno sviluppo notevole dei pigmenti sintetici realizzati, grazie alla scoperta degli elementi metallici cobalto, cromo (Giallo cromo - PbCrO4, Verde cromo - PbCrO4 miscelato con Blu di Prussia) e cadmio e alla sintesi del Blu oltremare artificiale e del Blu cobalto artificiale (CoO Al2O3), colori molto apprezzati dagli Impressionisti. La realizzazione di questi colori, e la possibilità di conservarli in tubetti, consentì una grande facilità nel dipingere all'aperto, contribuendo a cambiare in maniera sicuramente decisiva la storia della pittura. Gli impressionisti furono tra i principali innovatori della pittura.

 

5.5.24 - Il XX secolo

Nel XX secolo vengono sintetizzati i pigmenti a base cadmio (Giallo Cadmio - CdS, Rosso Cadmio - CdSSe) e il Bianco Titanio (TiO2), il pigmento bianco più importante nelle attuali vernici.

Nel 1935 viene creato un gruppo di pigmenti completamente nuovo che comprende molecole organiche anzichè strutture a base esclusiva di metalli: i composti organometallici, di cui il Blu Ftalocianina (CuC32H16N8) è il progenitore.

Nel seguito del secolo, lo sviluppo della chimica organica ha fornito agli artisti possibilità praticamente illimitate di colorazione.

 

5.5.25 - I colori nell'industria tessile

Nel settore della tintura dei tessuti, si individuano tre maggiori sviluppi nella storia dell'industria tintoria europea:

  • prima del XVI secolo, i tintori utilizzavano per lo più coloranti indigeni (robbia, porpora, indaco, ecc.) o provenienti dall'area mediterranea

  • tra il 1550 e il 1850 i coloranti erano ancora di origine esclusivamente naturale ma il range era stato ampliato dai coloranti provenienti dal Nuovo Mondo, dall'India e da altre parti (cocciniglia)

  • nel 1856 William H. Perkin Sr. creò casualmente il primo colorante sintetico a partire dal catrame: il Malva. Esso è il primo esempio dei cosidetti coloranti d'anilina, ottenuti a partire dal composto organico anilina, che nel giro di pochi anni dalla scoperta del Malva sostituirono i coloranti naturali in tutti gli usi

Verso la fine del XIX secolo erano ormai disponibili migliaia di coloranti sintetici, che coprivano tutte le tinte possibili. Alcuni esempi sono:

  • l'Alizarina, sintetizzata nel 1869 per sostituire il suo antico precursore, la Lacca di robbia, meno stabile; la produzione di Alizarina fu decisiva nello sviluppo della BASF

  • l'Indaco, commercializzato a partire dal 1897 dalla BASF e impiegato spesso nella produzione di jeans

 

5.5.26 - Leganti e vernici

Altrettanto importanti dei materiali coloranti veri e propri sono altri composti utilizzati per applicare e proteggere i colori: i leganti e le vernici. Mente i primi hanno lo scopo di facilitare l'adesione dei pigmenti al substrato di applicazione, le seconde hanno genericamente una funzione protettiva e in parte decorativa. Possono essere classificati in vari; dal punto di vista chimico essi sono tutti composti organici, la cui struttura permette di classificarli in quattro gruppi:

  • Composti a base di proteine

  • Composti a base di polisaccaridi

  • Composti a base di acidi grassi

  • Resine

Essendo composti a base organica, sono soggetti nel tempo a degrado chimico e ciò comporta problemi nella conservazione dei manufatti pittorici.

L'identificazione di queste sostanze e dei loro prodotti di degradazione può essere effettuata mediante le tecniche di spettroscopia molecolare (IR e Raman). Gli spettri Raman dei vari leganti, per quanto meno facilmente interpretabili rispetto a quelli dei pigmenti, permettono comunque l'identificazione dei principali composti. Va notato che il riconoscimento dei leganti è spesso reso difficoltoso dalla presenza di prodotti di degradazione.

5.5.26.1 - Composti a base di proteine

Le proteine sono polimeri costituiti da sequenze di aminoacidi. Quelle utilizzate in campo pittorico sono di origine animale e vengono impiegate prevalentemente nella pittura a tempera. Alcuni esempi sono l'albumina (presente nel bianco d'uovo), la caseina (proteina del latte) e le colle animali o gelatine (costituite da collagene). Gli spettri Raman dei principali leganti proteici sono riportati nella figura 120.

5.5.26.2 - Composti a base di polisaccaridi

I polisaccaridi sono polimeri costituiti da sequenze di monosaccaridi o zuccheri. Al contrario dei composti a base proteica, essi sono di origine per lo più vegetale. L'azione legante che svolgono è dovuta alla formazione di legami ad idrogeno (figura 121) con le sostanze che compongono il substrato di applicazione. Alcuni esempi sono l'amido (polimero del glucosio ottenibile da patate, riso o grano) e le gomme (secrezioni di piante tra cui è particolarmente importante la gomma arabica, estratta dalle piante di Acacia). Gli spettri Raman dei principali leganti a base polisaccaridica sono riportati nella figura 122.

5.5.26.3 - Composti a base di acidi grassi

Si tratta di un gruppo composto da numerose sostanze, divisibili in cere e oli siccativi.

  • le cere sono miscele complesse di composti organici, di origine animale (cera d'api), vegetale (cera carnauba) o minerale (cera montana). Sono utilizzate principalmente negli affreschi: nell'antichità, la cera d'api era miscelata all'acqua per formare un'emulsione nella quale veniva disperso il pigmento, che si fissava poi per evaporazione dell'acqua. Un altro impiego si ha nel restauro di dipinti.

  • gli oli siccativi sono composti noti come esteri, ottenuti a partire da glicerina e acidi grassi insaturi. Dopo evaporazione, questi composti polimerizzano (figura 123) e formano un robusto film insolubile in acqua e in molti solventi organici. Il più importante siccativo è senza dubbio l'olio di lino, ottenuto dai semi del linum usitutissimum e purificato per mezzo di sostanze alcaline; altri siccativi sono l'olio di semi di girasole e l'olio di semi di papavero. Si dice che gli inventori dei siccativi siano i fratelli Van Eyck (XV secolo), ma l'impiego è probabilmente anteriore; in ogni caso è a partire da loro che la pittura ad olio si perfezionò.

 Gli spettri Raman dei principali leganti a base di acidi grassi sono riportati nella figura 124.

5.5.26.4 - Resine

Le resine formano un gruppo eterogeneo. Esse sono miscele complesse di sostanze organiche, tra cui molte di origine terpenica. Sono prevalentemente di origine vegetale, di aspetto vischioso e sono utilizzate come vernici protettive più che come leganti, generalmente sciolte in un olio siccativo o in un solvente. Ciò è dovuto al fatto che induriscono a contatto con l'aria. Alcuni esempi sono la trementina (prodotta dall'escrezione di conifere), la colofonia (prelevata da pini) e il mastice (prelevata dal lentisco pistacchio). Sono poi di particolare interesse le resine colorate come il Sangue di Drago, di color rosso scuro, e la Gambogia o Gomma Gutta, di color giallo, che oltre ad esercitare azione protettiva influenzano il colore dell'artefatto. Gli spettri Raman delle principali vernici resinose sono riportati nella figura 125.

5.5.26.5 - Caratterizzazione di leganti e vernici

Un esempio di identificazione di leganti in un artefatto si ha nella figura 126, nella quale sono riportati gli spettri Raman di un campione giallo tratto da un manoscritto medioevale: è possibile riconoscere la presenza del pigmento (Giallo di piombo e stagno) e del legante (cera d'api). Questi composti danno segnali in regioni spettrali diverse.

Un’alternativa al Raman per l’identificazione di leganti è la cromatografia GC-MS, che ha un grande potenziale ricognitivo ma richiede un prelievo di campione; un esempio di analisi GC-MS di leganti è riportata nella figura 127.

 

5.6 - I materiali organici

5.6.1 - Introduzione

Il campo dei materiali organici è amplissimo, includendo in questa tipologia reperti di origine animale e vegetale, naturale o sintetica. Si tratta di un insieme di materiali accomunati dall'essere di natura organica, cioè composti prevalentemente di atomi di carbonio e idrogeno, a differenza dei materiali descritti in precedenza che sono di natura inorganica.

Nel campo archeologico, i reperti organici hanno avuto un ruolo importante solo recentemente, grazie allo sviluppo delle tecniche analitiche. Lo studio dei materiali organici è reso infatti difficoltoso da alcuni aspetti:

  • la scarsa stabilità chimica dei composti organici rispetto a quelli inorganici, che fa sì che molti reperti di questa natura siano in realtà solo residui del materiale originario, dei quali non mantengono la composizione o la struttura originaria; inoltre, batteri e funghi sono in grado di alimentarsi con le sostanze che compongono i materiali organici, causandone la decomposizione

  • la natura fragile dei reperti li rende estremamente delicati e perciò di valore, in modo tale che la caratterizzazione chimica diventa secondaria rispetto alla conservazione

  • la complessità della composizione: spesso si ha a che fare con miscele di composti piuttosto che di singoli composti, il che richiede la possibilità di separare e identificare singolarmente le varie componenti

  • gli elementi che costituiscono i composti organici sono limitati a carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, zolfo e fosforo, il che rende scarsamente utili le tecniche di analisi elementare utilizzate per i materiali descritti precedentemente, tranne che per i reperti aventi composizione mista organica/inorganica

Per questi motivi i reperti organici, o quantomento gli aspetti archeometrici legati ai reperti organici, hanno avuto scarsa popolarità presso gli archeologi, parallelamente alla disponibilità di tecniche analitiche adeguate; va considerato che analisi elementari su ceramiche si effettuavano già nel XIX secolo, ma nulla di equivalente esisteva per l'analisi di reperti organici. Lo sviluppo delle tecniche analitiche degli ultimi vent'anni, tuttavia, ha permesso di gettare nuova luce su questi reperti e di prendere in considerazione materiali finora ignorati come cibo, bevande, olii o colle che lasciano residui analizzabili con le più moderne tecniche analitiche, in modo da ottenere informazioni sulla cultura dei popoli del passato.

Diventano così disponibili le tecniche cromatografiche, in particolare la gascromatografia accoppiata alla spettrometria di massa, e le tecniche di spettroscopia molecolare, come Raman e Infrarosso, che consentono di identificare le sostanze organiche presenti in un campione.

 

5.6.2 - Interesse allo studio dei materiali organici

I materiali organici presentano alcune difficoltà dal punto di vista archeometrico, come si è detto in precedenza. Innanzitutto essi quasi sempre sono residui chimicamente e fisicamente differenti dal materiale originario, a causa della natura organica delle sostanze che li compongono. Si tratta quasi sempre di miscele di sostanze e non di sostanze pure, cosa che rende necessario un processo di separazione per poterle rivelare singolarmente. Infine, molto spesso si hanno a disposizione quantità molto limitate di materiale da analizzare.

Nondimeno, l'interesse per lo studio dei materiali organici è enorme, in quanto essi possono fornire moltissime informazioni sul passato per i seguenti motivi:

  • Caratterizzazione chimica

    • per effettuare studi di provenienza

    • per effettuare studi di autenticazione

  • Caratterizzazione degli usi e costumi dei popoli antichi

    • per definire le capacità tecnologiche di conversione delle materie prime

    • per conoscere le abitudini alimentari o lo stile di vita dei popoli antichi

  • Conservazione e restauro

    • studio degli effetti degli agenti atmosferici o delle condizioni di interramento sugli oggetti d'arte

    • ripristino di aree danneggiate

 

5.6.3 - Tecniche analitiche per lo studio dei materiali organici

Le tecniche impiegate per la caratterizzazione dei reperti di natura organica possono essere le seguenti:

  • tecniche cromatografiche per la separazione e identificazione dei componenti di miscele: si tratta di tecniche distruttive, in quanto comportano la dissoluzione del campione in un opportuno solvente

  • tecniche di spettroscopia molecolare per l'identificazione di molecole organiche o inorganiche: possono essere tecniche non distruttive (Raman) o parzialmente distruttive (IR con pastiglia)

  • tecniche di analisi isotopica per determinare il rapporti isotopici degli elementi principali: si tratta di tecniche distruttive in quanto il campione (o un subcampione da esso derivato) deve essere analizzato interamente

  • tecniche di analisi elementare per determinare impurezze inorganiche: possono essere tecniche non distruttive (analisi superficiale) o distruttive (spettroscopia atomica)

 

5.6.4 - Residui di alimenti

Il cibo come reperto è di primaria importanza per gli archeologi, in quanto può fornire indicazioni sulle abitudini alimentari, sulle attività e più in generale sullo stile di vita dei popoli antichi. L'uso delle sementi è dimostrato a partire dal VII millennio a.C.; frumento, orzo e riso sono tra le prime ad essere state coltivate dagli uomini delle prime civiltà mesopotamiche, seguite dai legumi (VI millennio) mentre mais, zucca, fagioli e pepe sono noti in America dal V millennio.

Residui di cibo o di semi sono quindi molto preziosi e possono essere individuati nel terreno oppure all'interno di contenitori; la cottura dei cibi può lasciare una sorta di impronta molecolare degli alimenti trattati resistente nel tempo, che può dare indicazioni sulle materie prime utilizzate. Naturalmente non è pensabile di trovare residui intatti di cibo, ma classi differenti di alimenti lasciano tracce differenti e riconoscibili. L'analisi di un residuo alimentare può essere effettuata asportandone un'aliquota dalla superficie su cui si trova, sciogliendola in un opportuno solvente e poi determinando le varie sostanze che lo compongono mediante la tecnica GC-MS. Con la sua capacità ricognitiva, questa tecnica è particolarmente adatta in quanto il residuo sarà probabilmente costituito da una miscela molto complessa di proteine, grassi, polisaccaridi e altre molecole organiche ed inorganiche. Un esempio di analisi GC-MS su un residuo alimentare prelevato in un sito romano è riportato nella figura 262. Nel cromatogramma si notano alcuni marcatori, le cui strutture sono evidenziate in figura 263:

  • pirrolo e toluene, marcatori per le proteine

  • furano, marcatore per i carboidrati

  • acidi organici, marcatori per grassi, cere e olii.

Indicazioni più specifiche si ottengono confrontando le concentrazioni di alcune sostanze: ad esempio, il rapporto tra gli acidi palmitico e stearico, due acidi grassi aventi formula C16H32O2 e C18H36O2, può indicare un'origine animale o vegetale del residuo, mentre il rapporto tra gli acidi oleico e vaccenico (aventi entrambi formula C18H34O2 ma struttura differente) può indicare una provenienza del grasso da animali marini piuttosto che terrestri. La presenza degli steroidi colesterolo e solesterolo (figura 264) è un'altro indicatore dell'origine del cibo: animale se viene identificato il primo, vegetale se il secondo. Inoltre la caratterizzazione dei residui alimentari può fornire indirettamente indicazioni sull'uso dei contenitori, se cioè siano stati utilizzati per la cottura o semplicemente per lo stoccaggio.

L'analisi di residui alimentari è particolarmente significativa quando essi sono rinvenuti all'interno di resti umani, in quanto fornisce indicazioni dirette sulle abitudini alimentari oltre che altre informazioni. In particolare, l'analisi del contenuto intestinale riguarda la dieta più recente, mentre l'analisi dei capelli può riguardare una dieta a lungo termine. Un caso molto famoso è lo studio concernente il cosidetto Uomo del Similaun (Ice Man in inglese), un cadavere rinvenuto nel 1991 su un ghiacciaio della Val Senales, sul confine tra Austria e Italia, a 3210 m di altezza (figura 265). Il cadavere, familiarmente noto come Ötzi, appartiene ad un uomo dell'età del Rame, risalente a circa 5300 anni fa. Il cadavere è stato analizzato con varie tecniche (figura 266). I residui trovati nell'intestino hanno indicato la presenza di fibre muscolari e resti di cereali: l'ultimo pasto fatto doveva essere a base di farinacei, carne e frutti spontanei; inoltre sono stati trovati pollini di Carpinella, una pianta che fiorisce in Maggio-Giugno e che vengono digeriti in 12 ore: è evidente che la sua morte è avvenuta in quel periodo dell'anno.

Oltre all'identificazione di singole molecole, si può utilizzare la tecnica dei rapporti isotopici sugli elementi principali, soprattutto carbonio e azoto. Analizzando un residuo alimentare, il rapporto tra gli isotopi 14N e 15N può discriminare tra legumi e non legumi, mentre il rapporto tra gli isotopi 12C e 13C può distinguere piante che si formano attraverso intermediari diversi (figura 267).

Un ruolo di primissimo piano tra gli alimenti hanno quelli fermentati, ottenuti da materie prime ricche in carboidrati. Prodotti da millenni, essi sono basati sulla reazione nota come fermentazione alcolica che prevede la conversione dello zucchero in alcol etilico, come mostrato per primo da Gay-Lussac nel 1810:

C6H12O6 ® 2C2H5OH + 2CO2

Il processo di fermentazione è in realtà assai più complesso e richiede l'intervento di un lievito, per esempio della specie Saccharomyces cerevisiae. Sapendo come trasformare la materia, gli antichi agivano di fatto già da chimici.

Tra le bevande fermentate, le più importanti sono birra e vino. La produzione di birra era nota in Mesopotamia almeno dal VI millennio a.C.; è interessante citare un poema sumero noto come Inno a Ninkasi inciso su una tavoletta risalente al XIX secolo a.C. (figura 268), che contiene una ricetta per fare la birra; un secolo dopo, il Codice di Hammurabi prevedeva pene dure per chi produceva birra annacquata. La materia prima è l'orzo, non a caso uno dei primi cereali ad essere coltivati dall'uomo; ricco di amido, l'orzo contiene lieviti che sono in grado di degradare questo polisaccaride a zuccheri più semplici secondo il processo di maltatura, a seguito del quale altri lieviti possono avviare la fermentazione alcolica nutrendosi di molecole per loro più idonee. Nel XV secolo d.C. gli Olandesi introducono l'uso del luppolo per dare alla birra un gusto più amaro e migliorarne le proprietà di conservazione. Residui di birra sono riconoscibili al microscopio ottico, in base alla loro microstruttura.

La fermentazione alcolica agisce anche nella produzione del pane, altro alimento di indubbia importanza culturale derivato da cereali. In questo caso, l'anidride carbonica che si forma resta intrappolata nel glutine facendolo lievitare e impartendo un gusto migliore, mentre l'alcol etilico si perde nella cottura. Anche i residui di pane sono riconoscibili al microscopio ottico.

Il terzo alimento basato sulla fermentazione alcolica è il vino. Ottenuto dalla vite (Vitis vinifera in Europa), il vino è originario probabilmente dalla zona asiatica tra il Mar Nero e il Mar Caspio; la viticoltura è nota a partire dal V millennio a.C., anche se è possibile il consumo fortuito di succhi fermentati antecedente questa data. Assai sviluppata in area mesopotamica, la coltivazione della vite si diffusa poi in Egitto, Grecia, Italia e Gallia dove divenne un prodotto di largo consumo, dal significato economico notevolissimo. Nel succo della vite gli zuccheri presenti, glucosio e fruttosio, sono già in forma monomerica quindi, a differenza della birra, non è necessario il processo di maltatura. Tra le numerose sostanze organiche presenti nel vino, alcuni acidi carbossilici come il malico e il tartarico possono fungere da marcatori nei residui individuabili nelle anfore. La più antica evidenza di consumo di vino, rilevata attraverso l'identificazione di tracce di acido tartarico in un giara neolitica, risale al 5400 a.C. nell'Iran settentrionale.

Altre bevande fermentate di cui è noto il consumo in antichità sono il sidro a partire dalle mele, il sakè dal riso e l'idromele dal miele.

Tra gli alimenti non fermentati, è interessante citare il caso del cioccolato. La pianta del cacao (Theobroma cacao) è coltivata in America da molto prima della conquista spagnola; i semi contengono acidi grassi per il 40%, amido per il 15%, proteine per il 15% e acqua. La bevanda che si ottiene dal cacao era molto popolare presso le civiltà precolombiane, in particolare tra i Maya. Una tazza rinvenuta presso un sito archeologico in Guatemala aveva impresso sulla superficie il nome del possessore, il simbolo per indicare "la sua tazza" e il geroglifico riportato nella figura 269; secondo gli studiosi questo carattere, che si legge ca-ca-u, avrebbe il significato di "cioccolato" e ciò è stato confermato dall'analisi chimica del residuo che contiene sostanze compatibili.

 

5.6.5 - Residui di origine animale

Fin dall'inizio della sua storia, l'uomo ha sfruttato le altre specie animali per ricavarne alimenti, ma anche per avere materie prime da utilizzare per la manifattura di utensili, di vestiario e in seguito di oggetti ornamentali. Rientrano quindi in questa categoria materiali di interesse artistico e tecnologico come quelli eburnei (avorio, corno), quelli derivati da pelli (pergamena, cuoio, pellicce) e i residui di interesse paleontologico (ossa). Tra i residui animali sono molto studiati i tessuti duri, cioè ossa, denti o corna, che subiscono nel tempo un degrado parziale ma non drammatico, mentre i tessuti morbidi sono ovviamente più soggetti a degrado chimico.

I tessuti duri sono rinvenuti spesso sotto forma di artefatti, come oggetti ornamentali o utensili. La composizione di questi materiali è in larga parte di natura inorganica, essendo costituiti prevalentemente da idrossiapatite, un minerale di calcio molto duro avente formula Ca5(PO4)3(OH). La parte organica è generalmente composta da proteine come il collagene. Tra questi materiali, di rilevanza sono il corno, l'avorio e l'osso; essi hanno composizione simile, data per circa 2/3 da idrossiapatite e per 1/3 da collagene.

L'avorio si ricava dai denti di alcuni animali, principalmente di elefante e mammuth ma anche di altri mammiferi quali ippopotamo, balena e tricheco. Chimicamente è simile all'osso e al corno, essendo composto da collagene e idrossiapatite, ma non ha vasi sanguigni per cui ha maggiore densità.

Le varietà di avorio sono distinguibili in base all'origine:

  • avorio di elefante, ricavato dalle zanne, è il più famoso; esso è costituito da dentina e a differenza dei denti umani non è ricoperto dallo smalto. Visto in sezione sottile, mostra le cosidette linee di Retzius che costituiscono una caratteristica unica; possiede grana fine e può essere lavorato facilmente

  • avorio di ippopotamo è il secondo tipo più comune; si ottiene dai canini inferiori e dagli incisivi che hanno due strati di dentina e lo smalto, differentemente dall'avorio di elefante; inoltre è più denso di questo e meno soggetto a degradazione chimica

  • avorio di tricheco proviene dai canini superiori dell'animale; è utilizzato principalmente per oggetti piccoli

  • avorio di capodoglio si ottiene da 30 denti di questo cetaceo; è simile a quello di tricheco da cui si differenzia per la presenza di globuli gialli nella dentina

  • avorio di bucero proviene dal casco o epitema di un uccello asiatico noto come Helmeted Hornbill, la cui fronte è costituita da una massa cornea molto dura; è particolarmente apprezzato dai Cinesei

  • avorio vegetale si ottiene dai semi della palma da avorio, una pianta sudamericana, la sua composizione è quindi cellulosa e non collagene

  • avorio sintetico può essere costituito da celluloide o da caseina, una proteina presente nel latte; in questi casi si parla di Avorio Francese, Ivoride, Ivorina, ecc.; questi falsi possono essere identificati con test chimici oppure osservando la tessitura che appare più regolare nei campioni sintetici, più irregolare negli avori naturali.

Alcuni tipi di avorio possono essere riconosciuti sulla base del loro spettro Raman (figura 270). Gli spettri da campioni di avorio di elefante di foresta, elefante di savana, mammuth, ippopotamo e capodoglio, per quanto molto simili, sono discriminabili mediante l'utilizzo della tecnica chemiometrica PCA: l'elaborazione dei dati spettrali consente di avere una netta differenziazione (figura 271) che si può applicare per il riconoscimento di campioni di origine incognita.

L'avorio, come altri materiali a composizione mista organica/inorganica, tende nel tempo a impoverirsi nella parte proteica a vantaggio della parte inorganica che si arricchisce di elementi provenienti dal terreno come fluoro, ferro, manganese o uranio, secondo un processo noto come diagenesi. Analizzando reperti antichi in avorio (un esempio di area mesopotamica del IX secolo a.C. è mostrato nella figura 272), si troverà che la cenere, composta da sostanze minerali, sarà in percentuale elevata mentre il contenuto di carbonio e azoto, indice del contenuto proteico, sarà inferiore al 10%; in campioni di avorio moderni le percentuali sono diverse e ciò rende possibile l'autenticazione dei reperti. Un confronto tra avorio africano moderno e reperti di avorio del IX-XIII secolo a.C. dal Medio Oriente è illustrato nella tabella 18.

Tabella 18 - Confronto tra avorio moderno e antico
Elemento Avorio moderno Avorio antico
Carbonio 16.2% 5%
Azoto 5.5% 1%
Cenere 53% 85%
Fluoro 0.1% 1.45

Un altro modo per verificare l'autenticità di un reperto eburneo consiste nella determinazione del rapporto isotopico 13C/12C; a differenza della determinazione elementare del fluoro (aggirabile da un falsificatore esperto di chimica), questo test risulta molto difficile da contraffare.

Nella figura 273 sono mostrati i famosi Lewis Chessmen, un set di pedine per il gioco degli scacchi probabilmente manufatto in Norvegia nel XII secolo d.C. e rinvenuto sull'isola di Lewis (Ebridi Esterne) al largo della costa nord-occidentale della Scozia. I 93 pezzi sono stati intagliati in avorio di tricheco e fanoni di balena; non è noto il motivo del loro ritrovamento in quella zona peraltro scarsamente popolata.

Per quanto riguarda i tessuti morbidi, essi deperiscono velocemente divenendo fragili o putrescenti. In antichità si utilizzava il processo di conciatura per rendere le pelli, composte dalla proteina collagene, più resistenti e impermeabili. Le pelli animali sono di particolare interesse, in quanto erano utilizzate come vestiti o rivestimenti, ma anche come supporti per la scrittura: le pergamene. La conciatura si effettuava con l'applicazione di oli o estratti vegetali, oppure con minerali come l'allume. Questo stadio era preceduto dalla rimozione del pelo o dei capelli con vari procedimenti, tra cui il trattamento con sostanze alcaline. Un alternativa alla conciatura era la feltratura, una combinazione di calore, pressione e umidità, nota dal VI millennio a.C. in Turchia.

L'uso delle pelli animali come supporto per la scrittura è documentato dal IV millennio a.C. in Egitto, durante la Quarta Dinastia. Nel II secolo a.C. viene inventata la pergamena presso la città di Pergamo, in Persia, alla quale essa deve il nome. L'invenzione potrebbe essere la conseguenza della necessità di trovare un'alternativa al papiro egiziano, divenuto troppo caro; in ogni caso, dal II secolo d.C. la pergamena soppiantò il papiro come supporto per la scrittura. La pergamena si preparava da pelle ovina, caprina, suina o bovina; quella ottenuta da animali più giovani, di più fine qualità, era chiamata vello. Per produrre la pergamena o il vello, la pelle animale veniva immersa in un bagno di calce viva per essere ripulita dalla carne, poi stirata su un telaio e scorticata con una mezzaluna quando era ancora umida. In seguito, poteva essere trattata con allume e rosso d'uovo o con la pietra pomice, per rendere la superficie liscia e morbida e quindi adatta a usi artistici o letterari, e infine sbiancata con gesso e tagliata a pezzi. Attraverso l'analisi al microscopio è possibile risalire alla specie animale da cui deriva la pelle. Anche l'analisi Raman permette la differenziazione (figura 274). Tracce di composti utilizzati nella preparazione, es. ioni solfato o carbonato e i loro prodotti di degradazione, possono essere identificati sulla superficie delle pergamene e fornire informazioni sulla tecnica di preparazione.

In epoca romana la pergamena era cucita in rotoli oppure in forma di tavolette note come codex, molto utilizzate nella Roma imperiale e nel Medioevo. Esempi molto famosi di pergamene sono i Rotoli del Mar Morto (figura 275), risalenti al II secolo d.C., i già citati Codici Porpora (figura 276) e la Vinland Map (figura 277), una mappa rinvenuta in un libro del XIII secolo e riportante i contorni del mondo eurocentrico, la cui autenticità è stata oggetto di amplissima discussione.

 

5.6.6 - Residui di origine umana

Il retaggio chimico di un popolo estinto risiede non solo nei suoi manufatti, ma anche nei resti umani che possono essere analizzati per ricavarne informazioni varie. Le sostanze assunte attraverso la dieta lasciano dei marcatori chimici che i moderni metodi di analisi sono in grado di rivelare.

Il metodo più potente per analizzare i resti umani, con particolare riferimento alla dieta, è l'analisi dei rapporti isotopici. Carbonio e azoto, presenti negli alimenti sotto forma di proteine, grassi, carboidrati, vitamine, ecc., hanno entrambi due isotopi stabili (12C e 13C, 14N e 15N). Il ciclo biogeochimico di questi due elementi è tale che quando le sostanze che li contengono si arricchiscono maggiormente di un isotopo piuttosto che dell'altro, si realizza un processo di frazionamento isotopico, a seguito del quale il rapporto tra i due isotopi dello stesso elemento si differenzia da un materiale all'altro. Queste differenze possono riflettersi negli alimenti e, in ultima analisi, negli organismi dell'uomo. Dall'analisi di ossa e denti, sia della parte organica costituita da collagene, sia di quella inorganica costituita da idrossiapatite, è possibile capire se la dieta del soggetto era basata su legumi, proteine o carboidrati, cibi di origine marina o terrestre, piante selvatiche o coltivate, vertebrati o invertebrati, ecc.; in particolare, il collagene riflette l'assunzione di proteine, mentre l'idrossiapatite riflette l'assunzione di grassi e fibre. In più l'analisi isotopica può rivelare differenze di dieta dovute a sottogruppi basati su censo, sesso ed età.

Anche l'analisi elementare può fornire indicazioni sulla dieta. Nel già citato caso dell'Uomo del Similaun, l'analisi dei capelli del cadavere ha mostrato alte concentrazioni di arsenico, rame, nickel e manganese, elementi spiegabili in ragione di un'attività legata alla metallurgia. Probabilmente egli era un ricercatore di metalli. Un altro tipo di informazione che si ha dall'analisi elementare delle ossa riguarda le condizioni patologiche. Particolarmente significativo è il caso del piombo; l'esposizione naturale a questo metallo è normalmente bassa, per cui i nostri antenati non hanno mai sviluppato meccanismi di espulsione nei suoi confronti. Ciò significa che casi di eccessiva esposizione provocano un accumulo che si evidenzia in modo particolare nelle ossa. Il contenuto di piombo nelle ossa di scheletri di epoca romana è stato trovato anomalmente elevato, tale da poter essere messo in relazione al fenomeno ampiamente noto del saturnismo che si dice abbia colpito gli abitanti di Roma a causa del rivestimento piombato delle tubature dell'acquedotto.

L'analisi delle ossa fornisce anche altri tipi di informazioni. Particolarmente critico è il rapporto tra gli ioni Ca2+ e Sr2+ nell'idrossiapatite: lo stronzio può sostituire il calcio in relazione alla posizione dell'organismo nella catena alimentare, un parametro noto come livello trofico. Il livello di stronzio tende a diminuire al crescere del livello trofico, in quanto gli organismi superiori sono in grado di discriminarlo a vantaggio del calcio, ione più idoneo per motivi strutturali. Così negli erbivori la concentrazioni di stronzio nelle ossa è massimo, mentre nei carnivori è minimo. La determinazione dello stronzio può perciò fornire indicazione sulla dieta e sul livello trofico dell'organismo studiato. Questa analisi può essere resa difficoltosa dal fatto che, a differenza del carbonio del collagene, la parte inorganica delle ossa tende a scambiare ioni con l'ambiente circostante secondo il già citato processo di diagenesi: elementi solubili possono essere rilasciati in condizioni umide ed elementi dal terreno possono essere assorbiti dalle ossa. In questo modo la concentrazione di stronzio può aumentare o diminuire in maniera da rendere inaccurate le conclusioni sul livello trofico. Fortunatamente è possibile rimuovere le impurezze diagenetiche preventivamente all'analisi con opportuni reagenti. Un altro elemento che risente del livello trofico è il bario che, essendo più grande del calcio e dello stronzio, causa una deformazione maggiore nell'idrossiapatite quando va a sostituire il calcio; l'organismo è quindi ancora più selettivo nei suoi confronti, determinando differenze più sensibili nei componenti della catena alimentare.

Il processo diagenetico, svantaggioso nei casi precedenti, può essere sfruttato vantaggiosamente per determinare l'età del reperto osseo. Tra le sostanze assorbite dalla matrice ossea in condizioni di interramento, lo ione fluoro può essere scambiato dal terreno con lo ione idrossido dell'idrossiapatite:

Ca5(PO4)3(OH) + F- ® Ca5(PO4)3F + OH-

Si forma così fluoroapatite, un minerale estremamente stabile che rimane fissato nelle ossa crescendo lentamente nel tempo. L'incremento di fluoro può fornire perciò un'indicazione dell'età dell'osso. Un'indicazione simile è data dall'uranio, assente naturalmente nelle ossa ma assorbibile dal terreno o derivabile per decadimento radioattivo di altri elementi. L'azoto, presente nel collagene (la parte proteica delle ossa) ha invece comportamento opposto: tende, cioè, a diminuire in ragione del processo di idrolisi del collagene che lentamente si degrada; la misura dell'azoto nelle ossa è nuovamente un'indicazione della loro età. Va notato che in tutti questi casi la datazione che si ottiene è relativa e non assoluta, in quanto è piuttosto difficile stabilire un livello di partenza; tuttavia, è possibile stabilire cronologie.

Alcune sostanze, tra quelle che compongono il corpo umano, sono in grado di sopravvivere all'azione degradativa dei microorganismi e dell'ambiente circostante e permangono nei resti umani, agendo così da biomarcatori. Una classe di composti che ha queste caratteristiche è quella dei lipidi o grassi. I lipidi sono particolarmente stabili nel tempo per via della loro insolubilità in soluzioni acquose e quindi sono scarsamente desorbibili dai supporti su cui si trovano, si tratti di ossa o di frammenti ceramici; per questo motivo sono spesso identificati in ossa rinvenute in ambienti di sepoltura sia aridi, sia umidi come le torbiere. Tra i composti lipidici ha particolare importanza il già citato colesterolo che si ritrova spesso nei residui di ossa e funge perciò da indicatore della dieta dei popoli antichi. I prodotti di degradazione che sono associati al colesterolo possono fornire informazioni sulle condizioni ambientali in cui era sepolto il soggetto del ritrovamento, es. in condizioni ossidative o anaerobiche, oltre ad indicare la presenza o meno di fenomeni diagenetici. La figura 278 mostra il cromatogramma ottenuto dall'analisi GC-MS di un residuo di tibia umana risalente al IV-VI secolo d.C.: la presenza di colesterolo e del suo congenere 7-cheto-colesterolo sono indicatori di un processo degradativo avvenuto in condizioni ossidative.

Materiali organici di origine umana di recente interesse sono i residui fecali. Essi possono dare informazioni interessanti sul comportamento umano, sulla dieta, su parassiti e malattie e sullo sfruttamento delle risorse territoriali. Il riconoscimento di questi residui e la loro estrazione dal terreno di siti archeologici permettono di effettuare analisi molto dettagliate. Utilizzando la tecnica cromatografica GC-MS, si possono individuare composti noti come 5b-stanoli (figura 279), appartenenti alla famiglia degli steroidi; questi composti si formano per effetto della flora batterica intestinale dei mammiferi e sopravvivono nel terreno all'azione del tempo, fungendo così da biomarcatori. Uno dei più importanti stanoli, il 5b-colestan-3b-olo o coprostanolo, è il principale steroide presente nelle feci umane e quindi permette di identificare il sito adibito a latrina in un'area di scavo archeologico. Un altro stanolo, il 5b-stigmastan-3b-olo, è invece collegato alla presenza sul sito di feci di animali erbivori e quindi consente di identificare aree anticamente sottoposte a concimazione. L'attribuzione dell'origine delle feci (se umana o da erbivori) è basata sul contenuto relativo dei due composti citati. Altri composti importanti in questo studio sono gli acidi biliari (figura 280), derivanti dal metabolismo del colesterolo nei mammiferi; anch'essi permangono immutati nel terreno e sono perciò utilizzabili come biomarcatori complementari agli stanoli. Il tipo di acidi biliari presenti nei residui fecali permette di riconoscere feci umane da feci porcine sulla base del contenuto relativo degli acidi litocolico, deossicolico, iocolico e iodeossicolico. In base ai risultati dell'analisi GC-MS su stanoli e acidi biliari è possibile formulare uno schema (figura 281) che permette la differenziazione dei residui fecali analizzati e quindi l'ottenimento di informazioni sull'utilizzo del sito investigato.

 

5.6.7 - Fibre e tessuti

L'uso di fibre per la manifattura di tessuti risale ad almeno 20.000 anni fa. Nella figura 282 è riportata una statuetta in avorio nota come Venere di Lespugue, attribuibile al 20.000 a.C.; essa fu rinvenuta presso Lespugue (Francia) e rappresenta la dea della fertilità. L'intaglio mostra chiaramente la presenza di un capo simile ad una gonna, composto da fibre ritorte. Resti di fibre ritorte sono stati trovati nelle grotte di Lascaux (Dordogna, Francia) e risalgono al 15.000 a.C.

La lana potrebbe essere la prima fibra ad essere utilizzata dall'uomo, se non altro per il fatto che la pastorizia ha origini antichissime, risalendo all'VIII millennio a.C. in Mesopotamia. Da lì la produzione della lana e del cashmere da ovini e caprini si diffuse nell'area mediterranea, mentre in Sudamerica si utilizzavano i camelidi come lama, alpacca, vigogna e guanaco. La composizione della lana è basata su una proteina di nome cheratina, assai diffusa anche nel corpo umano in quanto costituisce i capelli e le unghie.

Altra fibra di origine animale, la seta potrebbe essere stata introdotta attorno al 2500 a.C., ma sulla zona non ci sono dubbi: la Cina. Il monopolio cinese della produzione di seta giustificò l'esistenza di rotte commerciali, la famosa Via della Seta che la diffuse in Europa ai tempi di Alessandro Magno (IV secolo a.C.). La seta si ottiene come secrezione di alcuni vermi, principalmente della specie Bombyx mori. La composizione è prevalentemente proteica, essendo costituita da fibroina per il 72-74% e sericina per il 22-24%; il resto è costituito da residui minerali e da carotenoidi. In base alla sequenza di aminoacidi che compongono le proteine della seta è possibile distinguere la seta cinese, che deriva prevalentemente dal Bombyx mori, da produzioni ottenute con altre specie come una varietà mediterranea, il Pachypasa otus.

Di origine vegetale è invece il lino, prodotto dalla pianta omonima. I primi reperti di lino risalgono al VII millennio a.C. in Israele; esso era molto diffuso in Mesopotamia e in Egitto. Il lino compone quello che senza dubbio è il reperto tessile più famoso al mondo, la Sacra Sindone (figura 283). Chimicamente il lino è composto dal polisaccaride cellulosa, un polimero costituito da molecole di (-glucosio in catene di 2500-3000 unità.

Il cotone ha invece origini indopakistane oltre che sudamericane. Filature di cotone sono state datate al III millennio a.C. in Pakistan e altrettanto antica è la coltivazione in Perù, mentre nella regione del Golfo Persico l'uso risale al I millennio a.C. e in Grecia addirittura al II secolo d.C.. Il cotone si ricava da piante del genere Gossypium; anch'esso è composto prevalentemente dalla cellulosa. Altre fibre utilizzate in antichità di origine vegetale sono canapa e juta.

Anche le fibre tessili, sfortunatamente, si decompongono a causa dell'azione di batteri, funghi e insetti. Lo stato di degradazione nelle fibre di origine vegetale (lino, cotone, canapa, juta) può essere valutato attraverso il grado di depolimerizzazione della cellulosa, cioè il passaggio da catene polimeriche con un numero elevato di molecole di glucosio a catene più corte, che generano fibre più deboli.

Nei processi di manifattura utilizzati in antichità, la materia prima era trasformata per lo più meccanicamente (tramite filatura, intreccio, cardatura, ecc.) piuttosto che chimicamente. I residui che si ritrovano negli scavi archeologici sono perciò spesso sufficientemente integri da permettere, attraverso analisi chimiche o al microscopio, di risalire almeno al tipo di fibra originaria. In alcune situazioni ambientali, inoltre, la conservazione delle fibre è particolarmente favorita: a temperatura molto bassa (come nel caso dell'Uomo del Similaun), in assenza di ossigeno o in condizioni di estrema secchezza come nel deserto egiziano o giudeo. I residui di fibre tessili possono essere analizzati per risalire all'origine biologica con test chimici o al microscopio. Le fibre di origine vegetale sono identificabili come gruppo perchè, essendo composte da cellulosa, sono solubili in acido solforico concentrato; quelle di origine animale, di natura proteica, sono invece solubili in ipoclorito di sodio (NaClO). L'analisi SEM su sezione sottile e in senso longitudinale è poi in grado di definire maggiormente il tipo di fibra all'interno del gruppo.

 

5.6.8 - Legno e residui vegetali

La maggior parte dei residui di piante sono soggetti a degradazione chimica. Nondimeno, alcuni di questi residui possono fornire informazioni utili. Vegetali che possono essere studiati proficuamente sono semi, pollini e fitoliti, materiali di interesse soprattutto per i paleobotanisti.

Il più studiato tra i materiali vegetali è il legno che può dare indicazioni interessanti sul clima della zona ad esso circostante. La composizione del legno è dominata da tre gruppi di macromolecole: la cellulosa (40-45%) e l'emicellulosa (20-30%) che sono polisaccaridi, cioè polimeri composti da zuccheri, e la lignina (20-30%) che è un polimero composto da unità di alcol cinnamico. Il legno tende a degradarsi nel tempo, perdendo cellulosa e arricchendo in proporzione la percentuale di lignina, in modo che il rapporto tra carbonio e ossigeno può essere messo in relazione con l'età del legno in quanto la lignina è più ricca di carbonio rispetto agli altri polimeri. Il processo di degradazione causa inoltre lo sviluppo di una struttura fragile e spugnosa che ha tendenza a polverizzarsi.

I principali studi archeometrici sul legno sono quelli che riguardano la sua conservazione. Metodi di consolidamento di strutture legnose degradate sono stati sviluppati negli anni 60: essi prevedono l'irroramento con polimeri organici che ne irrobustiscono le proprietà meccaniche, con particolare successo nei casi eclatanti della nave da guerra svedese Vasa e del vascello inglese Mary Rose (vedi paragrafo 6.5).

Un altro tipo di pianta di interesse archeologico è il papiro (figura 284), la cui notorietà è legata all'uso che ne facevano gli Egizi come supporto per la scrittura, oltre che come fibra tessile, alimento o combustibile. I fogli di papiro si ottenevano con un procedimento analogo alla feltratura. Gli Egizi detenevano il monopolio sul papiro; in Grecia esso fu importato tramite la città siriaca di Byblos e fu chiamato bubliou, da cui deriva l'inglese bible. Grazie al clima secco dell'Egitto, centinaia di migliaia di documenti su papiro sono giunti dal III millennio a.C. fino all'epoca moderna per essere studiati e dare una moltitudine di informazioni sulla civiltà egiziana antica (figura 285).

La manifattura della carta da fibre vegetali è stata introdotta dai Cinesi nel II secolo d.C. e molto più tardi in Europa attraverso gli Arabi. L'uso era ormai consolidato nel XIV secolo. Il termine inglese paper deriva probabilmente da papyrus.

 

5.6.9 - Prodotti naturali

Nei materiali sinora descritti è sempre presente una struttura cellulare indicativa della provenienza biologica. Esistono altri materiali di origine biologica nei quali le cellule sono state eliminate dall'azione naturale o artificiale e le sostanze organiche si sono concentrate: i cosidetti prodotti naturali. Fin dalla preistoria l'uomo li ha utilizzati per moltissimi scopi, da quello alimentare (miele, alcol etilico) a quello ornamentale (ambra, coloranti) a quello tecnologico (colle, resine, bitumi). Lo stesso petrolio è forse il più importante dei prodotti naturali: esso deriva dall'azione plurimillenaria di temperatura e pressione su residui di piante.

Alcuni esempi di prodotti naturali sono:

  • le resine, essudati di piante composti prevalentemente da terpenoidi, sostanze organiche nella cui molecola si ripete l'unità strutturale dell'isoprene (figura 286)

  • materiali bituminosi, composti da miscele complesse di idrocarburi

  • materiali derivati dal collagene idrolizzato, utilizzabili come adesivi

  • cere, oli e grassi, composti da idrocarburi a catena lunga

Nella figura 287 è riportato il sigillo reale di Giovanni Senza Terra (XII-XIII secolo d.C.); le analisi con GC-MS hanno determinato che esso è composto di cera d'api.

Tra i prodotti naturali, un posto a parte spetta all'ambra per il suo pregio che la fa considerare a livello delle pietre semipreziose (figura 288). Omero cita spesso l'ambra nelle sue opere. Si tratta di un materiale che veniva ampiamente commerciato già nel Paleolitico, soprattutto dai paesi del Baltico verso la zona mediterranea. Essa è una resina fossile prodotta da conifere o da altri alberi (figura 289), avente un'età compresa tra 20 e 50 milioni di anni; come tutte le resine è composta prevalentemente da terpenoidi. La sua composizione può essere messa in relazione con la provenienza; in particolare, l'ambra baltica, detta anche succinite, è ricca di acido succinico, dal 3 all'8%, e ciò può essere messo in evidenza mediante il riconoscimento con la spettroscopia IR di segnali caratteristici (figura 290).

 

 

6 - Applicazioni della Chimica Analitica allo studio delle discipline umanistiche

6.1 - Autenticazione

6.1.1 - Introduzione

L'autenticazione degli oggetti d'arte o dei reperti archeologici è un campo in cui la Chimica Analitica può fornire un contributo particolarmente importante. La grande varietà di tecniche analitiche disponibili è in grado di generare un elevato numero di informazioni sugli oggetti, utili a verificarne l'autenticità.

La pratica di falsificare oggetti preziosi è antica almeno quanto le prime civiltà. Già Fedro nel I secolo d.C. scriveva:

"Ut quidam artifices nostro faciunt saeculo,

Qui pretium operibus maius inveniunt novis,

Si marmori adscripserunt Praxitelen suo,

Trito Myronem argento, tabulae Zeuxidem"

(Come fanno alcuni artisti nel nostro tempo, i quali trovano un prezzo maggiore alle (loro) opere, se hanno inscritto sul loro nuovo marmo Prassitele, Mirone sull'argento cesellato, Zeusi su di un quadro).

In epoca greco-romana era d'uso la produzione di monete false (figura 291), composte da metalli meno nobili di quelli impiegati nelle zecche ufficiali. Gli antichi Romani adoravano l'arte greca, e numerosi laboratori a Roma sfornavano grandi quantità di riproduzioni, al punto che esperti d'arte dicono che oggi è quasi impossibile distinguere ciò che è autenticamente greco dalle imitazioni romane. Durante il Rinascimento, invece, i falsari copiavano l'arte romana. Archimede potrebbe essere stato il primo cacciatore di falsi della storia quando verificò l'autenticità della corona reale aurea senza praticamente toccarla ma soltanto immergendola in acqua e calcolandone il peso specifico in base alla quantità di acqua spostata.

 

6.1.2 - Tecniche analitiche impiegabili negli studi di autenticazione

Tra le tecniche analitiche utilizzate nell'autenticazione degli artefatti ci sono le seguenti:

Tabella 19 - Tecniche analitiche per l'autenticazione degli artefatti
Tecnica Utilizzo
Datazione al radiocarbonio Misura dell'età di un artefatto
Fluorescenza UV Identificazione di riparazioni
Microscopia in luce polarizzata Analisi dei pigmenti
Analisi infrarossa Identificazione di pitture precedenti
Analisi ai raggi X convenzionale Identificazione di lavori precedenti sotto la superficie
Spettroscopia XRD Identificazione di composti cristallini
Spettroscopia XRF Analisi elementare
Analisi per attivazione neutronica Analisi elementare

La risorsa principale per scegliere la tecnica più idonea è il cosidetto buon senso del chimico, che però da solo non è sufficiente. In questo campo, infatti, è assolutamente fondamentale l'interazione tra il chimico analista e l'esperto di arte o archeologia.

Le tecniche analitiche non possono provare che un certo artista abbia creato il tale oggetto, ma possono escludere questa ipotesi provando che i materiali utilizzati erano indisponibili quando l'oggetto è stato presumibilmente creato.

I motivi per creare un falso possono essere almeno tre:

  1. ingannare un compratore rifilandogli una patacca (figura 292);

  2. ingannare una persona o un gruppo di persone per compiere un gesto goliardico (figura 293);

  3. ingannare una persona o un gruppo di persone per acquisire importanza (figura 294)

L'individuazione di un falso è diventata in epoca recente una lotta di abilità tra falsificatori ed esperti di analisi. Esistono infatti metodi di falsificazione così sofisticati che riescono a riprodurre l'usura del tempo sui materiali, utilizzando tecniche di invecchiamento; i falsificatori più abili, aventi nozioni di chimica archeologica, sono in grado persino di simulare le composizioni dei materiali antichi. Spesso, l'esperto analista di un museo che si occupa di rivelare i falsi è appena un gradino avanti rispetto al falsario.

Al giorno d'oggi, comunque, è piuttosto difficile che un falso non venga scoperto in breve tempo, in quanto tutti i grandi musei sono dotati di laboratori d'analisi con strumentazioni molto sofisticate; inoltre sono state create organizzazioni che si occupano specificamente delle truffe in campo artistico. Al proposito, può essere interessante consultare il sito http://www.museum-security.com (in particolare le pagine forgery1.htm, forgery2.htm e forgery3.htm) che contiene un ricco elenco di riferimenti sia alle organizzazioni che si occupano di falsi, sia a casi di falsificazioni famose.

Ci sono casi di falsi clamorosi, vere e proprie bufale (hoaxes in inglese) che hanno fatto epoca anche al di fuori dell'ambito strettamente scientifico. Il più famoso è forse il caso dei resti dell'Uomo di Piltdown, un teschio rinvenuto nel 1905 nella conta del Sussex, in Gran Bretagna, e ritenuto, prima della scoperta della sua falsificazione, l'anello mancante della catena evolutiva dell'uomo. Un altro oggetto sulla cui autenticità sono in corso da diversi anni studi scientifici è la Sacra Sindone di Torino.

Il cosidetto falso può essere individuato nei seguenti casi:

  • l'oggetto ha composizione completamente diversa da quella dichiarata

  • l'oggetto contiene sostanze non compatibili o in percentuali non compatibili con l'età storica attribuitagli

  • l'età dell'oggetto, determinata con metodi di datazione, non è compatibile con quella dichiarata

 

6.1.3 - Composizione del materiale diversa da quella dichiarata

La falsificazione completa di oggetti d'arte è una pratica comune, in particolare nel campo dei gioielli. Si tratta di ciò che viene chiamata in gergo la patacca: vetri venduti al posto di diamanti, vasi manufatti in epoca moderna spacciati per antichi, ecc.; fortunatamente è molto difficile falsificare completamente un oggetto in quanto, se si crea una copia stilisticamente perfetta ma con un altro materiale, ci sarà almeno una caratteristica che non sarà possibile replicare, dalla semplice composizione chimica alle varie proprietà chimico-fisiche. Parametri utili all'identificazione di una patacca possono essere:

  • la composizione chimica, a livello di elementi o di composti, sia in superficie sia in profondità

  • l'indice di rifrazione, utile anche per verificare se l'oggetto è composto da più parti assemblate insieme

  • il peso specifico o densità, proprietà alquanto specifica dei materiali, utile soprattutto per manufatti composti da una sola fase (es. pietre preziose, oggetti in puro oro o argento)

Nel caso più semplice è sufficiente un'analisi superficiale per identificare la patacca. L'analisi Raman delle pietre preziose, per esempio, fornisce un'impronta digitale che non concede possibilità di manipolazione: basta confrontare lo spettro del diamante e dello zircone, un probabile materiale utilizzato per falsi diamanti (figura 295).

 

6.1.4 - Composizione non compatibile con l'epoca dell'oggetto

Nella storia dell'arte, l'impiego di composti chimici differenti in epoche differenti è un dato ampiamente acquisito; in ogni periodo storico e in ogni area geografica sono stati utilizzati i materiali che erano disponibili e limitatamente alle tecnologie conosciute. In base a ciò, molto spesso è possibile attribuire ad un artefatto la sua collocazione temporale o geografica per motivi di interesse archeologico ma anche di autenticazione.

Ciò è particolarmente evidente per quanto riguarda l'uso delle sostanze coloranti, come è stato descritto nel paragrafo 5.5.13. Molti pigmenti o coloranti sono stati utilizzati dagli artisti in un intervallo temporale ben definito; la loro individuazione in artefatti attribuiti a epoche esterne a questo intervallo porta inevitabilmente a dubitare dell'autenticità degli artefatti stessi. Nel seguito sono descritti alcuni esempi di studi di autenticità basati sull'analisi dei pigmenti

6.1.4.1 - Autenticazione di papiri egiziani

L'analisi Raman è stata spesso utilizzata per identificare falsi documenti. Nel caso qui descritto, sei papiri appartenenti ad una collezione privata sono stati portati a Londra nel 1998 per essere messi all'asta. Cinque di essi, qui citati come Ramsete, Lotus (figura 296), Nefertari, Coppia e 3 Regine, erano attributi all'epoca di Ramsete II (XIII secolo a.C.) e uno all'epoca di Cleopatra (I secolo a.C.). Per determinarne l'autenticità, i papiri sono stati analizzati presso i Christoper Ingold Laboratories dello University College di Londra da un'equipe guidata dal Professor Robin J.H. Clark, forse il massimo esperto di spettroscopia Raman applicata allo studio dei pigmenti. Essi hanno utilizzato uno spettrometro Raman dotato di microscopio. Insieme ai sei papiri sospetti è stato analizzato un papiro autentico della XVIII dinastia, quella di Ramsete II, proveniente dal Petrie Museum (figura 297), per avere un confronto sui pigmenti utilizzati che dovrebbero costituire un gruppo piuttosto ristretto. I pigmenti identificati sui sei papiri sono elencati nella tabella 20; alcuni colori che non davano segnali Raman sono stati analizzati con il microscopio elettronico SEM e con il microscopio in luce polarizzata PLM, in modo da caratterizzare completamente le tavolozze utilizzate.

Tabella 20 - Pigmenti identificati nei papiri
Colore Pigmento

Anno

Papiri

   

 

Cleopatra

Ramsete

Lotus

Nefertari

Coppia

3 Regine

Petrie

Bianco Anatasio

1923

 

 

SI

SI

 

 

 

  Calcare

antico

SI

 

 

 

 

 

 

Blu Blu Egiziano

antico

 

 

 

 

 

 

SI

  Blu di ftalocianina

1935

SI

SI

 

 

SI

 

 

  Blu oltremare sintetico

1828

 

 

SI

SI

 

 

 

  Blu di Prussia

1704

 

 

 

SI

 

 

 

Bronzo rame

antico

 

 

 

 

 

 

 

Giallo Giallo Hansa

1910

 

SI

 

SI

 

 

 

Nero Carbone

antico

 

 

 

 

 

 

SI

Oro lega rame-zinco

antico

 

 

 

SI

 

 

 

Rosso a base organica

?

SI

 

 

SI

 

 

 

  Ocra rossa

antico

SI

 

SI

SI

 

 

SI

  Orpimento

antico

 

 

 

 

 

 

SI

  PR 112 ((-naftolo)

1939

 

SI

SI

 

SI

SI

 

  Pararealgar

antico

 

 

 

 

 

 

SI

Verde Malachite

antico

 

 

 

 

 

 

SI

  Verde di ftalocianina

1936

 

 

SI

 

 

 

 

Come si nota dalla tabella, nei papiri da autenticare l'analisi delle parti colorate ha mostrato la presenza di pigmenti evidentemente incompatibili con l'attribuzione temporale dei documenti. Consideriamo alcuni esempi:

  • nelle parti colorate in rosso, l'unico pigmento utilizzato in epoca Egiziana e qui identificato è l'ocra rossa; non ci sono tracce di vermiglio, orpimento o realgar, tre pigmenti di diffuso impiego, nè di pararealgar, un prodotto della degradazione fotolitica del realgar, che si identifica invece nel papiro autentico Petrie insieme all'orpimento (figura 298). Si registra invece la presenza di un colorante di natura organica (figura 299) che corrisponde al composto Pigment Red 112, a base di b-naftolo

  • nelle parti colorate in blu non si rileva in alcun caso, tranne che per il papiro Petrie, la presenza di Blu Egiziano, il più classico dei blu in epoca Egiziana, ma sono identificati alcuni pigmenti di epoca moderna (figura 300). In due casi si identifica la presenza di Blu oltremare, tuttavia l'immagine al microscopio evidenzia che esso è composto da piccole particelle di dimensioni uniformi e forma circolare regolare, una caratteristica tipica del pigmento di origine sintetica e non di quello di origine naturale ottenuto dal minerale lapislazzuli. Quest'ultimo pigmento, infatti, si ottiene per macinazione meccanica del minerale e non può avere a livello microscopico le caratteristiche descritte; inoltre è noto che in Egitto il lapislazzuli era utilizzato come pietra decorativa più che come pigmento

  • le parti colorate in oro e bronzo sono dovute ad una lega rame-zinco, secondo l'analisi SEM (figura 301)

  • le parti bianche sono dovute in alcuni casi al pigmento Bianco titanio, ottenuto dal minerale anatasio (TiO2) che in natura si presenta in realtà quasi sempre scuro a causa della presenza di impurezze; il processo industriale per la sua raffinazione è stato introdotto solo nel 1923

In definitiva, il numero elevato di pigmenti e coloranti di origine sintetica indica che i papiri sono stati decorati non prima degli anni '30-40 e quindi sono falsi. In essi, la tavolozza caratterizzata dalle tecniche impiegate è quasi completamente diversa da quella del papiro Petrie.

In un caso analogo, sempre studiato dal gruppo dello University College di Londra, un papiro rinvenuto nella Valle dei Re a Luxor e attribuito ad un'epoca remota è stato analizzato prima al microscopio e poi con la spettroscopia Raman. L'analisi al microscopio ha rivelato che il papiro era in realtà composto da lino e carta miniata; l'analisi Raman ha identificato la presenza di un derivato del chinacridone, una sostanza comunemente utilizzata nelle stampanti a getto d'inchiostro.

6.1.4.2 - Vinland Map

La pergamenta nota come Vinland Map è una mappa del mondo eurocentrico (figura 302) avente dimensioni di 28x40 cm, conservata presso la biblioteca della Yale University (Connecticut, USA). Fu rinvenuta nel 1957 all'interno di un libro chiamato The Tartar Relation, riportante il resoconto della spedizione in Mongolia di un frate di nome John de Plano Carpini. L'età della mappa, su considerazioni cartografiche, paleografiche e filologiche, sarebbe collocabile attorno al 1440. La sua importanza è legata al fatto che essa include nel disegno, oltre a Europa, Asia e Africa, la rappresentazione dell'Islanda, della Groenlandia e soprattutto, ancora più a ovest, di un'isola chiamata Vinilanda Insula unitamente ad un'iscrizione che parla della sua scoperta da parte di esploratori Vichinghi. L'isola potrebbe coincidere con la zona costiera dell'America Settentrionale, in particolare Labrador e Terranova. Questo anticiperebbe di almeno 50 anni la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo. Effettivamente è ben noto che i Vichinghi del norvegese Leif Ericson arrivarono alcuni secoli prima di Colombo sulle coste dell'Atlantico occidentale, nell'isola di Nantucket al largo della punta orientale del Massachusetts su cui crescevano spontaneamente piante di vite e per questo denominata Vinland (Terra del Vino); dei Vichinghi sono stati trovati resti di un insediamento a L'Anse-aux-Meadows, sull'isola di Terranova. Nondimeno la mappa, se autentica, avrebbe avuto un valore immenso in quanto sarebbe stata la più antica rappresentazione conosciuta del Nuovo Mondo. Essa avrebbe rivelato che gli Europei erano consci della scoperta dei Vichinghi e non la consideravano alla stregua di un mito nordico.

Tentativi di determinazione della provenienza della pergamena con analisi chimiche non portarono a risultati definitivi o di unanime accettazione. Sulla pergamena sono presenti linee nere e gialle sovrapposte. Nel 1974 e nel 1991, analisi effettuate dal microscopista Walter C. McCrone del McCrone Research Institute di Chicago mediante spettroscopia XRD e SEM, rilevarono sulle linee gialle la presenza di anatasio, un minerale avente composizione TiO2. Questa sostanza è nota nel settore pittorico in quanto forma il pigmento Bianco Titanio, ma il suo utilizzo è documentato a partire dal 1920 in quanto in precedenza, come già descritto, essa non era disponibile pura. L'ipotesi sarebbe quindi l'impiego di inchiostro nero per tracciare le linee e di inchiostro contenente anatasio per creare un effetto di ingiallimento atto a rendere l'apparenza di antichità. Altri studiosi sostennero comunque che questa sostanza poteva essere un prodotto di degradazione naturale dell'inchiostro utilizzato, e successivi esami con tecniche di analisi elementare evidenziarono la presenza di titanio ma in concentrazioni molto basse, tali da poter essere considerate come contaminazioni naturali degli inchiostri; inoltre, in tutta la mappa le linee gialle e nere distano tra di loro meno di 100 µm e sembra altamente improbabile che qualcuno possa aver tracciato circa 30 metri di linee con una tale precisione. Queste analisi segnarono quindi un punto a favore dell'autenticità della pergamena.

Gli studiosi continuarono a dibattere sull'autenticità della mappa; fu fatto notare che la Groenlandia era disegnata in modo troppo preciso per risalire al XV secolo. Finalmente, nel 2001 la pergamena fu analizzata dai già citati Christoper Ingold Laboratories dello University College di Londra. Le analisi vennero effettuate in più punti (figura 303), utilizzando uno strumento Raman portatile con laser rosso (l = 632.8 nm). Due colori erano presenti sulla pergamena: le righe gialle e tratti di righe nere sovrapposte alle gialle, ma in gran parte svanite. L'analisi delle righe nere fornì esclusivamente lo spettro riportato nella figura 304, indice di un inchiostro a base di carbone. L'analisi delle righe gialle mostrò un'elevata fluorescenza di fondo, dovuta probabilmente alla presenza di leganti organici come gelatina, ma non impedì la determinazione dell'anatasio (TiO2, spettro in figura 305), cioè lo stesso composto evidenziato nelle analisi degli anni '70. Va notato che l'anatasio fu identificato solo nelle righe gialle e non altrove sulla pergamena, a riprova che la sua presenza è intenzionale e non dovuta a contaminazioni ambientali. Per quanto riguarda il libro The Tartar Relation, in esso le linee nere appaiono ugualmente deboli e scolorite con toni bruni, tuttavia non mostrano lo stesso segnale Raman registrato per quelle nere della Vinland Map; probabilmente furono tracciate con un inchiostro a base di gallotannato di ferro, un prodotto comune in epoca tardomedioevale. Ciò sembrerebbe indicare che i due documenti non sono opera della stessa mano nello stesso intervallo temporale. Una particolarità dell'inchiostro a base di gallotannato di ferro è che, nel tempo, lo ione ferro tende a diffondere nella carta o pergamena, creando una colorazione marrone-gialla attorno alla traccia nera. Anche la Vinland Map mostra una colorazione gialla sotto le linee nere, ma gli spettri Raman non sono compatibili con l'attribuzione fatta per la Tartar Relation. L'ipotesi conclusiva fatta dal gruppo di Clark rinforza quella di McCrone, cioè che un esperto falsificatore abbia voluto ricreare l'effetto di deterioramento del gallotannato sulla pergamena, utilizzando l'anatasio per ingiallire i tratti scuri. La mappa è quindi ritenuta essere stata decorata nel XX secolo. La datazione al radiocarbonio della pergamena, effettuata solo nel 2002, ha stabilito che essa risale al 1434 d.C. + 11 anni ma questa data non è in alcun modo riferibile anche ai tratti colorati.

Nel 2002 il periodico The Sunday Times ha pubblicato l'opinione di un'esperta internazionale in fatto di esplorazioni del Nord Atlantico, secondo la quale fu un gesuita austriaco, padre Joseph Fischer, il falsario che disegnò la Vinland Map 70 anni fu su un foglio di pergamena ottenuto da un volume di manoscritti del 1440. L'esperta ritiene che la calligrafia sulla Vinland Map corrisponda a quella di padre Fischer e che costui, all'epoca considerato uno dei massimi esperti di carte del XV e XVI secolo, abbia realizzato il falso in preda ad una profonda depressione dopo che le sue credenziali accademiche erano state pesantemente messe in discussione da uno dei suoi rivali nel 1934.

Se i pigmenti sono i materiali per i quali più proficuamente si può sfruttare l'analisi chimica per la rivelazione dei falsi, esistono altri materiali la cui composizione ha valori discretamente omogenei a seconda dell'epoca storica e/o della collocazione geografica, tali da poter consentire la rivelazione di un falso. Alcuni esempi sono descritti nel seguito.

6.1.4.3 - La Placca di Sir Francis Drake

Nel 1579 Sir Francis Drake approdò in California durante la sua circumnavigazione del globo. La leggenda vuole che egli, a testimonianza della scoperta, fece incidere una placca di ottone (lega di rame e zinco) nella quale si dichiarava che quella terra si era arresa alla Regina Elisabetta I. In epoca più recente, nel 1936, un certo Beryle Shinn scoprì una placca metallica su una collina sopra la baia di San Francisco (figura 306). Analizzata da esperti di storia dell'UCLA, la placca fu ritenuta l'autentica Drake's plate, ovvero quella incisa per conto di Drake nel XVI secolo, di cui egli fa cenno nel suo libro The World Encompassed, pubblicato nel 1628. Fu subito dichiarato che "...uno dei tesori del mondo a lungo perduti è stato ritrovato!". In realtà ci furono da subito alcune obiezioni circa la sua autenticità, per lo più basate su aspetti stilistici o calligrafici: le lettere B, P, R, M ed N sembravano avere una forma curiosa, il linguaggio del testo era alquanto moderno e ci si riferiva alla Regina Elisabetta come alla Queen Elizabeth of England piuttosto che, come d'uso nel XVI secolo, a Elizabeth, by grace of God, Queen of England (figura 307).

Nel frattempo la chimica analitica era evoluta verso tecniche molto raffinate e sensibili, così come era accresciuta la conoscenza della composizione dei materiali archeologici. Si sapeva, ad esempio, che l'ottone prodotto in Europa fino ad almeno il XVII secolo conteneva percentuali di zinco non superiori al 28% per motivi legati alla difficoltà di miscelare al rame lo zinco ottenuto da minerali. Così, nel 1976 furono fatti tre piccoli campionamenti dalla placca destinati all'analisi presso il Research Laboratory for Archaeology and the History of Art alla Oxford University e presso il Lawrence Berkeley Laboratory. Ad Oxford i risultati delle analisi furono confrontate con quelli di 22 esempi di ottoni europei creati tra il 1540 e il 1720: nella presunta placca di Drake risultava un contenuto di zinco pari al 34.8% ( 0.4. A Berkeley il risultato delle analisi fu di 35.0%, a conferma del precedente. Inoltre, il contenuto di piombo fu trovato pari allo 0.05%, mentre negli ottoni più antichi il piombo era presente come impurezza o come addizione intenzionale in percentuali più elevate. Infine, le concentrazioni di elementi in tracce come antimonio, argento, arsenico, cadmio, calcio, ferro, indio, magnesio, nickel, oro, stagno e zolfo corrispondevano anch'esse a ottone prodotto nel XX secolo piuttosto che nel XVI secolo. Oltre al dato fornito dall'analisi chimica, di per sè sufficiente a determinare la non autenticità del manufatto, analisi tecnologiche confermarono l'ipotesi di un falso: la placca sembrava prodotta con un procedimento moderno piuttosto che sagomata a martello, l'unica tecnica nota ai tempi di Drake; lo spessore della placca non presentava variazioni superiori al 2%, un'uniformità impossibile da ottenere nel XVI secolo. Alla fine, i risultati delle analisi eseguite tra il 1975 e il 1979 furono incorporati in due resoconti formali nei quali si dichiarava che le analisi "...rendevano virtualmente certo che la placca non era un pezzo di ottone del XVI secolo", e il responsabile delle analisi ad Oxford dichiarò che riteneva "...del tutto irragionevole continuare a credere nell'autenticità della placca". Resta a tutt'oggi ignoto l'autore del falso.

6.1.4.4 - Busti in bronzo di Papa Paolo III Farnese

Un altro caso relativo a oggetti d'arte in lega è quello di una serie di sette piccoli busti in bronzo riproducenti il Papa Paolo III Farnese (figura 308), appartenenti alla National Gallery di Washington. I busti sono attribuiti all'artista Guglielmo della Porta, contemporaneo di Benvenuto Cellini (XVI secolo) e sono stati forgiati con la tecnica della fusione a cera persa, in linea con la tradizione storica del Rinascimento. Tuttavia, non esiste alcuna documentazione sui busti precedente agli anni '30. La loro autenticità è stata quindi verificata mediante spettroscopia XRF per determinare se la composizione del bronzo fosse compatibile con l'attribuzione temporale. L'analisi è stata effettuata senza prelevare campioni, irraggiando direttamente i busti e raccogliendo il segnale in fluorescenza X. Sorprendentemente, l'analisi elementare ha mostrato che i busti non sono in bronzo bensì in ottone. I risultati sui sette oggetti sono infatti i seguenti: rame 60-73%, zinco 23-36%, piombo 2-3% e stagno soltanto 1%. Inoltre il contenuto di zinco è insolitamente elevato per ottoni prodotti in Europa in epoca rinascimentale: come detto in precedenza, esso dovrebbe essere nell'intervallo 22-28%. Infine le impurezze di altri elementi sono molto basse, a riprova del'impiego di materie prime molto raffinate. In definitiva, i busti potrebbero essere creazioni del XIX o XX secolo.

6.1.4.5 - Metalli preziosi e loro impurezze

La determinazione dei metalli presenti nelle leghe utilizzate in oreficeria può dare indicazioni sull'autenticità degli oggetti preziosi. Gli oggetti in argento devono contenere sempre impurezze di oro e piombo, in quanto i metodi di raffinazione dei minerali impiegati in antichità non erano in grado di eliminare le tracce di elementi secondari. Siccome l'argento si trova in forma nativa associato ad oro oppure in minerali di piombo (galena), questi elementi lasciano residui che fungono da marcatori; un livello di concentrazione troppo basso deve far pensare a falsificazioni moderne ottenute con materie prime troppo raffinate per essere antiche.

Nelle monete d'argento di origine Sassanide (II-VI secolo d.C.), il livello di oro definisce chiaramente la distinzione tra monete autentiche e falsi (figura 309). Nel grafico riportato i falsi documentati sono quelli rappresentati con pallini bianchi: essi contengono sistematicamente una percentuale di oro inferiore allo 0.2%, tecnicamente possibile con argento molto raffinato quale si può ottenere attualmente o quale era stato ottenuto in tarda epoca sassanide, cioè dopo il V secolo d.C. come documentano esemplari di attribuzione certa.

Un altro punto-chiave per riconoscere i falsi oggetti in metallo prezioso sono le saldature. Nell'arte orafa antica si utilizzavano leghe contenenti oro, rame, argento o zinco. La presenza di altri elementi nei punti di contatto, cioè di applicazione della pasta di saldatura, può essere indice di un ritocco successivo oppure di una completa falsificazione. Un elemento particolarmente idoneo a identificare un ritocco postumo è il cadmio, metallo ignoto fino al XIX secolo come elemento puro ma di cui sono scarse le testimonianze anche in antichità; esso si può ricavare da minerali quali la greenockite (CdS). Se è vero che l'impiego non intenzionale di greenockite non può essere escluso in antichità, va considerato che il cadmio è un elemento estremamente volatile (fonde a 321°C e vaporizza a 768°C) e presubilmente veniva perso in fase di estrazione dal minerale. Un esempio di analisi delle saldature riguarda alcune spille longobarde di epoca medioevale. Nella figura 310 sono mostrate una spilla autentica (a) e una ritenuta falsa (b). Effettuando l'analisi XRF dei punti di saldatura si rileva una composizione oro-argento nel primo caso, ma oro-argento e cadmio nel secondo caso, come si nota dagli spettri della figura 311.

 

6.1.5 - Datazione non compatibile con l'età dell'oggetto

Spesso un falso può essere rivelato mediante la semplice determinazione della sua età storica, applicando una delle numerose tecniche di datazione. Queste tecniche, sviluppate per determinare l'età dei reperti a scopo archeologico, sono impiegate anche a scopo di autenticazione. A seconda del tipo di materiale, sono particolarmente utili le seguenti:

  • il metodo al radiocarbonio per materiali organici, contenenti cioè molecole a base di carbonio e idrogeno: questo metodo determina l'età di morte di un organismo di origine vegetale o animale, in base alla diminuzione dell'isotopo 14C nella sua struttura

  • il metodo della termoluminescenza per i materiali ceramici: esso determina l'età dell'ultima cottura di un reperto ceramico, in base alla luminescenza causata da elettroni fuoriusciti dalle loro posizioni per effetto di radiazioni, e rimasti intrappolati nel reticolo cristallino; queste particelle vengono espulse in modo irreversibile dal reticolo cristallino per azione della temperatura

  • il metodo al fluoro per materiali rinvenuti sotto terra, nei quali, attraverso un processo di diagenesi, il fluoro proveniente dal terreno sia stato assorbito dalla superficie del reperto prendendo il posto di altri ioni

6.1.5.1 - Uomo di Piltdown

Forse la più famosa bufala nella storia della scienza è quella relativa al cosidetto Uomo di Piltdown (figura 312). Si tratta di un ricco insieme di ossa, denti e frammenti di teschio rinvenuti tra il 1909 e il 1915 in una cava di ghiaia vicino a Piltdown, nella contea dell'East Sussex in Inghilterra. Lo scopritore fu un antropologo dilettante di nome Charles Dawson. Subito considerato oggetto di estremo interesse dagli studiosi dell'epoca (figura 313), i reperti vennero utilizzati per assemblare il teschio di quello che fu ritenuto il più antico antenato dell'uomo, da allora noto, appunto, come Uomo di Piltdown e chiamato Eoanthropus dawsoni dal nome dello scopritore. L'ampiezza della cassa cranica faceva pensare ad un individuo con un grande cervello, quindi avente un elevato grado di intelligenza; le mascelle, invece, avevano caratteristiche distintamente scimmiesche. In definitiva, l'Uomo di Piltdown poteva essere l'anello mancante della catena evolutiva, l'elemento di congiunzione tra l'uomo e la scimmia. L'età attribuita era di circa 500.000 anni. In realtà, successivi ritrovamenti in Africa rendevano incompatibile il suo inserimento nella catena evolutiva, che suggeriva un origine africana per l'uomo, ed è curioso pensare che inizialmente si pensò ai ritrovamenti africani come a dei falsi.

Nel 1953 furono presentate analisi di datazione al fluoro che, per la prima volta, suggerivano la non autenticità dei frammenti. Successivamente, analisi più dettagliate individuarono sulla superficie dei frammenti la presenza di solfato ferroso, dicromato di potassio e un composto organico, probabilmente Marrone di Vandyke, utilizzati forse per impartire ai fossili un colore rugginoso simile a quello dei materiali preistorici. I frammenti derivavano effettivamente da uno scheletro umano e da mascelle di scimmie, ma di epoca contemporanea, spezzati ad arte in modo da non far rivelare i punti di contatto e mescolati a frammenti di fossili autentici per favorire una datazione antica (figura 314). Sull'autore della bufala si sono fatte molte ipotesi. Le più accredite individuano il responsabile nello scopritore dei fossili, Charles Dawson; altri puntano sullo scrittore Arthur Conan Doyle, che avrebbe in questo modo perpetrato una vendetta ai danni dei circoli scientifici dell'epoca, colpevoli ai suoi occhi di non prendere sul serio le sue teorie esoteriche.

6.1.5.2 - Autenticazione di reperti ceramici

L'autenticità dei reperti ceramici può essere valutata con il metodo di datazione della Termoluminescenza. Questa tecnica permette di risalire all'epoca dell'ultima cottura dell'oggetto, quindi presumibilmente all'epoca della sua manifattura. Le caratteristiche della tecnica sono tali, tuttavia, che a volte la datazione può risultare fuorviante: se il reperto è stato soggetto a riscaldamenti successivi oltre a quello effettuato in fase di cottura, la luminescenza accumulata dall'epoca della cottura si perde irreversibilmente e quindi l'età del manufatto risulta più recente: questo può essere il caso di reperti sottoposti ad incendi. Un caso più curioso si può verificare quando reperti ceramici siano trafugati da tombaroli che non abbiano nozioni di chimica sufficienti. Se si trova un vaso in frammenti mentre si ha già pronto il compratore, per restaurarlo più in fretta è possibile che il pezzo sia messo ad asciugare in un forno, ma se la temperatura di essiccamento supera i 100°C, la radioattività che si è accumulata nei secoli scompare completamente e l'analisi di termoluminescenza non può che determinare la non autenticità del reperto. In questo caso un vaso autentico risulta falso per un errore del tombarolo.

6.1.5.3 - La Sacra Sindone

Senza dubbio tra i reperti storici più noti al mondo vi è la Sacra Sindone (figura 312), il drappo in lino conservato nel Duomo di Torino e ritenuto essere il lenzuolo funebre di Gesù Cristo, in virtù dell'immagine in negativo impressa in tutta la lunghezza del tessuto (figura 312). L'autenticità del manufatto avrebbe ovviamente implicazioni religiose fin troppo evidenti ed è per questo che nel 1978 fu creato un gruppo di lavoro internazionale denominato STURP (Shroud of Turin Research Project), incaricato di effettuare studi scientifici sul lino. La conclusione fu che l'immagine sulla Sindone non era un dipinto ma si era formata da prodotti di ossidazione della cellulosa contenuta nelle fibre di lino e da materiale ematico fuoriuscito da un corpo umano ferito. Uno studio indipendente, portato avanti nel 1979 dal già citato Walter McCrone con la microscopia a luce polarizzata, fornì invece risultati opposti e contrastanti con l'attribuzione storico-religiosa del lino: l'immagine sarebbe risultata un dipinto composto prevalentemente da ossido di ferro e cinabro per simulare il colore del sangue; non c'erano tracce di materiale ematico e, per di più, i due pigmenti erano identificati soltanto nelle zone dell'immagine (figura 312). Questi risultati furono confermati nel 1980 da analisi con le tecniche XRD e SEM-EDX che identificarono rispettivamente ocra rossa + vermiglio e ferro + mercurio + zolfo nelle aree dell'immagine. A quel punto lo STURP suggerì di effettuare sul lino, materiale di natura organica, un test di datazione con il radiocarbonio, che fu assegnato a tre laboratori independenti. Il risultato delle tre misure fornì una data relativa al XIV secolo, gettando una luce sinistra sull'autenticità del manufatto. In seguito ci furono contestazioni relativamente al protocollo seguito per la misura del 14C, alla significatività del campionamento e soprattutto al danno sofferto dal lino a seguito dell'incendio di Chambéry nel 1532, che potrebbe aver causato un errore non trascurabile nella misura di 14C, Misure successive effettuate da ricercatori russi, in condizioni di stress termico simili a quelle dell'incendio, dimostrarono la possibilità di un errore in eccesso nella datazione; la stessa possibilità si originerebbe in presenza di contaminati organici moderni inglobati nel lino. A sostegno della veridicità della misura 14C, e quindi dell'attribuzione del lino al XIV secolo, c'è la considerazione che per cambiare una data dal I secolo al XIV secolo sarebbe necessario un peso di carbonio moderno pari a due volte il peso della Sindone stessa (figura 312). La questione dell'autenticità della Sindone resta quindi apertissima.

 

6.1.6 - Altri falsi

Ci sono casi di falsificazione più sofisticati, in cui si utilizza il materiale effettivamente dichiarato ma alterato in maniera da aumentarne il valore. Prendendo in considerazione le pietre preziose, è noto che il loro valore dipende dalla grandezza, dal colore, dall'aspetto e dall'origine; alcuni di questi parametri possono essere artificialmente modificati. Un trattamento termico, per esempio, può migliorare il colore e la chiarezza di una gemma. Un altro esempio può essere l'unione di due frammenti di pietre preziose con un collante: il valore commerciale della pietra risultante è senza dubbio molto maggiore rispetto a quello dei due frammenti, e se si riesce a trovare un collante che non alteri l'indice di rifrazione della pietra (e quindi non riveli la frattura) il gioco è fatto. L'analisi chimica dell'oggetto nella sua globalità non potrebbe che confermarne l'autenticità, tuttavia un'analisi più accurata potrebbe rivelare la presenza del materiale estraneo, il collante appunto, che darebbe un segnale all'analisi Raman o IR assai diverso da quello della pietra preziosa.

 

6.2 - Studi di provenienza

6.2.1 - Introduzione

Un grosso contributo della chimica analitica all'arte e all'archeologia si ha attraverso le indagini di provenienza. È possibile individuare la provenienza di un manufatto sulla base di caratteristiche della sua composizione che siano specifiche del particolare sito da cui sono state prelevate le materie prime utilizzate per realizzarlo.

Affinché sia possibile eseguire indagini di provenienza con metodi scientifici deve essere soddisfatto il cosiddetto postulato di provenienza, secondo il quale la determinazione della provenienza di un materiale è possibile se esiste una qualche differenza chimica o mineralogica, qualitativa o quantitativa, tra le sorgenti da cui esso si ricava; questa differenza deve essere di entità maggiore rispetto alle differenze che si rilevano all'interno di una stessa sorgente.

L'individuazione delle differenze mineralogiche tra le sorgenti è di competenza dei geologi, mentre i chimici sono coinvolti in studi di provenienza basati sulle differenze nel contenuto degli elementi o dei composti costituenti il materiale o su differenze nella distribuzione isotopica di alcuni elementi.

Si è soliti suddividere gli elementi costituenti un materiale in base alla loro abbondanza nel materiale stesso, distinguendo tra:

  • elementi maggiori, presenti in concentrazione superiore al 1%

  • elementi minori, presenti in concentrazione pari a 0.01-1%

  • elementi in traccia o ultratraccia, presenti in concentrazione ancora inferiore.

La concentrazione degli elementi in traccia è in genere espressa in parti per milione (ppm) o parti per miliardo (ppb); potenzialmente, in ogni materiale di origine naturale sono presenti numerosissimi elementi a livello di tracce, mentre il numero degli elementi maggiori e minori è in genere limitato.

La determinazione della provenienza su basi composizionali è stata condotta con successo per molti materiali di interesse archeologico e storico-artistico tra i quali il marmo, la quarzite e in generale i materiali lapidei, le pietre preziose, alcuni metalli, alcuni pigmenti, la ceramica e l'ambra. Benchè le proprietà generali di questi materiali siano determinate dagli elementi maggiori e minori, l'origine geochimica delle materie prime può essere legata anche agli elementi presenti in tracce. Quindi, è possibile che il profilo elementare delle materie prime sia diversificato da sito a sito, cava, miniera o generico sito di estrazione, e che ciò si rifletta nella composizione dell'artefatto. Anche la distribuzione isotopica può essere utilizzata con successo per le indagini di provenienza: infatti, alcuni elementi mostrano una variazione del contenuto relativo dei vari isotopi in funzione delle differenti zone di estrazione.

La determinazione della provenienza di un artefatto non è comunque cosa semplice. Per ogni oggetto esistono numerose possibilità di reperimento delle materie prime, che ovviamente vanno tutte prese in considerazione nell'attribuzione dell'origine. Il materiale che si vuole studiare deve avere una composizione il più possibile omogenea, in modo da non generare errori nell'attribuzione dovuti a problemi di campionamento.

La conoscenza delle tecniche di lavorazione impiegate in antichità ci permette di capire quali sono i materiali più ideonei agli studi di provenienza. Ci sono due situazioni nettamente diverse:

  • alcuni materiali, in particolare quelli lapidei, non subiscono processi di lavorazione che modificano la composizione chimica originaria ed il manufatto mantiene inalterata la composizione del materiale estratto dalla cava, sia a livello di elementi maggiori e minori, sia a livello di tracce. In questi casi, lo studio di provenienza è potenzialmente più semplice, in quanto non sono presenti effetti di fattori non controllati e non controllabili. Risulta particolarmente utile la determinazione degli elementi in tracce che forniscono un'impronta digitale della materia prima

  • altri materiali, invece, subiscono l'effetto della lavorazione che agisce sulla composizione delle materie prime, trasformandole in qualcosa di chimicamente diverso. Ad esempio, la realizzazione di un oggetto in metallo è preceduta da un complesso processo di estrazione e lavorazione, dal quale si ottiene un materiale (il metallo) la cui composizione è notevolmente differente da quella della materia prima originaria (il minerale). Materiali che hanno caratteristiche di questo tipo sono la ceramica, il vetro e i metalli. In questo caso la relazione tra manufatto e materia prima diventa problematica; anzichè correlare il manufatto ad una specifica fonte di materie prime si può attribuirlo ad una specifica produzione, a patto di disporre di manufatti dello stesso materiale di cui sia stata determinata con certezza la provenienza sulla base di parametri archeologici. Questi campioni fungono da veri e propri standard per l'assegnazione di campioni ignoti.

 

6.2.2 - Tecniche analitiche impiegabili nelle indagini di provenienza

Per le indagini di provenienza si ricorre principalmente a tecniche che permettono di individuare e quantificare il contenuto degli elementi presenti nel campione. Generalmente, non è noto a priori quali elementi potranno fornire informazioni utili per la determinazione della provenienza (elementi discriminati). La quantificazione degli elementi maggiori fornisce in alcuni casi informazioni sufficienti ad individuare la provenienza dei manufatti, mentre in genere è la concentrazione degli elementi presenti a livello di tracce che costituisce una sorta di impronta digitale caratteristica delle differenti sorgenti. Per questo motivo è utile porsi nella condizione di poter determinare un ampio set di elementi, in modo che sia maggiore la probabilità che tra di essi si trovino quelli discriminanti.

Le caratteristiche che una tecnica analitica deve possedere per essere adeguata a produrre risultati utili per le indagini di provenienza sono principalmente:

  • la possibilità di ottenere risultati precisi ed accurati sulle matrici in esame

  • la possibilità di determinare la concentrazione di elementi presenti in quantità molto bassa (basso limite di rilevabilità)

  • la possibilità di isolare il segnale dell'elemento di interesse rispetto a quello degli altri componenti il materiale (selettività)

  • la possibilità di determinare più elementi contemporaneamente in nel corso di un'unica analisi (multielementarità)

  • la possibilità di eseguire analisi senza danneggiare il reperto (non-distruttività)

Le tecniche più utilizzate negli studi di provenienza sono quelle di analisi elementare. Tra queste si distinguono per la capacità di determinare un numero elevato di elementi:

  • l'analisi per attivazione neutronica (INAA)

  • la spettroscopia XRF

  • la spettroscopia con microsonda elettronica SEM

  • la spettroscopia PIXE

  • le tecniche di spettroscopia atomica (GF-AAS, ICP-AES, ICP-MS)

Alcune di queste tecniche sono nominalmente non distruttive o microdistruttive (INAA, PIXE), tuttavia, in alcuni casi, l'accuratezza dei risultati è garantita unicamente eseguendo l'analisi su porzioni prelevate dal reperto ed opportunamente pretrattate

Una metodica di grande potenzialità è poi l'analisi isotopica, effettuata mediante le tecniche TIMS o ICP-MS. Essa permette di determinare la distribuzione isotopica di un elemento, parametro che si mantiene invariato dalle materie prime ai manufatti, e di risalire quindi alla sorgente delle materie prime. Questa tecnica è particolarmente efficace nello studio dei materiali lapidei; inoltre, attraverso i rapporti isotopici del piombo è possibile risalire alla sorgente di materie prime di altri manufatti nei quali il piombo sia presente. Il piombo esiste in natura con quattro isotopi: 204Pb, 206Pb, 207Pb e 208Pb, con proprietà chimiche identiche. I nuclidi 206Pb, 207Pb e 208Pb derivano parzialmente (piombo radiogenico) dai processi di decadimento radioattivo degli isotopi 232Th, 235U e 238U, mentre il 204Pb ha origine esclusivamente radiogenica.

I rapporti tra i vari isotopi si modificano durante le ere geologiche in seguito a fenomeni di radiogenesi, per effetto dei quali si è determinata una diversa distribuzione isotopica del Pb in varie zone della crosta terreste. Oltre alla constatazione che esiste una diversificazione dei rapporti isotopici del piombo per minerali estratti in differenti zone, si è verificato sperimentalmente che le varie fasi del processo di estrazione e lavorazione del piombo, e degli altri metalli o minerali che lo contengono, non modificano significativamente la distribuzione isotopica di questo elemento nel corso della lavorazione della materia prima. Essa si mantiene inalterata anche durante il successivo processo di deterioramento del metallo. Su queste premesse è evidente che la determinazione dei rapporti isotopici del piombo è uno strumento molto promettente per gli studi di provenienza.

 

6.2.3 - Procedura analitica

Il percorso di indagine che congiunge la formulazione del quesito archeologico con le risposte di tipo scientifico è in genere lungo e complesso. Molti passaggi richiedono la valutazione di numerosi fattori sia archeologici sia specificatamente tecnici e devono quindi coinvolgere congiuntamente l'archeologo e il chimico. Schematicamente, si può considerare il percorso analitico complessivo suddiviso in cinque passaggi:

6.2.3.1 - Selezione dei campioni

Il termine campione è utilizzato per indicare sia la porzione di materiale da sottoporre all'analisi, sia l'insieme degli oggetti che sono stati selezionati per l'analisi da un insieme più numeroso. Ad esempio, da una collezione di vasi composta da 100 reperti si può estrarre un campione selezionando dieci pezzi; successivamente, procedendo all'analisi dei singoli pezzi, ciascuno di essi costituirà un singolo campione.

Caratteristica necessaria di un campione è quella di essere rappresentativo, deve cioè possedere tutte le caratteristiche dell'insieme da cui è stato estratto.

Il numero ed il tipo di campioni da considerare per la realizzazione di uno studio di provenienza dipendono principalmente dal tipo di materiale che si desidera sottoporre all'analisi. Per identificare la provenienza dei manufatti attraverso il confronto con materie prime estratte da varie sorgenti è necessario disporre di informazioni complete sulla composizione delle possibili fonti. Nel caso favorevole in cui le sorgenti di estrazione siano note e localizzate (cave di ossidiana, marmo e altre pietre) occorre prelevare da ciascuna un numero di porzioni adeguato per costituire un campione rappresentativo e confrontare i risultati ottenuti sulle sorgenti con la composizione degli oggetti indagati. Questi ultimi saranno ovviamente selezionati dall'archeologo in funzione del tipo di indagine che sta compiendo, mentre un parere scientifico è richiesto per valutare il numero di campioni che è necessario prelevare per caratterizzare in modo esauriente la composizione della sorgente.

A questo proposito occorre individuare l'intervallo caratteristico entro il quale si collocano le concentrazioni dei vari elementi all'interno di ciascuna sorgente. L'omogeneità o la disomogeneità intrinseca di ogni sorgente determina il numero dei campioni che è necessario prelevare per stimare correttamente il contenuto medio e l'ampiezza dell'intervallo di composizione.

Per materiali relativamente omogenei (ossidiana) sono sufficienti 5-10 prelievi in punti diversi per caratterizzare la composizione della sorgente, mentre per materiali meno omogenei (materiali lapidei), il numero di campioni deve essere considerevolmente incrementato.

Più complessa è la situazione in cui le possibili sorgenti di materia prima sono diffuse o del tutto sconosciute, come, ad esempio, i depositi di argilla per la produzione di ceramiche. Si può tentare di assegnare una provenienza cercando le relazioni di composizione tra i manufatti e tutte le numerose sorgenti possibili, per esempio analizzando molti campioni di argilla prelevati da tutte le cave note o che, per evidenze archeologiche o geologiche, avrebbero potuto essere utilizzate nell'antichità.

Questo approccio, tuttavia, è fortemente limitato dal fatto che la composizione dell'argilla può venire sostanzialmente modificata dalle procedure per la produzione del manufatto ceramico. In alternativa, l'archeologo può individuare possibili provenienze sulla base di criteri stilistici, del contesto di ritrovamento o altri criteri che ritiene significativi e sottoporre allo scienziato la verifica di ipotesi sulla provenienza di questi campioni. In questi casi non si identifica il luogo da cui sono state estratte le materia prime utilizzate per ottenere gli oggetti indagati, ma si individuano gruppi di reperti che hanno composizione simile e quindi, con ragionevole probabilità, hanno provenienza comune. Grande utilità hanno in questo caso i reperti di provenienza certa: campioni con iscrizioni, bolli o sigilli o scarti di fornace dei ceramisti possono costituire una base di confronto composizionale per i reperti con medesima provenienza.

6.2.3.2 - Campionamento del reperto

Questa operazione è necessaria quando non sia possibile impiegare tecniche completamente non distruttive. Come precedentemente accennato, il campionamento deve portare al prelievo di un campione rappresentativo, quindi occorre prelevare dall'oggetto una piccola quantità di materiale la cui composizione sia identica a quella dell'insieme complessivo che si desidera analizzare. Questo passaggio è molto delicato: se si preleva una porzione non rappresentativa oppure se si verificano delle modificazioni della composizione nel corso del campionamento (ad esempio a causa dell'inquinamento derivante all'utilizzo attrezzature non adeguate) i risultati dell'analisi chimica perderanno completamente di significato.

I materiali omogenei (metallo, vetro) non presentano in genere problemi per il campionamento: una volta escluse le parti superficiali corrose o alterate, un qualsiasi punto dell'oggetto è in grado di fornire campioni rappresentativi. La scelta della posizione e del tipo di campionamento dei materiali non omogenei (ceramica, materiali lapidei) è invece più delicata ed è forse il momento più importante dell'intero processo di analisi. Per il campionamento di reperti costituiti da questi materiali valgono alcune indicazioni:

  • devono essere scartati tutti quei punti per i quali la composizione può essere, per qualche motivo, differente da quella del corpo dell'oggetto (zone di materiale alterato, contaminato, reintegri, piedi e anse per i manufatti ceramici ecc.)

  • il peso di campione prelevato deve essere il maggiore possibile, per permettere eventualmente di replicare più volte l'analisi

  • se il materiale è costituito da particelle di dimensioni differenti, il rapporto quantitativo delle differenti frazioni dimensionali deve essere mantenuto nella porzione prelevata

Queste indicazioni sono spesso in contrasto con la necessità di preservare il più possibile l'integrità dell'oggetto di interesse archeologico, tuttavia occorre sempre tenere presente che un campionamento errato porta a risultati errati e che se non è possibile effettuare un campionamento significativo non ha senso eseguire l'analisi. Nonostante queste premesse, occorre considerare che meno di un grammo di materiale è in genere sufficiente per soddisfare le esigenze del campionamento per materiali non omogenei, e che meno di un decimo di grammo può essere sufficiente nel caso di materiali omogenei. Il prelievo può essere condotto rompendo un frammento o tagliando una porzione con una mola o un bisturi oppure ancora perforando il pezzo con una piccola punta in modo da ottenere una sufficiente quantità di polvere da analizzare.

Particolare attenzione deve sempre essere posta per preservare il campione da possibili inquinamenti esterni che possono alterare la composizione originaria.

6.2.3.3 - Preparazione del campione per l'analisi

Dopo il campionamento il materiale deve essere posto nelle condizioni di poter essere analizzato. La preparazione del campione all'analisi dipende dal tipo di campione e dal tipo di tecnica impiegata. Le procedure possono essere più o meno complesse: si può trattare di una semplice pulitura o di un trattamento di dissoluzione per tecniche che non possono analizzare campioni solidi.

6.2.3.4 - Esecuzione dell'analisi

Si tratta di passaggio che coinvolge esclusivamente le competenze dell'analista. L'analisi dei diversi materiali di interesse storico-artistico o archeologico, indipendentemente dalla tecnica analitica impiegata, presenta una serie di problematiche che sono comuni a tutte le analisi che riguardano elementi presenti in matrici reali complesse. Una procedura rigorosa dovrebbe sempre prevedere la verifica dell'accuratezza del metodo attraverso analisi di controllo eseguite su materiali di riferimento certificati o mediante procedure di intercalibrazione tra laboratori. Nel primo caso si tratta di analizzare campioni a composizione nota di materiale uguale o simile a quello sul quale si sta eseguendo lo studio. Purtroppo, solo un ristretto numero di materiali certificati è attualmente disponibile, ed è auspicabile che il numero di campioni di riferimento possa crescere di pari passo con l'interesse verso l'applicazione di indagini scientifiche allo studio del patrimonio artistico ed archeologico.

In alternativa, è possibile eseguire periodicamente analisi di campioni che vengono analizzati contemporaneamente e, possibilmente, con tecniche e procedure differenti, da altri laboratori (test di intercalibrazione). La presenza di eventuali discrepanze tra i risultati ottenuti dai vari laboratori è indice della possibile presenza di errori sistematici, che devono essere individuati e rimossi.

Tutte le tecniche che si impiegano nell'analisi quantitativa nelle indagini di provenienza sono di tipo comparativo, cioè la quantità dell'analita presente nel campione viene individuata attraverso una curva di taratura costruita sulla base della risposta strumentale che si ottiene da campioni a composizione nota (standard) realizzati in laboratorio.

Il problema principale che insorge nell'analisi di campioni reali riguarda la possibilità di disporre di standard adeguati, senza i quali è impossibile ottenere misure accurate. E' infatti necessario che il segnale strumentale dell'analita nello standard sia, a parità di concentrazione, della medesima intensità di quello prodotto dallo stesso analita del campione; in altri termini è necessario che la sensibilità dell'analisi sia identica per gli standard e per il campione. La sensibilità dell'analisi è in genere condizionata da molteplici fattori tra i quali giocano un ruolo fondamentale la composizione complessiva del campione stesso oppure, per i campioni solidi, la forma della superficie esposta all'analisi; appare quindi chiaramente che è complesso disporre di standard certamente idonei per eseguire la quantificazione corretta, soprattutto nel caso delle analisi non distruttive in cui il fattore geometrico può non essere completamente controllabile.

6.2.3.5 - Interpretazione dei risultati

Terminate la fasi dell'analisi, i risultati vengono raccolti in tabelle nelle quali ad ogni campione è associato il set di valori assunti dai vari parametri determinati (concentrazione degli elementi, rapporti isotopici) che, nel gergo statistico, sono denominati "variabili".

Lo scopo delle analisi è quello di mettere in evidenza eventuali similitudini composizionali tra i vari reperti e l'elaborazione statistica dei dati ha lo scopo di suddividere l'insieme dei campioni analizzati in gruppi formati sulla base delle similitudini nella composizione. Se è soddisfatto il postulato di provenienza, i gruppi ottenuti sono significativi dal punto di vista archeologico, in quanto sono costituiti dai campioni di uguale provenienza.

Solitamente si esegue una prima ispezione visuale delle tabelle che permette di individuare gli andamenti più evidenti. Successivamente si ricorre a semplici metodi grafici che possono mostrare in modo immediati i diversi raggruppamenti nel caso in cui il numero delle variabili considerate sia esiguo.

Il metodo grafico più semplice consiste nel rappresentare i dati con diagrammi bivariati; i tratta di grafici cartesiani bidimensionali, per i quali gli assi sono costituiti da coppie di variabili: ciascun campione è rappresentato da un punto le cui coordinate sono i valori assunti dalle due variabili. Ad esempio, caso dell'analisi isotopica del Pb, i risultati per ciascun campione sono i rapporti isotopici 208Pb/204Pb, 207Pb/204Pb e 206Pb/204Pb (tre variabili). Quindi è possibile costruire tre grafici in cui le variabili vengono considerate a coppie ed i campioni che hanno rapporti isotopici simili sono posizionati in aree circoscritte all'interno dei grafici; conseguentemente si individuano agevolmente i gruppi costituiti da campioni con distribuzione isotopica simile.

Nel caso di analisi effettuate con tecniche multielementari, il numero degli analiti considerati è in genere piuttosto consistente (fino a 60-70 elementi con la tecnica ICP-MS); questo si traduce in corpose tabelle di dati dalle quali l'informazione di interesse, e cioè la similitudine di composizione, non è di immediata individuazione.

Per superare questa difficoltà, si ricorre a tecniche statistiche di elaborazione dei dati (vedi capitolo 4) che permettono di isolare dall'insieme dei dati le informazioni utili ai fini dell'individuazione della provenienza. Il risultato dell'elaborazione è, in genere, un diagramma, costruito in modo che il confronto tra i dati sia più immediato rispetto alla semplice stesura tabellare.

 

6.2.4 - I materiali

6.2.4.1 - Materiali lapidei

Sono i materiali più idonei agli studi di provenienza. Tra le rocce sono particolarmente adatte quelle ignee di origine vulcanica come l'ossidiana e il basalto. Nell'ossidiana, la composizione è variabile per differenti colate, ma per effetto del flusso vulcanico è relativamente omogenea all'interno della medesima colata. Le tracce elementari contenute nell'ossidiana sono quindi una vera impronta digitale, diversa da sito a sito, che si mantiene nei manufatti da essa derivati. Le sorgenti di ossidiana in area mediterranea sono note (figura 340) e ampiamente studiate in archeometria. Un esempio di studio di provenienza di reperti è illustrato nella figura 341: nel grafico riportato, si nota come molte sorgenti note in antichità siano differenziabili sulla base del contenuto di bario e zirconio, due metalli presenti nell'ossidiana a livello di parti per milione. Nella figura 342 un altro studio considera elementi a concentrazione più elevata come calcio, magnesio, potassio, silicio e sodio: anche in questo caso le maggiori sorgenti sono differenziabili ed è possibile ricostruire rotte commerciali per il traffico di oggetti in ossidiana (figura 343).

Il marmo è invece di origine sedimentaria e i processi geologici di formazione non favoriscono, in genere, la presenza di elementi in traccia. Come conseguenza, questi elementi non sono omogeneamente distribuiti nel materiale e sono possibili ampi intervalli di concentrazione anche per campioni provenienti dalla stessa cava. Questa caratteristica limita la possibilità di riconoscere le differenti cave sulla base della composizione chimica. Tuttavia, una strategia alternativa molto efficace consiste nell'analizzare la distribuzione isotopica di alcuni elementi presenti nel marmo. La tecnica che si impiega è l'analisi isotopica che è basata sul fatto che durante il processo di formazione della roccia, alcuni fattori biologici e geologici determinano localmente un frazionamento degli isotopi di un elemento. Ciò significa che la distribuzione degli isotopi nelle rocce primarie viene mutata in maniera differente in relazione alle specifiche condizioni locali. I fattori di variazione sono:

  • fattori biologici (assimilazione minore degli isotopi a numero di massa maggiore) che agiscono nel primo stadio del processo di formazione del materiale, cioè il deposito e l'accumulo di sedimenti calcarei ad opera degli organismi marini

  • fattori geologici (mobilità maggiore degli isotopi più leggeri) che hanno effetto nel corso del metamorfismo dei depositi calcarei sedimentari dai quali deriva il marmo

Siccome al termine del processo di formazione della roccia, la composizione isotopica del materiale si mantiene immutata nel tempo, è possibile mettere in relazione manufatti in marmo con le cave da cui esso è stato prelevato anche molti secoli prima. Gli isotopi aventi maggior potere discriminante dal punto di vista della provenienza del marmo sono il carbonio (12C e 13C) e l'ossigeno (16O e 18O), i cui rapporti si mantengono relativamente costanti all'interno della medesima cava e hanno, invece, differenze significative tra cave diverse.

Un esempio di studio archeometrico sul marmo è descritto nel seguito. Si tratta di determinare la provenienza di 24 campioni di marmo bianco prelevati da sei costruzioni di epoca romana della città di Aosta, l'antica Augusta Praetoria. È noto che i Romani utilizzavano marmi provenienti in parte da cave italiche, in parte da cave site in altre località dell'impero, in parte da altri territori. L'origine dei reperti prelevati ad Aosta può quindi dare informazioni sulle attività commerciali in epoca romana relativamente al traffico di materiale lapideo. Sui 24 campioni prelevati ad Aosta sono state effettuate alcune determinazioni; le analisi citate comportano prelievi di piccole quantità di materiale dal campione (sono sufficienti pochi grammi):

  • esame petrologico su sezione sottile con microscopio

  • analisi delle fasi cristalline con la spettroscopia XRD

  • analisi chimica elementare con la spettrometria ICP-AES

  • analisi isotopica (carbonio ed ossigeno)

Come si nota dalla figura 344, alcuni campioni incogniti possono essere assegnati a sorgenti note in base ai valori dei rapporti isotopici di carbonio ed ossigeno; altri campioni non sembrano invece poter essere assegnati ad alcuna delle sorgenti prese in considerazione; è necessario quindi valutare altri parametri (figura 345) ma è anche possibile che si tratti di campioni provenienti da sorgenti locali o poco note. Per poter visualizzare tutte le variabili determinate, sono state applicate le tecniche dell'analisi multivariata, utilizzando l'analisi a cluster (CA) e l'analisi per componenti principali (PCA) sui dati chimici. L'analisi CA, mostrata sotto forma di dendrogramma nella figura 346, evidenzia che i 24 campioni considerati in questo studio si raggruppano in tre gruppi ben distinti:

  1. un primo gruppo (campioni da AP501 ad AP14) di provenienza ignota, probabilmente locale

  2. un secondo gruppo (campioni da AP401 ad AP101) le cui caratteristiche sono omogenee e riconducibili alle cave di Carrara o di Paros, in Grecia; in questo caso è difficile distinguere le due provenienze in quanto i dati dell'analisi isotopica per i due siti si sovrappongono

  3. un terzo gruppo, infine (campioni da AP306 ad AP6), le cui caratteristiche omogenee sono riconducibili al marmo proveniente da cave dell'Asia Minore

Questa classificazione in tre gruppi è stata confermata dall'analisi PCA i cui risultati sono riportati nella figura 347 sotto forma di plot bivariato tra la prima PC (componente principale) contro la seconda PC e la prima PC contro la terza PC. I grafici consentono di evidenziare due gruppi, coincidenti con i primi due gruppi identificati dall'analisi a cluster, e alcuni outliers, cioè campioni le cui caratteristiche sono differenti da quelle degli altri gruppi e globalmente coincidono con il terzo gruppo dell'analisi a cluster. Nell'inserto della figura è mostrato anche il grafico dei loadings, che mostra quali sono le variabili che differenziano maggiormente i due gruppi; risultano particolarmente diversi il contenuto di ferro e manganese. Anche i valori dei rapporti isotopici sono sufficientemente diversi, confermando che i campioni sono di origine molto differente. Questi risultati sono complementari rispetto a quelli ottenuti con l'analisi a cluster.

Le conclusioni che si possono trarre dallo studio archeometrico sono le seguenti:

  • metà dei campioni provengono da sorgenti non riconducibili a quelle note e sfruttate in epoca romana

  • alcuni campioni provengono dalle cave di Carrara e/o Paros

  • alcuni campioni provengono dall'Asia Minore: Proconnesos (mar di Marmara) e Dokimeion (Anatolia occidentale). Queste possibilità di scambi commerciali sono confermate dalle indicazioni degli archeologi in quanto è noto che questi marmi asiatici arrivassero a Roma in grande quantità

  • le indicazioni delle due tecniche chemiometriche sono simili ma complementari

Oltre alle pietre a base carbonatica, i materiali lapidei che si incontrano nello studio dei beni culturali includono una elevato numero di pietre a base silicea, tra cui la quarzite (Colossi di Memnone in Egitto) o le grandi pietre di Stonehenge (arenaria). I Colossi di Memnone sono stati studiati approfonditamente in una famosa ricerca dei primi anni '70 pubblicata su Science, in cui la tecnica di analisi per attivazione neutronica (INAA) è stata impiegata per determinare la sorgente da cui proveniva la quarzite di cui sono costituiti i Colossi. Come descritto nel paragrafo 5.1.3, i Colossi sono stati scolpiti a partire da due monoblocchi di quarzite, la roccia più dura tra quelle impiegate per monumenti di grandi dimensioni. Viste le dimensioni più che ragguardevoli dei blocchi, gli archeologi si posero il problema di identificare la cava da cui essi erano stati prelevati. Esistevano in Egitto non più di sei cave di quarzite (figura 348) con pietra dalle caratteristiche idonee alla scultura; di queste, la più vicina alla zona dei Colossi (nella piana occidentale di Tebe) si trova a 60 km a monte di Tebe. Nello studio non sono state considerate cave senza ragionevole accesso al Nilo, per l'impossibilità di trasportare pesi così elevati su terreno collinoso e a così grande distanza; sono quindi state scartate le cave del Sinai e di Wadi Natrun. Le possibili sorgenti di quarzite sono riassunte nella tabella 23:

Tabella 23 - Possibili sorgenti di quarzite
Sorgente Area geografica Distanza dai Colossi (km)
Gebel el Ahmar Cairo 676 nord
9 km nord di Edfu Edfu 97 sud
8 km nord di Edfu Edfu 98 sud
8 km sud di Edfu Edfu 114 sud
Silsileh Silsileh 148 sud
Gebel Osman Assuan 214 sud
Valle di Osman Assuan 214 sud
Gebel Simeon Assuan 214 sud

L'analisi INAA è stata effettuata su un numero elevato di campioni prelevati sia dai Colossi, sia dalle cave. Nella figura 349 è mostrato il contenuto di ferro ed europio determinato nei campioni di quarzite delle cave. Se confrontiamo questo grafico con quello relativo all'analisi INAA dei campioni di quarzite prelevati sui Colossi (figura 350), è facile concludere che la sorgente più probabile dei blocchi è quella di Gebel el Ahmar, vicino al Cairo. Non è noto il motivo per cui gli antichi Egizi abbiano scelto di trasportare due blocchi di 700 tonnellate per circa 680 km in direzione sud a sfavore di corrente, ma l'evidenza della risposta scientifica è stringente. Alcune parti di una delle due statue hanno però una concentrazione di ferro ed europio compatibile con le cave di Assuan, come è confermato anche dal grafico ferro-cobalto (figura 351). Questo è spiegabile storicamente con l'intervento restaurativo fatto eseguire dall'imperatore Settimio Severo nel III secolo d.C., che fu effettuato prelevendo blocchi da cave più vicine.

6.2.4.2 - Pietre preziose

Tra i materiali lapidei, sono particolarmente importanti gli studi di provenienza sulle pietre preziose o gemme, a causa del loro valore intrinseco. Una gemma può risultare più o meno pregiata a seconda della sua origine, oltre alla necessità di determinarne l'autenticità. Le gemme sono minerali e hanno quindi struttura cristallina. Esse contengono impurezze metalliche disperse nel reticolo cristallino, intrappolate durante il processo di formazione. Queste impurezze sono importanti per due motivi: possono influenzare il colore della gemma (ioni metalici come Cr3+, Cu2+, Fe2+, Fe3+, Mn2+, Mn3+, Ni2+, UO22+ e V3+) e la loro distribuzione può essere impiegata per determinare l'autenticità e la provenienza della gemma. Evidentemente è necessario impiegare tecniche non distruttive. Le più idonee per la determinazione dei metalli sono la XRF, la PIXE e l'ICP-MS con laser ablation, strumenti abbastanza comuni nei laboratori gemmologici.

Alcuni studi recenti hanno evidenziato la possibilità di stabilire la provenienza di rubini in base al contenuto degli elementi cromo, ferro, gallio, titanio e vanadio che differenziano i rubini provenienti dai tre principali tipi di deposito geologico: marmo (Afghanistan, Burma, Vietnam), basalto (Cambogia, Thailandia) e metasomatico (India, Kenia, Sri Lanka) come si nota nel plot bivariato riportato nella figura 352. L'analisi dei rubini è totalmente non distruttiva (figura 353). I rubini sintetici e naturali possono poi essere differenziati sulla base dei metalli in tracce in quanto i cristalli cresciuti in laboratorio hanno variazioni più contenute rispetto a quelli cresciuti naturalmente. In un altro studio, è stata investigata la possibilità di utilizzare la tecnica ICP-MS con Laser Ablation per caratterizzare l'impronta digitale o fingerprinting di diamanti provenienti da varie zone. I risultati preliminari sembrano promettenti, come si può notare dalla figura 354: i diamanti provenienti da Botswana, Canada, Russia e Sudafrica sono chiaramente distinguibili. La modalità di campionamento Laser Ablation permette di effettuare l'analisi senza campionamento, come è noto; il possibile danno al diamante è illustrato nella figura 355.

Un'altra tecnica impiegata per determinare la provenienza delle gemme è la spettoscopia Raman. In questo caso si determinano le inclusioni, costituite da minerali o più genericamente da molecole. Esse possono risultare caratteristiche da miniera a miniera. Inoltre il Raman può distinguere le pietre naturali da quelle sintetiche.

6.2.4.3 - Materiali coloranti

Nel campo dei materiali coloranti gli studi di provenienza sono in fase di sviluppo. Dal punto di vista geochimico, i minerali di cui i pigmenti sono composti e i depositi di materia prima hanno composizione eterogenea a livello di impurezze; risulta impossibile la correlazione tra il minerale e il sito di prelievo. Migliori risultati si hanno con l'analisi isotopica, determinando i rapporti tra 16O e 18O oppure tra gli isotopi del piombo. Uno studio interessante che sfrutta l'analisi isotopica è quello relativo al dipinto di Raffaello Dama con Liocorno (figura 356), conservato presso la Galleria Borghese a Roma. In questo dipinto sono stati determinati i rapporti isotopici del piombo per identificare la provenienza dei pigmenti, in particolare del Bianco Piombo o biacca utilizzata come sfondo per apporre i vari colori. Questi valori possono permettere di identificare le aree minerarie da cui è stato estratto il minerale di piombo (galena, PbS) utilizzato per la manifattura del pigmento; i valori cadono in intervalli ristretti legati al periodo e al luogo di esecuzione delle opere: in altre parole, la biacca utilizzata da artisti che hanno operato nella stessa epoca e nella stessa area geografica è caratterizzata da rapporti isotopici simili. Nella figura 357 i risultati ottenuti per la Dama con liocorno vengono messi a confronto con quelli di altre opere di Raffaello e di artisti legati allo stesso ambito pittorico. I valori di indice isotopico (un parametro di confronto globale) sono molto simili e significativamente diversi da quelli determinati in opere di altri autori. Per determinare con accuratezza la sorgente di materia prima utilizzata da Raffaello è necessario investigare le principali miniere di galena sfruttate nel Rinascimento; lo studio è attualmente in corso.

Un altro studio di analisi isotopica, basato sugli isotopi dell'ossigeno, riguarda campioni di ocra rossa rinvenuti in un sito archeologico aborigeno dell' Australia Centrale chiamato Puritjarra. L'ocra rossa era molto importante presso gli Aborigeni, i quali la impiegavano per usi tribali, ed è noto che le ocre provenienti dalle sorgenti migliori erano oggetto di scambio anche a distanza di centinaia di km nell'arido interno del continente australiano. Diventa quindi molto importante poter ricostruire le rotte commerciali. In questo studio-pilota si è verificato che i valori di rapporto isotopico 18O/16O in ocre provenienti dalle sorgenti limitrofe a Puritjarra sono significativamente diversi e permettono l'identificazione della sorgente più probabile.

6.2.4.4 - Materiali vetrosi

Gli studi di provenienza sul vetro sono numerosi, visto il valore degli artefatti vetrosi e l'importanza del relativo commercio. Tuttavia, gli studi non permettono di identificare l'origine delle materie prime, essendo il vetro un materiale composito in cui molte sostanze sono impiegate e trasformate per dare il prodotto finale. Si può perciò riconoscere soltanto la similitudine di un reperto vetroso incognito con produzioni note. Gli studi sono sempre basati sulla distribuzione degli elementi e impiegano quindi tecniche analitiche elementari come XRF, spettroscopia atomica, PIXE o INAA.

Un esempio di studio di provenienza è il seguente: si tratta di riconoscere frammenti di vetri Art Nouveau di due produzioni diverse (Tiffany e Loetz, le più famose) da vetri moderni (Jack Ink e Stini Art). I vetri Art Nouveau iridescenti sono di grande valore e sono oggetto di imitazioni. L'analisi dei frammenti, effettuata con la tecnica XRF, fornisce i risultati illustrati nella figura 358 dove i dati sono trattati con la tecnica chemiometrica PCA. I vari gruppi di frammenti sono chiaramente differenziabili, ed è quindi possibile riconoscere un autentico vetro Art Nouveau (limitatamente alle produzioni considerate) da un'imitazione moderna.

6.2.4.5 - Materiali ceramici

La ceramica si produce dall'argilla e questo è un punto di partenza sfavorevole dal punto di vista degli studi di provenienza, in quanto i depositi di argilla, formati in natura per effetto dell'azione degli agenti atmosferici sulle rocce, possono essere molto diffusi e sono generalmente caratterizzati da una scarsa omogeneità nella composizione elementare. Un secondo punto a sfavore è dato dal fatto che la composizione di un manufatto in ceramica dipende solo parzialmente dalla composizione originaria dell'argilla. Prima della lavorazione, infatti, l'argilla può subire un trattamento di selezione in cui vengono eliminate le particelle di dimensioni maggiori, costituite dai componenti non argillosi, con conseguente modificazione della composizione iniziale. Durante la lavorazione possono venire aggiunte all'impasto le cosidette tempere, sostanze aventi funzioni varie, e i fondenti che favoriscono la fusione dei granuli costituenti l'impasto e accrescono la durezza del prodotto finito. Infine, durante la cottura alcune sostanze nell'impasto modificano la loro struttura o si decompongono.

I processi di lavorazione e la grande diffusione delle possibili fonti di materiale argilloso limitano quindi la possibilità di correlare direttamente la composizione di un reperto in ceramica con quella delle probabili sorgenti dell'argilla. Per questo motivo, ove possibile, si preferisce tentare di individuare la provenienza dei reperti in ceramica confrontando la composizione dei campioni incogniti con quella di specifici gruppi di controllo. Questi sono costituiti da reperti che, per qualche motivo, hanno provenienza nota; ad esempio, possono costituire un gruppo di oggetti con bolli, sigilli o iscrizioni che testimoniano il luogo di produzione, oppure cocci rinvenuti nei resti delle antiche botteghe dei ceramisti.

La letteratura scientifica riporta i dati analitici relativi ad alcuni gruppi di controllo per specifiche produzioni locali. Occorre sottolineare che è necessario confrontare tra loro solo oggetti con caratteristiche simili. Ad esempio, considerando due reperti in ceramica rinvenuti in Attica, un vaso a figure rosse (prodotto di maggior pregio) ed un'anfora (prodotto più comune) avranno in ogni caso composizione differente anche se prodotti con argilla prelevata dalla stessa cava: in questo caso, infatti, il diverso processo di lavorazione dell'argilla impiegato per ottenere i due oggetti si traduce in una differente composizione del prodotto finito.

Gli studi di provenienza su reperti ceramici sono sicuramente i più numerosi nel campo archeometrico. Produzioni assai diffuse come la Terra Sigillata o la ceramica greca sono state ampiamente studiate dal punto di vista della composizione, in modo tale che sia possibile confrontare reperti di tipologie analoghe ma di provenienza ignota. Nel caso presentato, sono presi in considerazione 45 frammenti di ceramica provenienti da scavi archeologici ad Aosta, dei quali 21 del tipo Terra Sigillata e 24 di tipo comune, risalenti al I-II secolo dopo Cristo. La ceramica Terra Sigillata era particolarmente pregiata in epoca romana, e il suo ritrovamento è indice di una produzione ceramica di qualità (se locale) o di importazioni di oggetti pregiati (se proveniente dall'estero). Dal punto di vista stilistico, la Sigillata si distingue per l'esistenza, sulla superficie, del marchio di fabbrica o sigillo apposto dal ceramista per personalizzare la propria produzione. Naturalmente non tutti i frammenti rinvenuti contengono il sigillo e per questo motivo è necessario rivolgersi all'analisi chimica per poter avere informazioni sulla provenienza del reperto ceramico. Nel caso dei frammenti rinvenuti ad Aosta, il problema è duplice:

  • le produzioni locali sono differenziabili da quelle di importazione? Ciò è importante per stabilire l'esistenza di rotte commerciali con altre zone dell'impero (figura 359)

  • la Terra Sigillata è differenziabile dalla ceramica comune? Questo è importante nei casi di attribuzione incerta sulla base di parametri esclusivamente stilistici

I 45 campioni sono stati analizzati con tecniche di spettroscopia atomica che richiedono il prelievo di pochi milligrammi di campione. Sono stati determinati 12 elementi: Al, Ba, Ca, Cr, Cu, Fe, K, Mg, Mn, Na, Sr e Ti. L'analisi multivariata applicata ai dati ottenuti ha dato risultati molto interessanti. Innanzitutto, è stato confrontato il contenuto di ossido di calcio e ossido di magnesio nei campioni con quello di campioni a provenienza certa (figura 360): ne risulta che alcuni campioni sono riconducibili a centri di produzione della Gallia. Successivamente è stato riportato in grafico il contenuto degli elementi bario e cromo, presenti a livello di tracce nei campioni (figura 361): da questo diagramma risultano evidenti due gruppi di campioni nettamente distinti. In seguito sono state effettuate l'analisi CA e l'analisi PCA, che hanno preso in considerazione tutte le variabili a disposizione. Nel caso della CA, si è ottenuto il dendrogramma riportato nella figura 362, nel quale si evidenzia l'esistenza di tre gruppi ben distinti; nel caso dell'analisi PCA si sono avuti risultati analoghi, come si può vedere dal diagramma PC1-PC2 (figura 363). Dalle informazioni ricavabili con l'analisi chimica, con il trattamento multivariato dei dati e con il confronto di questi ultimi con campioni a provenienza certa, e in base a considerazioni stilistiche, si possono trarre le seguenti conclusioni:

  1. un gruppo di campioni è costituito da ceramiche Terra Sigillata importate da siti della Gallia

  2. un secondo gruppo è costituito da ceramica comune di produzione locale

  3. un terzo gruppo, infine, è costituito da ceramiche Terra Sigillata di produzione locale su imitazione di produzioni più rinomate come quella di Arezzo

È evidente, quindi, che l'analisi chimica ha fornito un valido supporto alla risoluzione dei problemi sorti durante lo scavo archeologico, grazie all'intreccio tra la valutazione stilistica dell'archeologo e quella strumentale del chimico.

6.2.4.6 - Materiali metallici

Per risalire alla provenienza delle materie prime utilizzate per gli artefatti metallici, sarebbe necessario confrontare la distribuzione elementare di questi ultimi e dei minerali da cui derivano i metalli impiegati, con particolare interesse per gli elementi in tracce. Sfortunatamente, ciò è spesso di scarsa utilità. Con l'esclusione di alcune rare eccezioni (oro, argento, rame), i metalli non si trovano in natura in forma di sostanze elementari, ma vengono estratti dai minerali che li contengono in forma combinata. Le procedure di estrazione di un metallo dal minerale comportano trattamenti complessi che si avvalgono principalmente del calore e dell'effetto riducente e fondente di varie sostanze che vengono aggiunte nel corso della lavorazione. La composizione del minerale, la volatilizzazione di alcuni elementi durante i numerosi passaggi ad alta temperatura, l'aggiunta di materiali fondenti o di altri metalli per produrre una lega e, non ultimo, il reimpiego di frammenti già usati, sono alcuni tra i fattori che intervengono nel determinare la composizione di un reperto metallico; ne consegue che è generalmente impossibile rintracciare una qualche similitudine tra la composizione elementare del minerale metallifero originario ed un reperto archeologico in metallo.

Da queste premesse risulta chiaramente che le indagini di provenienza per i materiali metallici non possono essere basate sul confronto tra la composizione elementare dei reperti e quella delle possibili sorgenti della materia prima. Risultati soddisfacenti per individuare la provenienza dei vari manufatti in metallo sono stati ottenuti attraverso la determinazione della distribuzione isotopica del piombo; oltre alla possibilità di studiare oggetti prodotti con questo metallo, che sono peraltro rari tra i reperti archeologici, e oggetti che lo contengano il lega, la distribuzione isotopica del piombo offre la possibilità di studiare altri materiali metallici che lo contengano come impurezza. Tra questi l'argento, il quale è stato utilizzato come metallo da conio ed ha pertanto permesso agli archeologi di ricostruire le antiche vie di scambio commerciale. Questo metallo veniva ottenuto per coppellazione della galena (PbS), minerale che può contenere fino allo 0.1% di argento. Il processo portava alla produzione di un materiale arricchito fino al 95% di argento, contenente una quantità di piombo residuo sufficiente a permettere l'individuazione dell'impronta isotopica del giacimento di provenienza del minerale.

Altri materiali metallici che rivestono una notevole importanza dal punto di vista archeologico sono le due principali leghe del rame: il bronzo (rame e stagno) e l'ottone (rame e zinco). Il principale minerale da cui si ottiene il rame è la calcopirite (CuFeS2), che spesso si trova associata alla galena (PbS). Ne consegue che il rame prodotto da questo minerale mantiene tracce di piombo, la cui distribuzione isotopica è caratteristica del giacimento di provenienza della calcopirite.

Un esempio di studio di provenienza di reperti metallici riguarda un set di statuette bronzee risalenti all'epoca romana e rinvenute in scavi archeologici nelle Fiandre (Belgio nord-orientale); le statuette riproducono divinità romane (figura 364). L'analisi elementare effettuata con la tecnica ICP-MS ha permesso di identificare sei gruppi omogenei di campioni sulla base della determinazione di rame, zinco, stagno, piombo (elementi maggiori), nickel, antimonio e ferro (impurezze). Tuttavia, i soli dati di analisi elementare non sono sufficienti per individuare l'origine delle materie prime, trattandosi di oggetti in lega. L'analisi isotopica del piombo, invece, permette un'attribuzione relativamente accurata che si basa sul confronto con minerali provenienti da miniere sfruttate in epoca romana. Dal grafico riportato nella figura 365, è possibile attribuire un gruppo di statuette a sorgenti di area mediterranea e un gruppo a sorgenti di area britannica.

6.2.4.7 - Materiali organici

Relativamente all'ambra, Schliemann, contemplando i ricchi ritrovamenti di ambra a Micene, commentava che "...rimarrà per sempre un segreto per noi sapere se quest'ambra deriva dalla costa del Mar Baltico o dall'Italia". Curiosamente, si sbagliava. La determinazione della provenienza dell'ambra si può effettuare misurando il contenuto di acido succinico, un composto organico che si trova presente in differenti quantità nell'ambra proveniente da differenti regioni europee. La presenza, in epoca terziaria, di vaste foreste di piante resinose in tutta Europa ha dato origine a abbondanti giacimenti di un particolare tipo di ambra detta succinite. Questo materiale, per effetto della glaciazione, si è concentrato nel nord-est dell'Europa, attorno al mare Baltico. Sorgenti di altri tipi di ambra sono state trovate in siti dell'Europa meridionale ed orientale. La distinzione tra ambra baltica e non-baltica si fonda non solo sulla determinazione del contenuto di elementi in traccia nella matrice organica, ma anche sulla base della determinazione del contenuto di acido succinico nelle differenti sorgenti. In questo caso, si tratta di un composto (e non di un elemento come visto nei casi precedenti), che viene quantificato: la presenza di questo composto in percentuale minore del 3% indica che l'ambra non è di origine baltica.

Anche l'assorbimento di radiazioni nel campo dell'infrarosso permette di ottenere informazioni circa l'origine baltica o meno della materia prima. Per l'ambra è' stata individuata una regione dello spettro IR, compresa tra 7 e 11 micron di lunghezza d'onda, che può essere considerata una specie di impronta digitale e permette di riconoscere l'ambra baltica da quella di altra origine.

 

6.3 - Conservazione e restauro

6.3.1 - Introduzione

Gli oggetti d’arte e i reperti archeologici sono soggetti all’aggressione quotidiana degli agenti atmosferici che sono in grado, attraverso meccanismi diversi, di portare a degradazione più o meno completa i materiali che compongono gli oggetti stessi. Fortunatamente la tecnologia moderna è in grado di individuare i meccanismi di degradazione e proporre interventi per fermare l’azione degradativa ed eventualmente restituire gli oggetti all’aspetto originario. Ciò si realizza attraverso un’interazione profonda tra il chimico analitico, lo storico dell’arte, il restauratore e un chimico esperto in materiali protettivi.

Per decidere il metodo di conservazione o l’intervento di restauro da utilizzare è necessario conoscere perfettamente la natura chimica dei materiali che compongono le opere d’arte e i loro eventuali prodotti di degradazione. Ogni intervento protettivo dovrebbe quindi essere preceduto da un’analisi chimica accurata dell’oggetto in studio. Argomento di questo capitolo sarà la descrizione delle principali cause di degrado chimico dei reperti e delle tecniche analitiche maggiormente impiegate a scopo diagnostico. Non saranno invece trattati, se non marginalmente, i procedimenti di conservazione e restauro che sono di pertinenza di altri settori della chimica.

Ogni restauro deve essere preceduto da uno studio esauriente delle cause di alterazione. L'aspetto originale del monumento deve essere conservato il piu' possibile. La sequenza delle operazioni di restauro puo' essere:

1) Diagnosi

2) Pulitura

3) Preconsolidamento

4) Consolidamento

5) Protezione

Il contributo più importante del chimico analitico si ha nel primo passaggio, la diagnosi, ovvero lo studio approfondito delle cause e dei meccanismi di degrado mediante la caratterizzazione dei prodotti di degradazione. Il degrado può essere studiato in situ con tecniche appropriate oppure con un opportuno campionamento. Quest’ultimo deve essere rappresentativo dei fenomeni di degrado che si stanno verificando, per esempio prelevando il campione secondo l’esposizione ai punti cardinali, in zone dilavate o no dalla pioggia, in zone molto o poco degradate e in vari litotopi presenti.

 

6.3.2 - Le cause principali di degrado

Le principali cause di deperimento di un materiale artistico o archeologico sono dovute ai seguenti agenti:

  • Agenti geologici, legati a movimenti o cedimenti della base naturale di appoggio del manufatto, che determinano l'insorgere di uno stato di tensione differente dal preesistente

  • Agenti biologici: gli organismi viventi contribuiscono al decadimento dei materiali, esercitando un attacco chimico dovuto alla loro attività fisiologica ed un danneggiamento meccanico in seguito alla penetrazione al di sotto delle superfici. Spesso la presenza di composti salini di degradazione come nitrati o solfati è dovuta all'azione di batteri che si nutrono delle sostanze organiche presenti quali leganti o coloranti

  • Agenti climatici e meteorologici: sono costituiti essenzialmente da acqua, irraggiamento solare, vento e inquinamento atmosferico. Le cause di degradazione relative a questi agenti sono classificabili in uno dei seguenti processi:

    • attacco chimico in seguito a dilavamento, il fenomeno noto come piogge acide

    • attacco chimico in seguito a condensazione, che costituisce un meccanismo di trasporto estremamente efficiente degli inquinanti atmosferici di tutti i tipi

    • attacco fisico per dissoluzione ed evaporazione

    • trasferimento dei sali solubili in superficie mediante meccanismi di dissoluzione ed evaporazione

    • dilatazioni dovute a processi di umidificazione ed evaporazione

    • fenomeni di gelività

L'effetto dell'aggressione chimica degli inquinanti può essere di varia entità. Un vettore di inquinanti è naturalmente l'acqua, che veicola sostanze gassose o liquide presenti nell'atmosfera sulla superficie degli artefatti, dove essi possono esercitare la loro azione corrosiva; oppure l'acqua può allontanare ioni o composti costituenti la superficie degli artefatti, impoverendone la struttura.

Per chiarire meglio l'azione degli agenti inquinanti è necessario introdurre il concetto di patina: si tratta di uno strato sottile che spesso si forma sulla superficie dei materiali per effetto di un processo degradativo, ma che svolge in seguito azione protettiva in quanto blocca il procedere di ulteriori processi. La sua formazione è quindi positiva. Esempi di patine protettive sono gli ossidi (MemOn con Me= rame, zinco, ecc.) che si formano sulla superficie di oggetti metallici. I processi degradativi che riescono ad agire chimicamente sulla patina corrodendola, sono poi in grado di esercitare la loro azione corrosiva anche sul materiale sottostante.

Le sostanze che esplicano l'azione corrosiva più evidente sono gli acidi. Sostanze come acido nitrico, solforico e solfidrico presenti nell'atmosfera, possono reagire con le molecole che compongono lo strato superficiale degli artefatti (ed eventualmente anche con le patine) e provocare l'instaurarsi di un processo degradativo. Alcuni esempi sono descritti nel seguito.

 

6.3.3 - Tecniche analitiche impiegabili negli studi di conservazione e restauro

Le tecniche che possono essere impiegate per caratterizzare il degrado di un'opera d'arte o di un reperto archeologico sono molteplici. Si può effettuare un'analisi in situ, con tecniche come la spettroscopia Raman o la spettrometria di fluorescenza X, oppure, se è possibile prelevare un'aliquota della sostanza che ha provocato il degrado, l'analisi può essere effettuata in laboratorio con una selezione più ampia di tecniche.

Alcune tra le tecniche maggiormente utilizzate sono le seguenti:

  • Spettroscopia atomica: si tratta di un gruppo di tecniche distruttive, per le quali è necessario un prelievo di campione. Danno informazioni sull’analisi qualitativa e quantitativa degli elementi chimici presenti nei prodotti di corrosione, soprattutto per quanto riguarda i metalli

  • Spettroscopia molecolare: si tratta di tecniche generalmente non distruttive; in alcuni casi è richiesto un prelievo di campione (spettroscopia IR) ma sono generalmente disponibili strumenti portatili con i quali effettuare l’analisi in situ (spettroscopia Raman). Danno informazioni sui composti presenti nei prodotti di corrosione

  • Spettroscopia di Fluorescenza a raggi X: come per la spettroscopia atomica, si tratta di una tecnica normalmente distruttiva ma esistono strumenti portatili che permettono l’analisi in situ senza prelievo. L’informazione che fornisce è l’analisi qualitativa e quantitativa degli elementi presenti nei prodotti di corrosione

  • Spettroscopia di Diffrazione a raggi X (XRD): la tecnica della diffrazione è normalmente distruttiva perchè deve essere prelevato un campione; alcuni strumenti di recente introduzione permettono di operare direttamente sull'oggetto da analizzare. La tecnica XRD è utilizzata per il riconoscimento delle fasi cristalline e fornisce informazioni sui componenti presenti nei prodotti di corrosione su pigmenti, materiali lapidei, leghe metalliche, materiali ceramici e vetrosi

  • Microscopia elettronica e SEM: altra tecnica di analisi elementare, non distruttiva quando è possibile operare direttamente sull'oggetto, distruttiva quando si deve procedere al prelievo di un campione dall'oggetto da analizzare. Per la sua capacità di risoluzione spaziale, è impiegata nello studio e caratterizzazione chimico-fisica di strutture aventi dimensioni inferiori a quelle osservabili ad occhio nudo o mediante microscopio ottico, e nell’analisi elementare qualitativa e quantitativa

  • Analisi delle sezioni lucide e sottili: si tratta di una tecnica distruttiva, in quanto è necessario prelevare un’aliquota di campione per la preparazione del provino. La sezione può essere osservata al microscopio ottico o al microscopio SEM per ottenere informazioni di tipo morfologico, strutturale e sulla composizione mineralogica ed elementare del campione in esame. La tecnica si applica allo studio delle diverse stratificazioni (croste, protettivi, consolidanti, prodotti di corrosione, integrazioni, mineralizzazioni secondarie, trasformazioni di fase, ecc..) presenti sui vari tipi di opere d'arte

  • Cromatografia: le tecniche cromatografiche sono tutte distruttive in quanto il campione deve essere portato in soluzione. In particolare, la cromatografia ionica è impiegata nell’analisi delle acque e dei fenomeni di inquinamento ambientale e nella determinazione qualitativa e quantitativa degli agenti inquinanti come i nitrati, i solfati ed i cloruri

 

6.3.4 - Degrado dei materiali lapidei

Per ragioni di area esposta, i materiali lapidei sono quelli più proni al degrado. L'aggressione si esplica sulle superfici degli artefatti, modificandone le proprietà estetiche e strutturali, mentre l'interno è intaccato a tempi lunghissimi. Il degrado è evidentemente aumentato in epoca moderna con il progressivo sviluppo delle attività industriali, che immettono in atmosfera quantità elevatissime di sostanze chimiche potenzialmente corrosive. Così, monumenti che hanno resistito bene all'usura del tempo, sono diventati a rischio nell'ultimo secolo. Esempi particolarmente noti sono i monumenti in marmo come il Partenone e il Taj Mahal.

Un'agente veicolante di sostanze corrosive è la cosidetta pioggia acida. Si definisce in questo modo una precipitazione che abbia pH inferiore a 5. L'acidità è determinata principalmente dalla presenza di acido nitrico e acido solforico, che si formano per dissoluzione in acqua dei corrispondenti ossidi gassosi:

2NOx + H2O ® 2HNOx+1

SO3 + H2O ® H2SO4

I gas SO3 ed NOx, provenienti dagli scarichi industriali o dall'ossidazione dei combustibili, entrano in atmosfera e si sciolgono nel vapore acqueo. La conversione di zolfo a solfato può essere favorita anche per via biologica attraverso l'azione di batteri. Quando il vapore acqueo condensa sulle superfici esposte alle precipitazioni, gli inquinanti presenti vengono a diretto contatto con i materiali ed esercitano l'azione degradativa, favorita dal fatto che gli inquinanti sono in soluzione liquida. Si tratta, in definitiva, di un processo degradativo di origine antropica, cioè causato da attività umane.

La pioggia acida attacca quotidianamente le superfici esposte dei monumenti antichi, arrecando danni anche enormi al patrimonio culturale. L'azione corrosiva si esercita su molti materiali diversi e i suoi effetti si possono facilmente individuare col passare degli anni. Le precipitazioni acide svolgono una duplice azione dal punto del degrado:

  1. un'azione corrosiva, mediante reazioni con le molecole che compongono la superficie del materiale esposto

  2. un'azione meccanica di dilavamento del materiale, reso friabile e solubile dall'azione corrosiva degli acidi

Il principale bersaglio delle piogge acide è costituito dai materiali a base di carbonato di calcio (CaCO3) come le pietre calcaree e soprattutto il marmo. L'acido solforico presente nelle piogge acide corrode il carbonato di calcio e lo trasforma in solfato di calcio biidrato o gesso:

H2SO4 + CaCO3 ® CaSO4 + H2O + CO2

Questa reazione avviene in fase liquida ed è favorita da varie sostanze catalizzatrici come la polvere, il carbone, gli ossidi di vanadio o di ferro che sono spesso presenti nello smog. La conversione della calcite a gesso comporta due conseguenze molto negative: a) il gesso è un materiale parzialmente solubile in acqua, quindi meno resistente della pietra o del marmo; b) il volume occupato dai cristalli di gesso è diverso rispetto a quello della calcite e ciò determina un aumento di volume che provoca la dilatazione e la disgregazione dello strato superficiale, fenomeno che poi si propaga all'interno. La figura 315 mostra un ingrandimento della superficie di una lastra di marmo fatta reagire artificialmente con gas SO3: si nota la formazione di cristalli di gesso.

Un esempio dell'azione delle piogge acide è illustrato nella figura 316 che mostra una statua realizzata in Westfalia (Germania); nella parte sinistra è la foto scattata nel 1908, mentre nella parte destra è la foto scattata nel 1968: dopo soli 60 anni si ha l'erosione completa della superficie.

Per compensare l'azione degradativa del gesso, si può trattare la superficie con vapore e acqua calda, oppure con idrossido di bario, Ba(OH)2, in modo da formare composti di bario aventi solubilità minore e stabilità più elevata.

Anche le pietre silicee, per quanto più resistenti di quelle calcaree, subiscono l'effetto delle piogge acide. L'arenaria, che contiene vene calcaree, è particolarmente soggetta al degrado a causa della sua porosità che permette un accesso agevole agli inquinanti. In questo caso si può operare un'azione protettiva con sostanze consolidanti a base di organosilicati o siliconi. Queste sostanze vengono iniettate in forma monomerica e all'interno del materiale lapideo passano ad una forma polimerica, creando una rete protettiva.

Un'altra sorgente di degrado per i materiali lapidei è costituita da organismi come funghi e licheni, che possono colonizzare la superficie di un monumento (figura 317). I licheni, in particolare, sono in grado di sopravvivere in condizioni ambientali ostili. Questi organismi possono causare danni notevoli mediante la formazione di croste o di prodotti metabolici in grado di attaccare i minerali della pietra (figura 318, foto SEM di una colonia di funghi su marmo).

 

6.3.5 - Degrado dei materiali coloranti

Già nel 1638 Peter Paul Rubens affermava: "...mi duole che i dipinti, conservati a lungo in un contenitore, possano soffrire un poco nei colori, specialmente nelle tonalità rosate, e i bianchi possano diventare in qualche modo giallastri"

Pur non avendo nozioni sulla chimica del colore, Rubens era cosciente che le sostanze impiegate nelle sue opere erano soggette in qualche modo a degradazione. Questo perchè le opere pittoriche sono, dal punto di vista chimico, matrici complesse la cui composizione muta nel corso del tempo in dipendenza di alcune cause. I fattori possono essere i seguenti:

  • interazioni specifiche tra pigmento (o colorante) e legante;

  • condizioni di conservazione, in particolare temperatura e umidità;

  • esposizione ad inquinanti atmosferici;

  • esposizione a luce naturale o artificiale

  • attività biologica da parte di specie viventi (licheni, funghi)

6.3.5.1 - Degrado dei pigmenti

Nonostante la loro natura prevalentemente inorganica, i pigmenti possono essere soggetti a trasformazioni indotte da agenti chimici o fisici e mutare la loro composizione e, in maniera anche drammatica, il loro colore. Tra i casi più noti si ha il Realgar (solfuro di arsenico, As2S2), pigmento rosso che si può convertire a Pararealgar (stessa formula): per quanto il pararealgar abbia la stessa composizione del realgar, esso è strutturalmente un composto diverso e ciò è evidente a livello macroscopico, in quanto è colorato in giallo. In passato esso fu usato intenzionalmente come pigmento giallo, ma spesso è stato individuato come prodotto di degradazione su manoscritti. La trasformazione è indotta dalla luce:

As2S2 (rosso) As2S2 (giallo)

Un altro caso, frequente sugli affreschi, è quello dell'Azzurrite (2CuCO3·Cu(OH)2) che può virare al pigmento verde Malachite (CuCO3·Cu(OH)2) o ad altri composti più complessi.

Un grande nemico dei pigmenti è l'acido solfidrico (H2S). Questa sostanza causa una delle più note trasformazioni sulle superfici pittoriche: l'inscurimento dei pigmenti a base di piombo. L'acido solfidrico si forma dagli scarichi industriali e dal decadimento anaerobico di materia organica, ed essendo presente nell'aria può reagire con lo ione Pb2+ dando composti estremamente insolubili e aventi colore scuro. La reazione provoca la formazione di solfuro di piombo o galena, un minerale di colore nero:

Pb2+ + H2S ® PbS

Essendo H2S un acido, questa reazione avviene prevalentemente con pigmenti costituiti da sostanze basiche, come il Bianco piombo, avente formula 2PbCO3·Pb(OH)2. L'inscurimento si nota solo nelle opere pittoriche in cui il pigmento sia applicato ad acqua, senza vernici protettive o oli siccativi, ed è quindi particolarmente frequente nei manoscritti illuminati. Nella figura 319 è riportata un'immagine da un foglio di un evangelario bizantino del XIII secolo: in alcuni volti dei personaggi dipinti compare la tinta rosa, normalmente ottenuta miscelando i pigmenti Vermiglione (rosso) e Bianco piombo (bianco); in altri invece, il colore rosa è stato sostituito da un colore scuro, dovuto al solfuro di piombo nero che si forma per conversione del Bianco piombo, come è evidenziato dagli spettri Raman ottenuti analizzando il manoscritto (figura 320). Si può parlare, come hanno sottolineato alcuni periodici commentando lo studio effettuato da Clark sul manoscritto, di Angeli dalla faccia sporca. Un altro esempio è dato dalla figura 321 che illustra un dettaglio da un manoscritto thailandese del XIX secolo: in questo caso l'inscurimento potrebbe derivare dalla degradazione del pigmento Rosso piombo (Pb3O4) oltre che del Bianco piombo.

Fortunatamente il colore nero non è irreversibile: utilizzando acqua ossigenata è possibile convertire il solfuro di piombo a solfato:

PbS + 4H2O2 ® PbSO4+ 4H2O

Il solfato di piombo è bianco e così si ristabilisce il colore bianco, anche non si tratta del pigmento originario. Per effettuare questo recupero è necessario valutare gli effetti del reagente chimico sulla carta e sui leganti impiegati per fissare l'inchiostro originario.

Il problema di inscurimento dovuto allo ione solfuro si può avere anche quando siano presenti pigmenti a base di solfuro (es. Orpimento, As2S3 o Realgar, As4S4) nelle zone adiacenti a quelle contenenti il pigmento di piombo, oppure sulla pagina di fronte nel caso di un manoscritto: in questi casi è possibile l'interazione chimica che genera la reazione sopra descritta, cioè la produzione di solfuro di piombo nero.

L'effetto di inscurimento non si nota nelle tempere ad olio o ad uovo: in questi due casi, probabilmente, il mezzo disperdente funge da protettivo.

6.3.5.2 - Degrado dei coloranti

Le sostanze coloranti di natura organica hanno notoriamente stabilità inferiore rispetto a quelle di natura inorganica. Esse possono degradarsi a composti aventi colore o tinta diversa, con effetti cromatici disastrosi. Il cambiamento può essere causato da agenti chimici ma anche dall'azione fotodegradativa della luce. La Lacca di robbia, ad esempio, è formata dalla molecola organica 1,2-diidrossiantrachinone legata a idrossido di alluminio, Al(OH)3. Il colore risultante è rosso con varie tonalità. Si tratta di un composto estremamente sensibili alla luce, e può cambiare completamente colore a causa di un'errata esposizione in ambiente museale. Nell'Incoronazione della Vergine di Lorenzo Monaco (figura 322), il manto della Vergine era originariamente di un profondo rosa malva, mentre ora appare bianco. Chimicamente ciò è spiegabile con il fatto che i gruppi funzionali presenti sulla molecola della lacca, responsabili dell'assorbimento selettivo di luce che dà alla lacca il suo colore rosso, si sono modificati: essi ora assorbono altre lunghezze d'onda e causano l'emissione di un altro colore da parte della molecola.

Un altro esempio di viraggio del colore dovuto al degrado della Lacca di robbia si ha nel quadro di Van Gogh attualmente noto come Rose (figura 323), conservato presso la National Gallery di Washington. Questo quadro era chiamato Rose bianche fino ad alcuni anni fa, ma recenti analisi sul dipinto hanno rivelato la presenza di tracce di lacca rossa: l'aspetto originale del quadro, di cui esiste testimonianza fotografica (figura 324), era quindi talmente diverso da determinare la modifica del nome dell'opera. Questo degrado è comune a molte opere floreali di Van Gogh: a causa del suo utilizzo di coloranti e pigmenti non stabili alla luce, si rileva frequentemente il viraggio di tonalità rosse e blu a tonalità bianche e verdi.

6.3.5.3 - Degrado dei leganti

Tra i leganti che si utilizzano per le opere pittoriche, molti hanno la tendenza a degradarsi, alterando in maniera più o meno drammatica l'aspetto delle opere. Gli oli siccativi, in particolare, tendono ad ingiallire con l'invecchiamento. Il processo chimico alla base dell'ingiallimento non è ancora del tutto chiaro ma coinvolge sicuramente reazioni di ossidazione ed idrolisi, con rottura parziale delle catene polimeriche formate in fase di stesura. Ciò determina una maggiore esposizione del film di olio all'azione corrosiva dell'acqua.

Processi di degrado si possono avere in presenza di una non completa polimerizzazione delle molecole di olio siccativo. Ne La lezione di anatomia del Dottor Nicolas Tulp di Rembrandt (figura 325), dipinto recentemente restaurato, fu notata la presenza sulla superficie di numerosi crateri biancastri delle dimensioni di 100-200 µm di diametro. Le analisi effettuate con le tecniche XRF, XRD ed IR stabilirono che i crateri contenevano composti organici a base di piombo e acidi grassi. I composti si erano formati per reazione tra il pigmento Bianco Piombo, che costituisce uno strato sottostante uniforme, e acidi grassi, principalmente palmitico e stearico, derivanti dall'incompleta polimerizzazione dell'olio di lino utilizzato come legante.

6.3.5.4 - Degrado dei supporti

Il degrado di un'opera pittorica può dipendere anche da processi che avvengono sul supporto. Un esempio noto è la crescita di organismi come licheni o funghi, che traggono alimento dalle sostanze presenti nel supporto, in particolare sugli affreschi murali. L'attività chimica di questi organismi genera acido ossalico (C2O4H2) che, interagendo con la matrice calcarea dell'affresco, può formare composti cristallini come la whewellite (ossalato di calcio monoidrato, C2O4H2·H2O) e la weddelite (ossalato di calcio diidrato, C2O4H2·2H2O). Altri prodotti possibili sono acidi polifenolici (eritrina e acido lecanorico) e sostanze colorate (acido rhizocarpico, atranorina, parietina). L'identificazione accurata dei prodotti di degradazione è necessaria affinchè il restauratore possa stabilire il trattamento più opportuno da applicare per arrestare il processo.

L'azione degradativa dei licheni, come si è detto in precedenza, è particolarmente effettiva perchè essi sono in grado di svilupparsi in condizioni ambientali insolitamente sfavorevoli per organismi viventi, per esempio in presenza di metalli pesanti. La specie Dirina massiliensis forma sorediata è la responsabile del biodegrado degli affreschi rinascimentali di Palazzo Farnese a Caprarola (figura 326), sui quali essa si è sviluppata anche in presenza di cinabro (HgS), pigmento contenente mercurio che è un elemento altamente tossico per la maggioranza delle altre specie viventi. Gli spettri Raman di due punti all'interfaccia lichene-affresco (figura 327) mostrano la presenza di ossalato di calcio monoidrato e di carotenoidi, sintomo di attività biologica da parte dei licheni.

 

6.3.6 - Degrado dei materiali vetrosi e ceramici

Come per i materiali lapidei, anche per il vetro è l'acqua l'agente che innesca il processo di corrosione. L'azione degradativa è infatti provocata da sostanze inquinanti che vengono a contatto con la superficie del manufatto vetroso in condizioni di umidità accentuata. I vetri antichi e in particolare i vetri medioevali sono soggetti a corrosione a causa della loro composizione, ricca di ioni alcalini e alcalino-terrosi. Non potendo raggiungere temperature molto elevate in antichità, gli artigiani vetrai erano costretti ad addizionare alla miscela da vetrificare quantità notevoli di fondenti a base di metalli alcalini e alcalino-terrosi per permettere la fusione della silice. Ciò rende il vetro così formato particolarmente suscettibile a corrosione, con i vetri al potassio meno resistenti di quelli al sodio. Si è verificato sperimentalmente che vetri con un contenuto di SiO2 maggiore del 66.7% hanno elevata resistenza all'aggressione degli agenti atmosferici, mentre al di sotto di questo valore la degradabilità del vetro aumenta rapidamente.

Nel dettaglio, soluzioni acide come la pioggia acida favoriscono lo scambio tra gli ioni Na+, K+ e Ca2+ della superficie del vetro e lo ione H+ presente nella pioggia:

-Si-O-K+ + H+ ® Si-O-H+ + K+

Questo meccanismo può essere verificato analizzando separatamente lo strato superficiale e l'interno di un vetro degradato: come si nota dalla figura 328, l'analisi effettuata con la tecnica SEM-EDX rivela un depauperamento di potassio e calcio dalla superficie rispetto all'interno del vetro. Gli ioni liberati, reagendo con agenti inquinanti quali l'anidride solforica, SO3, formano croste superficiali composte da gesso (CaSO4·2H2O, figura 329), arcanite (K2SO4), singenite (K2SO4·CaSO4·H2O), schoenite (K2SO4·MgSO4·6H2O) o anche carbonato di calcio e ossalato di calcio. L'identificazione accurata del tipo di composto presente è ovviamente importantissima per decidere la modalità di intervento restaurativo.

L'azione degradativa da parte di sostanze alcaline può invece agire sui legami Si-O-Si della struttura vetrosa e portare alla dissoluzione degli strati superficiali del manufatto:

-Si-O-Si- + OH- ® -Si-OH + -Si-O-

La formazione di croste modifica l'aspetto del manufatto vetroso, che può diventare iridescente a causa delle differenti proprietà ottiche dello strato degradato e dell'interno (figura 330); curiosamente, questo effetto è in certi casi addirittura positivo ed era addirittura ricercato nella manifattura di alcuni vetri Art Nouveau. Lo strato superficiale può avere uno spessore di 10-100 µm; il vetro può diventare opaco se lo strato alterato è molto spesso.

Un altro tipo di degrado è la comparsa di colorazione in vetri incolori esposti alle radiazioni solari. Sembra che ciò sia causato dall'influenza che l'energia solare può avere sull'equilibrio di reazione tra ferro e manganese, già descritto nel paragrafo 5.3.11:

Mn4+ + Fe2+ ® Mn2+ + Fe3+

In alcuni casi la degradazione della superficie è limitata alla formazione di un gel che svolge azione protettiva e che non andrebbe rimosso in fase di restauro.

Per quanto riguarda gli oggetti ceramici, i fenomeni di degrado possono avere diverse cause ma anche in questo risulta decisiva l'azione dell'acqua, che veicola le sostanze inquinanti e favorisce la rimozione degli ioni presenti sulla superficie, con conseguente formazione di sali sotto forma di incrostazioni. Particolarmente delicata è l'interfaccia tra corpo ceramico e rivestimento vetroso, dove cicli ripetuti di cristallizzazione e solubilizzazione di sali possono portare al distacco del rivestimento.

 

6.3.7 - Degrado dei materiali metallici

Nonostante la grande durabilità che hanno i metalli, anch'essi sono soggetti a degrado causato dall'aggressione degli agenti atmosferici. Gli oggetti metallici subiscono l'azione combinata di ossigeno e acqua che provoca la formazione di una patina superficiale di ossido, la quale esplica azione protettiva contro l'avanzare della corrosione. In alcuni metalli, però, la patina è permeabile agli agenti inquinanti e quindi l'azione corrosiva procede all'interno, con formazione di sali e variazione delle proprietà meccaniche del metallo.

L'azione delle piogge acide si esplica sugli oggetti in rame con formazione di tipiche patine verdastre costituite da sali di rame come carbonati basici, solfati basici, ossidi, solfuri e anche sali organici come formiati, acetati e ossalati. Questa corrosione risulta evidente anche sul bronzo. In realtà i carbonati che si formano costituirebbero una patina protettiva, ma la presenza dell'acido solforico nella pioggia fa sì che gli ossidi e i sali prodotti dalla corrosione della superficie vengano trasformati gradualmente in composti via via più solubili e quindi rimuovibili dall'acqua piovana.

Un processo degradativo particolarmente noto è la cosidetta malattia del bronzo (figura 331), un fenomeno di corrosione che avviene sugli oggetti in rame e in bronzo esposti all'aria. Si tratta di un processo complicato in tre o quattro stadi che altera il colore della superficie dell'oggetto, passando dal rosa salmone iniziale al marrone, al nero e finalmente al classico verde-blu delle patine che si nota comunemente sui manufatti bronzei degradati. Il viraggio è dovuto alla formazione i composti diversi di rame. Il processo inizia quando, a causa dell'azione corrosiva degli agenti atmosferici e dell'umidità, viene intaccata la patina superficiale protettiva, composta da sali di rame quali carbonati (malachite, CuCO3·Cu(OH)2), ossidi (cuprite, Cu2O) e a volte cloruri (CuCl). L'ossidazione di questi composti provoca la formazione di sostanze aventi colori diversi e, soprattutto, se non è arrestata procede anche in profondità. La malattia del bronzo è particolarmente evidente nella moneta illustrata in figura 332.

 

6.3.8 - Degrado dei materiali organici

Per quanto riguarda i materiali organici, essi sono soggetti a degrado per natura a causa della loro composizione chimica. L'azione dei microorganismi, combinata all'azione erosiva dell'acqua, fanno sì che le molecole organiche vengano degradate a molecole più semplici, es. le sostanze proteiche a sequenze brevi di aminoacidi, i polisaccaridi a oligosaccaridi ecc.; fanno eccezione alcuni lipidi che mantengono intatta la loro struttura.

Al di là del degrado naturale dovuto ad agenti biologici, esistono alcuni casi di degrado chimico da citare. Materiali particolarmente delicati sono i supporti per la scrittura: la pergamena, utilizzata nel Medioevo per i manoscritti, e la carta, introdotta successivamente. La pergamena è costituita da proteine animali e può subire corrosione da parte di alcuni composti impiegati per la stesura del testo o dei colori. Un pigmento noto per la sua azione corrosiva sulla pergamena è il Verdigris (acetato di rame, Cu(CH3COO)2·2Cu(OH)2) che essendo composto dallo ione acetato (CH3COO-), in presenza di acqua può liberare acido acetico e aggredire il collagene che costituisce la pergamena. Per la carta è invece noto il fenomeno di corrosione dovuto all'impiego di inchiostri del tipo metallo-gallato. In questi inchiostri un ingrediente-base è il solfato ferroso (FeSO4) che, in presenza di acqua, può dare acido solforico e provocare l'idrolisi acida della cellulosa, con conseguente viraggio dal nero al marrone dell'inchiostro e perdita delle proprietà meccaniche della carta (figura 333). La valutazione dello stato di degrado della cellulosa può essere effettuata con l'analisi Raman o IR.

 

6.3.9 - Alcuni casi famosi di restauro

Vediamo nel dettaglio alcuni casi di restauro nei quali le tecniche analitiche sono state utilizzate per identificare l'origine del degrado e decidere il miglior intervento restaurativo.

6.3.9.1 - Il Vasa

Il caso più famoso di restauro di oggetti in legno è quello del Vasa (figura 334). Nel 1628, la nave da guerra svedese Vasa affondò nel porto di Stoccolma dopo aver percorso appena 1300 metri del suo viaggio di esordio. Probabilmente, la nave non era bilanciata per sopportare il peso di tre alberi, 10 vele e 64 cannoni. Il relitto fu scoperto nel 1956 e nel 1961 la nave fu riportata in superficie e trovata in buone condizioni. Fu subito avviato un trattamento estensivo per essiccare e stabilizzare il legno, spruzzando lo scafo con il polietilenglicole o PEG, un composto polimerico inerte avente formula -(OCH2CH2)n-. Si tratta di un procedimento invasivo nel quale il PEG penetra nel legno, ne stabilizza la struttura cellulare, riempie i vuoti e alla fine migliora le proprietà meccaniche. Siccome ciò avviene senza reazione chimica con le molecole del legno, il processo è reversibile. Ciò che si realizza a livello molecolare è la formazione di deboli legami a idrogeno (figura 335), gli stessi che si formano nell'acqua tra una molecola e l'altra.

Il trattamento con PEG sul Vasa fu portato avanti in continuo per quasi 20 anni fino al 1979, utilizzando una soluzione contenente anche acido borico e borace come fungicidi per inibire successivi processi degradativi. Nel 1990 la nave potè essere esposta in un museo apposito, il Vasa Museum di Stoccolma, costituendo da allora una delle più straordinarie testimonianze del passato.

Nel 2000, i conservatori del museo notarono che efflorescenze saline si stavano rapidamente formando sulle superfici e che il legno stava diventando soffice e acido. A breve il Vasa si sarebbe sbriciolato. Attraverso la collaborazione di colleghi in Svezia, Danimarca e Australia, i conservatori cercarono una soluzione per risolvere il problema che affliggeva anche altri famosi relitti come le navi vichinghe di Skuldelev, il Bremen Cog, il Mary Rose e il Batavia.

Furono usate tecniche analitiche ai raggi X, tra cui una tecnica di recente sviluppo, la spettroscopia di assorbimento a raggi X, per studiare il decadimento del legno. La tecnica consente di avere un'impronta digitale degli elementi contenuti nel campione irradiato, avendo informazioni anche sul loro stato di ossidazione.

Il problema individuato dai ricercatori è la formazione di acido solforico, una sostanza estremamente corrosiva, all'interno delle travi di legno. Il Vasa era affondato a 32 metri di profondità, in un'acqua la cui scarsità di ossigeno aveva inibito l'attività di microbi che si nutrono di legno, e questo fu indubbiamente un vantaggio dal punto di vista della conservazione. Il rovescio della medaglia fu però lo sviluppo di batteri capaci di convertire lo ione solfato presente nelle acque a solfuro di idrogeno:

SO42- ® H2S

Nei 300 anni in cui il Vasa era rimasto immerso nell'acqua marina, l'H2S aveva permeato profondamente il legno. Attraverso una serie di reazioni favorite dalla presenza di ruggine (proveniente dai bulloni corrosi), si era formato prima zolfo elementare, poi composti di ossidazione dello zolfo che avrebbero causato alla fine la formazione di acido solforico, corrosivo per le strutture della nave.

A seguito dell'identificazione della causa di degrado i ricercatori hanno raccomandato norme severe sulle condizioni ambientali nelle quali conservare il Vasa e altri reperti marini. Un'umidità relativa del 55% e una temperatura di non più di 20°C rallenteranno la migrazione di acqua e ossigeno nel legno; inoltre è stata suggerita la sostituzione degli oltre 8500 bulloni di ferro con bulloni di materiale inerte.

6.3.9.2 - L'esercito di terracotta di Xian

Si tratta probabilmente del più grande ritrovamento archeologico degli ultimi 50 anni. Nel 1974 fu scoperta un'area archeologica di vaste dimensioni nella provincia di Xi'an (Cina). All'interno di quest'area era conservato il mausoleo del primo imperatore cinese Qin Shihuangdi, risalente al III secolo a.C. e costituito, tra le altre cose, da un insieme di figure in terracotta rappresentanti guerrieri dell'epoca, cavalli e carri da guerra: il cosidetto Esercito di terracotta (figura 336). Attualmente, sono stati recuperati circa 1500 guerrieri e da 7000 a 8000 statue di animali. I guerrieri erano decorati con una policromia costituita da più strati, la cui base è una lacca orientale nota come Qi-lacquer, ottenuta dalla pianta Toxicodendron vernicifluum o albero della lacca. Il principio attivo è il composto urushiolo (figura 337), attraverso la cui polimerizzazione la lacca indurisce all'aria e forma uno strato liscio, che si mantiene intatto in condizioni di umidità elevata (75-85%). Sulla lacca sono stati individuati i pigmenti riportati nella tabella 21. Particolarmente importante è la presenza dei pigmenti Blu Cinese e Porpora Cinese, di struttura chimica non dissimile da quella del celebre Blu Egiziano.

Tabella 21 - Pigmenti identificati sui Guerrieri di terracotta
Pigmento Formula
Azzurrite 2CuCO3·Cu(OH)2
Bianco d'ossa Ca5(PO4)3OH
Bianco Piombo 2PbCO3·Pb(OH)2
Blu Cinese o Han Blu BaCuSi4O10
Caolinite Al2O3·SiO2·2H2O
Cerussite PbCO3
Cinabro HgS
Ematite Fe2O3
Inchiostro Cinese Carbone
Malachite CuCO3·Cu(OH)2
Massicot PbO
Ocre gialla e rossa Fe2O3·xH2O
Orpimento As2S3
Porpora Cinese o Han Purple BaCuSi2O6
Rosso Piombo Pb3O4

Sfortunatamente, subito dopo lo scavo la policromia ha subito un degrado notevole sia sullo strato di lacca, sia sugli strati pigmentati. Segni evidenti di incendio sulle parti in legno testimoniano di un evento accaduto presumibilmente al tempo della morte dell'imperatore. Il problema principale era però la struttura porosa della lacca satura di acqua: essendo le statue rimaste interrate per 2000 anni, le condizioni di umidità si erano mantenute costantemente ad un valore ottimale. Dopo lo scavo, in conseguenza della diminuzione di umidità lo strato di lacca ha cominciato a sfogliarsi alterando anche lo strato superiore pigmentato (figura 338).

Per arrestare il processo di degradazione non era possibile intervenire trattando la lacca con i polimeri solitamente impiegati in questi casi, come nell'esempio del Vasa precedentemente descritto: la fine struttura porosa della lacca, infatti, non permette l'immissione di molecole grandi. Per consolidare la struttura era necessario sostituire l'acqua con uno stabilizzante, in modo da arrestare o rallentare il completo dessiccamento della lacca. Ciò si è ottenuto impiegando un composto chiamato HEMA o idrossimetil-metacrilato che, insieme a PEG a basso peso molecolare, polimerizza all'interno della struttura porosa della lacca consolidandola. La polimerizzazione e il conseguente indurimento della struttura è stata ottenuta irraggiando la terracotta con un fascio di elettroni per accelerare il processo senza alterare i pigmenti (figura 339), un procedimento messo a punto presso l'Università di Monaco di Baviera.

 

6.4 - Informazioni tecnologiche

6.4.1 - Introduzione

Un campo di particolare interesse per gli archeologi e gli studiosi dell’arte è quello qui riassunto come informazioni tecnologiche. Si tratta dell’insieme di informazioni riguardanti i processi tecnologici utilizzati in antichità per la manifattura delle opere d’arte o delle opere civili. Gli uomini antichi agirono da chimici ante litteram nel trasformare le materie prime di cui disponevano in artefatti adatti alle loro esigenze, sia artistiche sia della vita di tutti i giorni. Essi impararono a convertire l’argilla in ceramica, la sabbia in vetro, i minerali in metalli puri, sostanze organiche ed inorganiche in materiali coloranti. Per capire l'evoluzione della conoscenza tecnologica dell'uomo, una buona base di partenza, in molti casi insostituibile, è costituita dai testi degli studiosi del passato che, agendo quasi da cronisti, hanno tramandato le ricette utilizzate dagli artigiani del loro tempo. Alcune delle principali fonti di conoscenza sono considerate le seguenti:

  • Plinio il Vecchio (secolo a.C.) con la sua Historia naturalis,

  • l'abate Teofilo (XII secolo) che nella sua opera De Diversis Artibus descrive CHE COSA

  • Cennino Cennini (secolo a.C.) autore del trattato Il libro dell'arte,

Con l'ausilio di queste fonti e grazie allo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate, l’analisi chimica ha potuto mettere in evidenza le scoperte degli uomini del passato e descrivere le tecnologie utilizzate millenni fa.

I ricercatori che svolgono studi in questo campo solitamente operano secondo una metodogia in tre fasi:

  1. analisi strutturale del manufatto per determinarne la composizione chimica

  2. interpretazione delle possibili reazioni chimiche coinvolte nella manifattura

  3. replica in laboratorio del processo di manifattura

Anche in questo campo, ovviamente, risulta decisiva l'interazione tra il chimico analitico e l'archeologo o lo studioso d'arte che possono interpretare le conclusioni tratta dall'analisi chimica dei manufatti.

 

6.4.2 - Tecniche analitiche impiegabili negli studi di indagine tecnologica

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6.4.3 - Alcuni esempi di studi tecnologici

Nel seguito saranno descritti alcuni esempi particolarmente significativi di quali informazioni si possano avere in questo campo mediante le tecniche di analisi chimica.

 

6.4.3.1 - Tecniche di saldatura nella lavorazione dei metalli

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6.4.3.2 - Tecniche di manifattura di artefatti ceramici e vetrosi

Un esempio famoso di studio tecnologico è quello già descritto relativo alla manifattura dei vasi attici a figura rossa e corpo nero e a figura nera e corpo rosso (par. 5.4.15). La complessa tecnologia è stata elucidata negli anni '40 utilizzando tecniche di analisi superficiale. In quel caso non bastava una semplice analisi elementare del corpo ceramico e del rivestimento, che risultavano di composizione molto simile. La chiave per interpretare il processo di manifattura era la determinazione dello stato di ossidazione del ferro, che regola il colore del suo ossido: nero per lo stato Fe(II), rosso per lo stato Fe(III). I due stati di ossidazione sono chimicamente reversibili, ovvero è possibile passare dall'uno all'altro. Naturalmente, in fase di cottura prevale lo stato compatibile con l'atmosfera presente all'interno della fornace: Fe(II) in atmosfera riducente, Fe(III) in atmosfera ossidante. Oltre a questo si ipotizzò che l'argilla impiegata per le parti nere e rosse non fosse esattamente uguale: infatti, prove replicate in laboratorio hanno rivelato che le parti nere erano ottenute con un'argilla più fine, capace di sinterizzare a temperatura minore anche perchè miscelata con sostanze fondenti. Verificate sperimentalmente queste due condizioni, fu facile ipotizzare che la manifattura avvenisse secondo un processo in tre stadi

  1. cottura in ambiente ossidante e conversione di tutto il ferro a Fe(III) rosso;

  2. cottura in ambiente riducente e conversione di tutto il ferro a Fe(II) nero con sinterizzazione della sola argilla fine;

  3. cottura in ambiente ossidante e conversione del ferro della sola argilla grossolana a Fe(III) rosso, mentre il ferro dell'argilla grossolana resta Fe(II)

6.4.3.3 - Tecniche di illuminazione dei manoscritti

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6.4.3.4 - Tecnica pittorica di un artista

Attraverso la caratterizzazione della tavolozza e dei leganti utilizzati da un artista è possibile avere informazioni sulla sua tecnica pittorica. Come esempio, consideriamo la tavolozza o paletta impiegata da Jan Vermeer nei suoi dipinti. Il maestro olandese del XVII secolo aveva una profonda conoscenza dei materiali e delle tecniche utilizzate dai suoi contemporanei e dai suoi predecessori, e come molti artisti a lui coevi utilizzava una paletta molto limitata se confrontata con quelle in uso attualmente; il motivo principale era che ancora nel XVII secolo i pigmenti disponibili erano pochi, dovevano essere compatibili con i leganti e resistere all'azione del tempo. Essi andavano preparati al momento dell'uso e avevano un costo non indifferente. Molte opere di Vermeer sono dipinte con nove-dieci pigmenti al massimo, ma attraverso miscele, giustapposizioni e abile lavoro di pennello egli creava l'impressione di un numero illimitato di tinte. I muri affrescati in bianco delle opere di Vermeer sono un buon esempio: in essi, le tonalità di bianco e grigio sono rese in modo da esaltare la bellezza dei personaggi rappresentati davanti, come ne La merlettaia (figura 364). Vermeer impiegava Bianco Piombo in miscela con con pigmenti neri, terre d'ombra e persino Blu Oltremare per ottenere le infinite tonalità di grigio.

La più complessa tra le tavolozze di Vermeer era quella impiegata per rendere i toni carne. Essa, in base alle analisi, era composta da:

  • Bianco Piombo

  • Ocra gialla

  • Vermiglione

  • Lacca di Robbia

  • Terre marroni

  • Terra verde

  • Terra d'ombra

  • Nero di carbone

In un'opera del pittore Frans van Mieris, contemporaneo di Vermeer, la figura allegorica Pittura (figura 364) stringe tra le mani la tavolozza con i colori necessari per le tonalità carne, quelle di maggior valore in un'opera fatta su commissione.

Oltre ai materiali citati, Vermeer utilizzava anche i pigmenti Giallo di Piombo e Stagno, Ocra rossa e Smalto o Smaltino (un pigmento vetroso a base di cobalto) nonchè i coloranti Arzica (un colorante ottenuto dall'Erba Guada e impiegato per avere una lacca gialla) e Indaco.

I leganti impiegati da Vermeer erano per lo più oli siccativi come l'olio di lino; in qualche caso, es. per lo Smalto, è stato individuato un legante proteico composto da colla animale.

Di particolare rilevanza nella tecnica pittorica di Vermeer è l'uso del glazing o vetrinatura. Questo metodo consiste nello stendere uno strato estremamente sottile di colorante o di pigmento sopra uno strato opaco, eventualmente colorato. L'effetto che si ottiene ha una particolare rilucenza che ricorda quella del vetro colorato, ed è impossibile da ottenere per miscelazione diretta dei colori. I materiali più utilizzati per la smaltatura erano naturalmente i coloranti, essendo trasparenti per natura: Robbia, Indaco e varie lacche gialle, principalmente Arzica; si impiegava anche il Blu Oltremare. Alcuni esempi di glazing nelle opere di Vermeer sono i seguenti:

  • nella Fanciulla con due cavalieri, Vermeer prima dipinge lo strato chiamato underpainting, modellando le forme e creando effetti di luce con bianco e Vermiglione (figura 364), poi applica uno o due sottilissimi strati di Lacca di Robbia, creando un rosso brillante e luminoso, simile al vetro dipinto (figura 364)

  • ne La lattaia (figura 364) le maniche del soggetto hanno un verde luminoso molto usato da Vermeer, ottenuto con Blu Oltremare + bianco come underpainting e l'Arzica gialla per il glazing (figura 364)

  • infine, ne La stradetta (figura 364), il fogliame sulla sinistra ha una tinta verde-blu piuttosto innaturale, che in realtà è dovuta all'underpainting: in questo caso, probabilmente, l'Arzica gialla sovrapposta si è degradata o è stata rimossa da un restauro troppo zelante; lo stesso problema è stato verificato nella Ragazza con turbante (figura 364), nel cui sfondo sono state identificate tracce di Indaco e Arzica che costituivano la vetrinatura originale, ora non più percepibile

Curiosamente, la tecnica del glazing appare nell'opera Allegoria della pittura (figura 364) dove il pittore sulla destra sta dipingendo la corona d'alloro della sua modella, le cui foglie naturalmente devono essere verdi; apparentemente il pittore sembrerebbe dipingerle in blu ma in realtà egli sta preparato la tinta underpainting sulla quale apporrà una lacca gialla.

6.4.3.5 - Tecniche di produzione di materiali coloranti

Come si è detto in precedenza (capitolo 5.2), la maggior parte dei pigmenti e dei coloranti utilizzati in antichità erano materiali di origine minerale, vegetale o animale che venivano trasformati fisicamente, mentre alcuni si ottenevano mediante trasformazioni chimiche, es. Blu Egiziano, Blu Maya. La capacità di realizzare queste sostanze testimonia di una conoscenza tecnologica notevole. Un caso interessante è quello dell’ematite (a-Fe2O3), utilizzato come pigmento rosso già nel Paleolitico. Questa sostanza può essere ottenuta dal minerale presente in natura oppure per riscaldamento a 250°C della goetite (a-FeOOH), minerale giallo che sottoposto a riscaldamento tende a deidratarsi e a trasformarsi nell'ematite secondo la reazione

2a-FeOOH a-Fe2O3 + H2

Questa reazione era nota al tempo di Roma, in quanto descritta da artisti come ricetta per preparare pigmento rosso. Evidenze archeologiche in siti del Paleolitico, supportate da analisi effettuate con la tecnica XRD, suggeriscono però che questo cambiamento di colore (giallo ® rosso) fosse conosciuto già nel Paleolitico, il che farebbe presumere una certa abilità dei nostri antenati preistorici nel reperire risorse naturali, selezionando quelle più opportune allo scopo, e nel trattarle fisicamente. Mediante la spettroscopia XRD si è verificato sperimentalmente che pigmenti rossi in pitture rupestri potevano derivare sia da ematite naturale, sia da ematite ottenuta per riscaldamento di goetite. Una questione di difficile risoluzione è se il riscaldamento sia stato intenzionale oppure no: nel sito paleolitico di Troubat (Francia sudoccidentale) risalente ad 8000-10000 anni fa, sono stati individuati strati di ematite corrispondenti ad entrambe le tipologie descritte. Un'ipotesi plausibile è che l'ematite ottenuta per riscaldamento avesse impieghi particolari, per esempio rituali o magici.

 

6.5 - Informazioni aggiuntive

6.5.1 - Introduzione

Con informazioni aggiuntive va inteso un insieme vastissimo di nozioni che possono essere apprese mediante l’analisi chimica dei reperti, che non rientrano nei settori descritti nei precedenti paragrafi. Come si può intuire si tratta di un campo difficile da delimitare; un breve elenco non esaustivo delle applicazioni può essere il seguente:

  • usi e costumi: innumerevoli informazioni si hanno dall’analisi di reperti relativi alla vita di tutti i giorni
    • il tenore di vita delle genti
    • l’impiego di determinati oggetti
  • abitudini alimentari: sono informazioni che si possono ottenere dall’analisi di
    • residui alimentari rinvenuti in contenitori
    • residui di tessuti umani
  • influenza dell’uomo sull’ambiente, dell’ambiente sull’uomo e sui suoi manufatti: si possono avere informazioni su
    • contaminazione antropogenica del territorio in età remota
    • cause di morte dovute a fattori ambientali
    • interazione dei manufatti con l’ambiente in cui sono sepolti

Nel seguito sono descritti alcuni esempi particolarmente suggestivi ed interessanti di applicazioni.

 

6.5.2 - Tecniche analitiche impiegabili in questo campo

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6.5.2.1 - Analisi degli inchiostri negli scritti di Galileo

Uno studio archeometrico molto interessante riguarda gli scritti di Galileo Galilei conservati nella Biblioteca Nazionale di Firenze e noti come Manoscritti Galileiani (Ms. Gal.). Essi sono databili globalmente a cavallo del XVII secolo, ma ricostruirne l’esatta sequenza temporale è importante per gli studiosi di Galileo che vogliano capire lo sviluppo del suo pensiero scientifico. Molti fogli non sono datati, tra questi ha particolare importanza il trattato sul moto naturale (Ms. Gal. 72, figura 365); altri invece hanno chiari riferimenti temporali come l’agenda personale (Ms. Gal. 26, figura 365). Sfruttando questi riferimenti, anche sulla base di evidenze stilistiche, è possibile ricostruire la sequenza correlando la composizione dell’inchiostro di un documento incognito con quella di altri documenti datati. In particolare, è possibile determinare due cronologie:

  • cronologia relativa dal confronto degli inchiostri in fogli diversi o in parti diverse all’interno dello stesso foglio

  • cronologia assoluta dal confronto degli inchiostri dei fogli con quelli di documenti datati (lettere, agenda personale)

In collaborazione con storici italiani e stranieri, il lavoro archeometrico è stato effettuato da ricercatori dell’Università di Firenze, i quali hanno utilizzato la tecnica PIXE per determinare la distribuzione elementare degli inchiostri (figura 365). Grazie all’elevata sensibilità e capacità di risoluzione, la PIXE è particolarmente idonea a studi di questo tipo dove è necessario poter distinguere punti distanti tra loro frazioni di mm. Gli inchiostri usati da Galileo sono metallogallici, quindi a base tanninica con sali di ferro o zinco e tracce di elementi metallici che possono essere rivelate dalla PIXE.

I requisiti necessari per il lavoro di riordino temporale sono due:

  1. si possa dimostrare l’esistenza di periodi durante i quali sia stata utilizzata una sola sorgente di inchiostro

  2. i profili elementari determinati con la PIXE siano sufficientemente consistenti all’interno di un periodo ma sufficientemente diversi da periodo a periodo: l’inchiostro ai tempi di Galileo era sicuramente fatto in casa e quindi è ragionevole aspettarsi che almeno i rapporti quantitativi fra gli ingredienti variassero da una partita a un’altra

L’analisi dei manoscritti datati ha confermato che questi requisiti sono soddisfatti. Un esempio è rappresentato dal Ms. Gal. 14 che è costituito da diciassette lettere datate tra il 1600 e il 1636: sottoposto ad analisi PIXE esso ha fornito i risultati riportati nella figura 365. Si può notare come siano individuabili diversi periodi in base alla distribuzione degli elementi K, Fe, Cu, Zn, Pb e Ni.

6.5.2.2 - Analisi dell'Evangelario Eusebiano

In questo studio, effettuato presso le Università del Piemonte Orientale e di Torino in collaborazione con il Museo del Duomo di Vercelli, sono stati analizzati gli inchiostri utilizzati nella stesura del manoscritto noto come Evangelario Eusebiano o Codex Vercellensis o Codice A, Vercelli Gospels presso gli studiosi anglosassoni (figura 365). Si tratta della più antica copia in Latino dei quattro Vangeli esistente al mondo. Esso sarebbe appartenuto a San Eusebio da Vercelli, morto nel 371 d.C., ed è perciò attribuito al IV secolo; alcune pagine, tuttavia, sembrerebbero postume e databili al IX secolo sulla base di considerazioni stilistiche. Il testo dell’Evangelario è scritto su pergamena con inchiostri nero e rosso; ci sono inoltre alcune note scritte con inchiostro nero, evidentemente postume.

L’analisi chimica degli inchiostri è stata effettuata con la spettroscopia Raman (figura 365) per la determinazione dei composti e con la spettroscopia XRF (figura 365) per la determinazione delle impurezze metalliche. Essa ha fornito i seguenti risultati:

  • l‘inchiostro rosso è costituito da Cinabro (HgS) in tutte le pagine, tranne in quelle attribuite al IX secolo nelle quali è stato impiegato il Minio (Pb3O4); i due composti sono chiaramente distinguibili sulla base dello spettro Raman (figura 365), mentre lo spettro XRF evidenzia la presenza contemporanea di Hg e Pb nelle pagine originarie, e di Pb soltanto nelle pagine postume

  • l’inchiostro nero è costituito ; e contiene impurezze metalliche di ferro, rame, piombo e manganese; il tenore di rame e piombo, tuttavia, è maggiore nelle pagine del IV secolo, mentre è più basso in quelle considerate postume come si vede dagli spettri XRF (figura 365). Le note, infine, contengono una quantità assai più elevata di rame, come si nota dallo spettro della figura 365

Sulla base dei risultati descritti è evidente che le pagine considerate postume e le note sono state scritte con inchiostri diversi da quelli utilizzati nelle pagine originali. Non è ovviamente possibile attribuire una data alle parti postume (compito adatto ad una tecnica di datazione), ma l’indicazione che si ha dall’analisi chimica è la conferma che i fogli sono stati vergati in due periodi diversi o, quantomeno, da due mani diverse.

6.5.2.3 - Analisi degli inchiostri della Bibbia di Gutenberg

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6.5.2.4 - Analisi sulla Sindone

La Sacra Sindone (figura 365) è senza dubbio uno dei reperti archeologici più famosi al mondo. Su di essa sono state fatte alcune analisi riguardanti la natura chimica dei residui vegetali e minerali individuati nel tessuto, primi tra tutti quelli che compongono l'immagine dell'individuo rimasto avvolto nel lino secoli fa e da molti ritenuto essere Gesù Cristo. Le analisi di datazione del lino hanno avuto una eco amplissima, soprattutto per il fatto che tre laboratori differenti, impiegando la tecnica del radiocarbonio, sono stati concordi nel datare i campioni a loro pervenuti al XIV secolo, una conclusione chiaramente in disaccordo con l'interpretazione ufficiale della Sindone come sudario di Cristo

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7 - Bibliografia consigliata

7.1 - Libri

7.1.1 - Materiali lapidei

7.1.2 - Materiali coloranti

  • I colori degli antichi, L. Colombo, 1995 Nardini Editore - Fiesole (FI), ISBN 88-404-4035-6, 194 pagg., € 21.00, acquistabile su http://www.francopanini.it

  • La chimica nel restauro - I materiali dell'arte pittorica, M. Matteini e A. Moles, 2002 Nardini Editore - Franco Cosimo Panini Editore - Firenze, ISBN 88-404-4007-0, 380 pagg., € 31.00, acquistabile su http://www.francopanini.it

  • Artists' Pigments - A handbook of their history and characteristics, volume 1, Oxford University Press - New York, ISBN 0-89468-086-2, 300 pagg., $35.00, acquistabile su http:// www.oup-usa.org

  • Artists' Pigments - A handbook of their history and characteristics, volume 2, Oxford University Press - New York, ISBN 0-89468-260-1, 232 pagg., $29.95, acquistabile su http://www.oup-usa.org

  • Artists' Pigments - A handbook of their history and characteristics, volume 3, Oxford University Press - New York, ISBN 0-89468-256-3, 368 pagg., $65.00, acquistabile su http://www.oup-usa.org

7.1.3 - Materiali vetrosi

  • The science and archaeology of materials, J. Henderson, 2000 Routledge - Londra, ISBN 0-415-19934-4, 352 pagg., £ 20.99, acquistabile su http://www.routledge.com

  • Five thousand years of glass, H. Tait, 1995 The British Museum Press, Londra, ISBN 0-7141-1756-0, 256 pagg., £ 18.99, acquistabile su http://www.thebritishmuseum.co.uk

  • Vetro e ceramica, atti della IV Scuola Nazionale di Chimica per i Beni Culturali, 2002 Genova

7.1.4 - Materiali ceramici

  • The science and archaeology of materials, J. Henderson, 2000 Routledge - Londra, ISBN 0-415-19934-4, 352 pagg., £ 20.99, acquistabile su http://www.routledge.com

7.1.5 - Materiali metallici

  • The science and archaeology of materials, J. Henderson, 2000 Routledge - Londra, ISBN 0-415-19934-4, 352 pagg., £ 20.99, acquistabile su http://www.routledge.com

7.1.6 - Materiali organici

7.1.7 - Applicazioni

 

7.2 - Siti web

7.1.1 - Materiali lapidei

7.1.2 - Materiali coloranti

7.1.3 - Materiali vetrosi

7.1.4 - Materiali ceramici

7.1.5 - Materiali metallici

7.1.6 - Materiali organici

7.1.7 - Applicazioni

 

7.3 - Periodici

7.1.1 - Materiali lapidei

7.1.2 - Materiali coloranti

7.1.3 - Materiali vetrosi

7.1.4 - Materiali ceramici

7.1.5 - Materiali metallici

7.1.6 - Materiali organici

7.1.7 - Applicazioni